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diretto da Romano Luperini

Indagine sul Lonfo (con ripasso)

Piccolo laboratorio di analisi poetico-grammaticale e focus sul metodo scientifico a partire da una poesia metasemantica.

«Prof, cosa facciamo oggi?»

«Oggi facciamo il Lonfo».

«E che cos’è?»

«Come che cos’è? Il Lonfo! Non lo sapete?»

Silenzio e sguardi interrogativi.

«Ma come non lo sapete? Davvero? Allora preparate il quaderno degli appunti e prendete questi fogli, uno ciascuno».

«Li incolliamo, prof?»

«Sì ma dopo».

«Li possiamo ritagliare, prof?»

«Posa quelle forbici, ho detto dopo».

Comincia così, più o meno come al solito – piccolo teatrino di domande e risposte, gioco delle parti in cui tutti fingiamo, io e la classe, che il copione ben noto ci sorprenda e non ci diverta – la lezione dedicata al Lonfo, poesia metasemantica di Fosco Maraini, dalla raccolta Gnosi delle Fànfole (La nave di Teseo 2019, ristampa della raccolta uscita per la prima volta in edizione fuori commercio nel 1966 e poi, ampliata, nel 1994 per Baldini & Castoldi).

Il Lonfo non vaterca né gluisce

e molto raramente barigatta,

ma quando soffia il bego a bisce bisce

sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna

arrafferia malversa e sofolenta!

Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna

se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto

che bete e zugghia e fonca nei trombazzi

fa lègica busìa, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi

gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto

t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

L’ho proposta a settembre, in un laboratorio di un paio d’ore (abbondanti) per due classi seconde della secondaria di primo grado, come ripresa di cose già fatte in prima e semina di concetto e metodo per il nuovo anno – che, tra le altre cose, è quello delle scoperte geografiche, e scientifiche, e delle rivoluzioni culturali e politiche.

L’attività aveva dunque obiettivi di varia natura: di base, il ripasso delle nozioni di metrica e poesia relative al sonetto, alla misura del verso, delle strofe, alle rime, alle figure di suono in un componimento dall’architettura rigorosamente classica che è, per l’appunto, tutto costruito sul suono, sui richiami fonici e armonici, sul ritmo, apparentemente sganciato dal significato. Da qui, abbiamo poi ragionato sulla lingua di questa poesia, che «sembra italiano ma non è», e sulle strutture morfologiche che è possibile riconoscere: tra queste, ci siamo soffermati sulle forme verbali, le abbiamo isolate, analizzate (il ripasso di grammatica!), ne abbiamo ipotizzato i possibili significati. Infine, a partire da un quadro complessivo di azioni che il lonfo «fa o non fa», di predicati che ne definiscono le caratteristiche, siamo passati al piano dell’interpretazione, provando a rispondere alla domanda: che cos’è il lonfo? L’ultimo momento dell’attività, dedicato alla riflessione consapevole e alla metacognizione sul lavoro svolto, ci ha portati a ragionare, insieme al collega di matematica e scienze, sul metodo utilizzato per l’indagine, sui concetti di classificazione, di coerenza, sul percorso attraverso cui ognuno traccia la propria strada verso la conoscenza.

A proposito di quest’ultimo aspetto, e prima di riportare nel dettaglio i contenuti delle varie fasi di lavoro, è forse necessaria una breve premessa metodologica. Da qualche anno, complice anche un orario scolastico ben studiato, ho la possibilità di lavorare su classi parallele in sinergia coi colleghi – spesso matematica e scienze, più sporadicamente arte: questa possibilità si è tradotta nel tempo in un mutamento profondo del nostro approccio alle discipline che insegniamo e, dunque, rispetto a ciò che portiamo in classe. Lo sguardo «multifocale» offerto da un’integrazione autentica fra discipline permette di lavorare sulla complessità e richiede a sua volta una proposta didattica dal respiro ampio – con percorsi che possono durare poche ore, come in questo caso, o articolati su diverse settimane, con lavori in gruppo e a classi aperte. Non mi sembra utile riprendere qui la vetusta contrapposizione tra le due culture, né cosa si intenda per interdisciplinarità in una fase in cui i profondi cambiamenti del mondo si riverberano in modo problematico e talvolta ancora disconnesso sulla scuola. Mi limito invece a proporre un piccolo esempio di come un decentramento consapevole rispetto alla tradizionale separazione tra prospettive disciplinari tradizionalmente considerate lontane possa aprire nuovi spazi di indagine e costruzione di senso, aiutando a cogliere «ciò che è tessuto insieme» (E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore 2000, p. 6).

Le fasi di lavoro, dunque.

Ho lasciato qualche istante, dopo aver distribuito copie della poesia, perché la classe guardasse il testo, lo leggesse rapidamente in silenzio.

