Inchiesta sulla letteratura Working class /5 – Matteo Rusconi
Prosegue l’inchiesta sulla letteratura working class, avviata qualche settimana fa, dando voce al poeta Matteo Rusconi. Si ricorda che la pubblicazione dell’inchiesta ha cadenza quindicinale.
Da qualche anno si è affermata anche in Italia l’espressione letteratura working class per designare i testi che mettono al centro l’autorappresentazione di lavoratori a basso reddito, di figli di operai nonché di esponenti della classe lavoratrice precaria dei servizi, delle pulizie, della ristorazione, della logistica, della cura alle persone anziane. Non è un pranzo di gala (2022) di Alberto Prunetti, curatore tra l’altro della collana “Working Class” per Alegre, è il saggio che ha contribuito in modo decisivo ad aprire un dibattito in questo senso.
La categoria in questione riabilita le nozioni di classe e di conflitto, da lungo tempo rimosse, e si distingue dal generalizzato interesse che l’editoria e l’accademia hanno rivolto alle tematiche del lavoro. Con questa inchiesta vogliamo dunque aprire uno spazio di riflessione dedicato a coloro che, a vario titolo, potrebbero rientrare nei campi di scrittore/scrittrice “di classe operaia“ o di letteratura working class.
D. Come ti rapporti alle categorie in questione? Ritieni che la tua scrittura possa rientrarvi?
R. Se “scrittore working class” significa mettere su carta partendo da una condizione reale di appartenenza e di lavoro, allora sì, lo sono. E non lo rivendico per moda, ma per coerenza con la mia esperienza. Ciò che racconto nasce da anni passati in fabbrica, tra rumori assordanti e chiazze d’olio, tra turni di dieci ore e pause pranzo sempre troppo corte; è lì che si sono formati la mia lingua e il mio sguardo, il contrasto tra l’io scrittore e l’io lavoratore.
Penso che il fatto che oggi esista una categoria letteraria working class sia davvero importante, perché restituisce dignità a una letteratura sempre rimasta invisibile, ai margini dei salotti di cultura. Ma perché abbia davvero senso, non deve trasformarsi in una moda editoriale, in uno stile per fare marketing.
Detto questo, non mi è mai importato molto avere un’etichetta; piuttosto, per me conta di più che la scrittura resti fedele alla realtà da cui nasce; quindi, sì, penso che la mia abbia a che fare con queste due categorie, anche se preferisco concentrarmi più sul contenuto che sul nome da attribuirgli.
D. Come scrittore svolgi due lavori: uno è il tuo lavoro “salariato/dipendente”, quello che ti dà da vivere; l’altro è invece quello della scrittura. Come vivi questa duplice identità e come riesci a conciliare i due mestieri?
R. Scrivere e lavorare sono spesso due mondi che si urtano e si sottraggono tempo ed energie a vicenda. Il lavoro che mi dà da vivere assorbe forza fisica, vivacità mentale e, a volte, la voce; eppure, è da lì che arrivano le immagini, i suoni, le sensazioni e le tensioni che poi finiscono nei testi.
Per me scrivere non è solo una distrazione da incastrare nel tempo libero e nemmeno il mio mestiere: è un’esigenza. Il fatto di essere immerso in un sistema che ti chiede la prestazione continua, che ti ingabbia nella produttività e ti ruba il pensiero, lo rende il momento in cui mi riprendo lo spazio per riflettere, sentire, ascoltarmi. Non sempre ci riesco, a volte è una lotta contro la stanchezza e contro il ritmo del salario. Ma è uno dei pochi gesti non alienati, che non ha regole imposte né padroni. E questo, per me, basta a dargli un senso.
Non ho una formula per far conciliare le due cose: spesso scrivo rubando tempo alle pause, alla notte, approfittando di ogni singolo momento in cui mi è concesso. Vivo questa duplice identità come una tensione costante ma necessaria: da una parte il lavoro che mi consuma, dall’altra la scrittura che mi salva.
D. Con quali scelte formali metti a tema il lavoro e una condizione di classe? Più in particolare quali generi, strumenti espressivi e forme (memoria, autobiografia, romanzo, personal essay, poesia, graphic novel) ritieni più appropriati per rappresentare questa condizione
R. Mettere a tema il lavoro significa raccontare esperienze che non vengano da fuori ma che ti siano passate sotto la pelle, nella propria carne. E questo sicuramente condiziona le mie scelte formali: prediligo usare un linguaggio crudo, ruvido, che sia vicino all’orale e che non abbia vergogna di sporcare il foglio. Non posso certo utilizzare una lingua pettinata, pulita, in stile “poetichese” per descrivere la fatica e il sudore!
Credo che qualsiasi mezzo sia valido per narrare queste tematiche; personalmente, la poesia è il mio canale naturale. Non tanto per elevare le cose che racconto, ma perché mi permette di tagliare tutto il superfluo arrivando dritto alle immagini, conducendo ogni messaggio in maniera più schietta, senza costruire troppe trame attorno.
Ultimamente mi sto mettendo alla prova con racconti brevi e testi ibridi in cui la prosa si sporca di poesia e viceversa. Sperimentare nuovi generi è per me un modo per ampliare gli strumenti con cui esprimermi; è una sfida, un modo per uscire dalla mia comfort zone poetica e trovare nuove vie per dare voce a questa urgenza espressiva.
D. Quali letture hanno avuto maggiore importanza per la tua formazione e qual è il tuo rapporto con la tradizione letteraria? Ci sono autori e autrici che sono diventati per te dei punti di riferimento? Hanno contato o contano di più autori italiani o stranieri?
R. Quando ho iniziato ad affrontare questi temi, non avevo modelli a cui appoggiarmi; nella mia formazione scolastica, letteraria e personale, nessuno mi aveva mai fatto leggere testi che parlassero del lavoro nella sua realtà quotidiana. Ho cominciato, quindi, la mia ricerca partendo dalla poesia, la lingua che meglio conosco e con cui riesco a toccare davvero le cose; poi sono arrivate la narrativa, qualche saggio e una serie di voci che lo raccontavano da dentro, senza mediazioni. Tra gli autori che mi hanno segnato di più posso citare i cosiddetti poeti operai degli anni Settanta – Brugnaro, Di Ruscio, Di Ciaula – e da loro poi ho ricostruito una genealogia personale; fondamentali sono state anche le letture di Vogliamo Tutto di Nanni Balestrini, della rivista Abiti Lavoro e di un numero speciale de Il Calendario Del Popolo dedicato interamente alla poesia operaia. Queste non solo hanno formato il mio background; hanno fatto sì che creassi una sorta di legame con gli autori della tradizione letteraria italiana accogliendo e rilanciando la loro eredità.
Per quanto riguarda la letteratura straniera, mi sono appassionato ai poeti operai cinesi: ho recuperato alcune antologie che raccolgono le voci provenienti dal Guangdong, una delle province più indistrializzate della Cina; tra queste, quella di Xu-Lizhi la sento più vicina perché nei suoi versi ho ritrovato la stessa stanchezza e lo stesso senso di vuoto che mi portavo a casa alla fine di ogni turno.
D. L’accesso a pratiche culturali tipiche dei ceti medi per chi proviene da un contesto familiare subalterno può produrre un senso di perdita delle origini – quella “melanconia di classe” di cui parla Cynthia Cruz nell’omonimo saggio – e la percezione di essere un “transfuga di classe”. Come vivi questa situazione di ambivalenza?
R. Ho lavorato per più di vent’anni in un’officina metalmeccanica, poi il licenziamento mi ha dato l’occasione di cambiare mestiere: ora faccio l’insegnante. Questo passaggio mi ha tolto dalle mani il tema a me caro, quella della vita passata a dare del tu a un tornio, facendomi provare un senso di ambivalenza che posso attribuire alla mia classe sociale.
Detto questo, il senso di ambivalenza legato alla “melanconia di classe” o al sentirsi “transfuga” non mi appartiene fino in fondo; lo vivo come un dato di fatto, senza peso o nostalgia. Preferisco concentrarmi su quello che posso fare ora, senza rimuginare troppo su cosa ho perso oppure su quale classe appartenere. Scrivere del tema lavoro mi ha dato una connotazione forte e tuttora, nonostante io non lavori più in fabbrica, mi sento sempre parte della classe operaia perché ne porto ancora addosso l’odore e la fatica.
D. Perché scrivi? Per chi scrivi? Come sei arrivato a scrivere? Come rispondi alla tendenza dell’industria editoriale a cercare di adattare il racconto della classe a quel paradigma vittimario che Prunetti definisce “misery porn”?
R. Mi sono avvicinato alla poesia per caso, dopo aver letto I fiori del male di Baudelaire. Avevo circa vent’anni e il poetare era solo un gioco, un modo per imitare la figura del poeta maledetto che, in quel periodo, mi affascinava molto. Scrivevo solo per me stesso, senza una vera direzione, un po’ per bisogno, un po’ per esorcizzare il mio lato operaio. Con gli anni, però, la fabbrica ha smesso di essere solo un luogo di angoscia: è diventata inchiostro, entrando con prepotenza nei miei versi e trascinandosi dietro rumori e corpi. Ho capito allora che con le mie poesie potevo portare fuori quel mondo, farlo vedere, metterlo in discussione, e magari dare voce a chi non ha la possibilità di farlo.
Oggi, scrivere, per me significa condividere un’esperienza per aprire un dibattito, provare a ragionare collettivamente su quello che il lavoro fa ai corpi e alle menti. Non mi interessa farlo per commuovere o suscitare pietà: quello che racconto non è “misery porn”, è realtà vissuta. Se si parte dall’autenticità, allora può nascere un confronto; se invece si cerca solo il dolore da mettere in vetrina, si tradisce il senso di questa scrittura.
Come rispondo alla tendenza dell’industria editoriale a piegare il racconto di classe al paradigma vittimario? Con il dito medio. Perché il dolore non si spettacolarizza: si attraversa, si racconta, si trasforma in coscienza. E si rispetta.
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