«Ah, ma è una poesia… Ma se facciamo la poesia, che c’entra il prof di matematica?»

«La matematica c’entra sempre».

«Ma non è in italiano!»

«Come no? Leggi bene».

«Ma è dialetto!»

«Quale dialetto?»

«Ma è latino!»

«Non mi pare; guarda, ci sono articoli e preposizioni».

«Ma prof, non si capisce niente!»

«Sicuro? Proprio niente niente?»

«Ma è una lingua inventata!»

Ecco. Non ho commentato, ma ho chiesto di appuntare tutte le osservazioni che avevano fatto fin lì. Poi ho letto ad alta voce. «La poesia metasemantica va piuttosto recitata o letta ad alta voce, che scorsa con gli occhi in silenzio, come si fa normalmente con i versi tradizionali. È legata al suono; al corpo, alla fisiologia, alle passioni della parola. Per questo, anche, va letta con una certa lentezza; correndo, si riduce a un bantù, un tocarico, un burusciaschi insensato. Bello sarebbe cantarla!», raccomanda Fosco Maraini nella sua Premessa alle Fànfole (pp. 41-42 dell’edizione 2019). Non l’ho cantata, ma ho fatto del mio meglio per animarne i suoni e le sottili misteriose ironie. Qualcuno in classe aggrottava le sopracciglia, qualcuno sorrideva. Proprio dai sorrisi siamo partiti: per concludere che in qualche modo incomprensibile erano quei suoni a farci sorridere, quelle parole strambe. Ne abbiamo scelte alcune: vincitrici assolute, le rime in –azzi, e non c’era da stupirsi.

Da qui, abbiamo rintracciato le altre rime, ripassato lo schema alternato, separato le strofe, riconosciuto la struttura del sonetto, misurato la lunghezza dei versi, tutti endecasillabi.

«Ma qui sono dodici, prof».

«Non credo, rileggi con me e pesa bene la voce».

«Ah, no, sono undici. Ma prima erano dodici, come ha fatto?»

«Ehh, è una magia».

«Mi prende in giro, prof?»

«Abbastanza, sì». Sinalefe e dialefe non le avevamo studiate bene in prima, ma hanno fatto il brodo metrico più saporito.

Le allitterazioni ci hanno poi aiutati a tornare al nostro punto di partenza: i suoni di questa poesia senza senso che, in un modo misterioso, fanno significato. Maraini spiega ancora che «nel linguaggio metasemantico […] proponi dei suoni e attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze. È dunque la parola come musica e scintilla». L’intervento personale richiesto al lettore è massiccio, la proposta fonetica del poeta va colmata di significati non univoci ma basati su qualcosa di riconoscibile e comunicabile. «È come Drilla, prof!», ha osservato giustamente qualcuno, ricordando il libro di Andrew Clements, un classico della lettura ad alta voce nelle mie classi prime, incentrato sulle vicende del giovane protagonista che decide di dare un nuovo nome alla penna, chiamandola appunto «drilla», e per questo intraprende una battaglia col dizionario, con l’insegnante di lettere, col mondo adulto. Appropriata la connessione, e tanto utile, perché ci ha permesso di riprendere e precisare i concetti di significante e significato che già avevamo introdotto l’anno scorso.

Prima di passare all’interpretazione, ho chiesto alla classe di soffermarsi su alcune parole riconoscibili nella poesia, perché appartenenti alla lingua italiana – gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni, alcuni avverbi, pochi verbi, pochi aggettivi. Le abbiamo analizzate rapidamente, e rapidamente abbiamo ripassato le categorie di parole variabili e invariabili. Infine, ho chiesto di scegliere uno dei verbi «inventati», di analizzarne la forma, di ipotizzarne il significato in base al contesto. Per evitare sovrapposizioni e per avere materiale sufficiente per la fase successiva, abbiamo condiviso le scelte e scritto i verbi alla lavagna. La classe ha lavorato in gruppi da quattro, seguendo la routine «1-2-4-tutti», altamente funzionale e inclusiva (tutti lavorano, tutti prendono parola): per un minuto – cronometro alla mano! – si riflette da soli in silenzio sulla richiesta, per due minuti ci si confronta a coppie, per quattro minuti il gruppo discute e seleziona le varie proposte, poi si riporta alla classe l’esito della discussione di ciascun gruppo.

A questo punto, avevamo dodici verbi «inesistenti» (calvinianamente) alla lavagna, ciascuno con la sua definizione e almeno un esempio di uso in contesto oltre a quello della poesia. Le ragioni che hanno fatto propendere i gruppi per il significato scelto sono state esplicitate oralmente: ancora una volta, il suono ha determinato il senso; e, in modo per me abbastanza sorprendente, hanno agito anche i rapporti tra il verbo da spiegare e le altre parole vicine. Rapporti che ovviamente non possiamo definire semantici ma piuttosto legati a una suggestione, a un immaginario generato dai suoni stessi. «Nel linguaggio metasemantico le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, a improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti», spiega ancora Maraini. La mia sorpresa, allora, non era tanto dovuta alle associazioni di pensiero, ma al fatto che i dodici gruppi, pur lavorando separatamente, avessero attribuito ai verbi presi in esame dei significati tra loro coerenti, che rimandavano a movimenti fisici (a volte scomposti o violenti), a una certa scontrosità di carattere, a un conflitto latente o manifesto tra il lonfo e il «tu» della poesia: barigattare = sollevare, attivare; archipattarsi = abbassarsi, acquattarsi; cionfare = vincere; sbidugliare = picchiare; alloppare = aggredire; sbernecchiare = insultare coi gesti; accazzare = reagire in modo violento. Eccetera.

E dunque, per concludere il laboratorio, abbiamo chiesto ai gruppi di rispondere alla domanda «che cos’è il lonfo?» e di motivare la risposta con ragioni tratte dal testo. Per alcuni gruppi il lonfo è venuto fuori come animale peloso, solitario, pacifico finché non sente di essere minacciato. Per altri è un anziano signore dall’animo freddo e tenebroso, aggressivo nei confronti delle altre creature, e che per questo si è ritirato a vivere nei boschi. Per altri ancora, è un uomo che si aggira per la città, pigro ma litigioso, che dopo una zuffa piange pentito… E così via, con interpretazioni fantasiose, libere ma in qualche modo agganciate al testo e alle sue suggestioni. Molto utile è stato poi soffermarsi sulle interpretazioni incongrue o non accettabili perché basate su elementi non desumibili dal testo e dai significati su cui avevamo concordato.

«Ma quindi: da cosa siamo partiti per provare a descrivere il lonfo?»

«Dai suoni della poesia».

«Dalle informazioni del testo».

«Quali informazioni, visto che le parole della poesia non hanno un significato nella lingua italiana?»

«Dalle informazioni su cui eravamo d’accordo tutti».

«Ah, ma è come coi piropolli che abbiamo fatto in matematica!»

I piropolli? Mi sono chiesta se fosse un’altra poesia di Maraini, ma il collega e i ragazzi mi hanno spiegato che, per felice coincidenza, i piropolli – come i pancoffi, i rompucci, i vertelli – erano parte di un problema affrontato il giorno prima, in cui bisognava individuare i tratti caratteristici di alcune figure e, in base a questi, suddividerle nelle quattro categorie dai nomi «metasemantici». Non esiste una sola possibile definizione di piropollo, ma un ampio ventaglio di opzioni, tutte ugualmente accettabili purché coerenti con quanto rappresentato.

«Piropollo è una figura formata da un quadrilatero contenente un triangolo, con un cordino che parte da un vertice».

«Da cosa lo capisci?»

«Beh, la figura 5 non è piropollo perché gli manca la figura dentro, la 6 perché ha dentro un rettangolo, la 7 perché ha fuori un triangolo, la 8 perché ha due cordini».

«E quindi il vero piropollo è la figura 10!»

«E la figura 9?»

«Quella non è piropollo perché fuori c’è un pentagono».

«Ma il piropollo non potrebbe essere semplicemente un poligono qualsiasi che ne contiene uno che ha un numero minore di lati?»

«Vero prof… Ma allora qual è la risposta giusta?».

«La risposta giusta è come il Lonfo: lo decidi tu, basta che sia coerente con le premesse». Piropollo-non piropollo. Lonfo-non lonfo. Ma anche, per il nostro lavoro: sorpresa-non sorpresa.

Ecco. Oltre al ripasso, oltre al gioco rigoroso della poesia, oltre all’immersione in un mondo di suoni che danno senso, ci interessava mettere a fuoco un metodo di indagine, basato sui dati e sui criteri condivisi, discussi, verificati. Lo abbiamo fatto con un componimento metasemantico in versi, ma non cambia poi molto se lo sostituiamo con un esperimento nel laboratorio di scienze o con l’osservazione del firmamento con un cannocchiale.

«Ma è il metodo scientifico di Galileo!»

«Cioè? In che senso?»

«Eh, perché avevamo i dati ma li abbiamo dovuti usare, e alcuni lonfi andavano bene e altri no».

«Prof, ma che c’entra la letteratura con Galileo?»

«La letteratura c’entra sempre», dice qualcuno dal fondo dell’aula.

Esatto. Galileo ve lo spiego nei prossimi mesi. Per ora va bene così.

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