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diretto da Romano Luperini

A che serve la poesia? Parole da Gaza


Il loro grido è la mia voce – Poesie da Gaza (Fazi Editore, aprile 2025) è un volumetto che raccoglie testi di dieci poeti palestinesi contemporanei: due oggi morti, uno esule, uno profugo, gli altri, fino alla proclamazione dell’accordo di tregua, sotto il fuoco israeliano, ed ora appesi a un filo. In gran parte questi versi sono stati scritti dopo il 7 ottobre 2023 e nascono dalla distruzione e dalla morte pianificata dal governo Netanyahu, che la Commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite il 16 settembre 2025 ha definito “genocidio”. Forse è un paradosso che in mezzo alle macerie e sotto il fuoco di droni, di razzi, di ordigni di varia natura, gittata, potenza, e precisione qualcuno abbia avuto la necessità di scrivere poesia da fare leggere a qualcun altro. È importante che ci sia un poeta nel furore della guerra? Se lo chiede Hend Joudah: «Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?/Significa chiedere scusa,/ chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati,/agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate,/ alle lunghe crepe sul fianco delle strade,/ai bambini pallidi, prima e dopo la morte/e al volto di ogni madre triste,/o uccisa!» È importante che ci sia un lettore che si renda conto dello scandalo della propria normalità, mentre altrove si apre la voragine che tutto inghiotte? «Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?» (e sembra riecheggiare l’apostrofe di Primo Levi «Voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case»), «Significa vergognarsi,/del tuo sorriso,/del tuo calore,/dei tuoi vestiti puliti,/delle tue ore di noia,/del tuo sbadiglio,/della tua tazza di caffè,/del tuo sonno tranquillo,/dei tuoi cari ancora vivi,/della tua sazietà,/dell’acqua disponibile,/dell’acqua pulita,/della possibilità di fare una doccia,/ e del caso che ti ha lasciato ancora in vita!» Ma il poeta non vuole essere tale e non può essere tale quando vivere o morire è la combinazione probabilistica di dadi lanciati a caso, mentre intorno si accumulano macerie e cadaveri: «Mio Dio,/Non voglio essere poeta in tempo di guerra.» (pag. 15). Di fronte alla realtà assurda del dolore, a cui tanti guardano distrattamente, altri con compiaciuta soddisfazione, non sembra esserci spazio per la parola poetica: il poeta dovrebbe tacere là dove nulla può apparire poetico. Invece la poesia esiste anche dove sembra impossibile possa fiorire una ginestra: la natura si ferma, il cataclisma è un terribile attimo insensato, l’uomo no, uccide ostinatamente con raziocinio. E di fronte alla disumanità la poesia diventa resistenza:

Scriverò
Dalle tenebre delle caverne
Forse potrò risuscitare il fiore del mattino
Perché la poesia
È come il filo delle spade
Come il tuono del cielo
Perché tutti i proiettili che hanno sparato
Per soffocare le parole
Per uccidere la nostalgia, per uccidere l’antico e il nuovo
Per il nostro annientamento
aumentano la resistenza
rafforzano la volontà
(Dareen Tatour, pag. 39)

La poesia salverà il mondo?

Di fronte all’ottusa violenza che frantuma e annichilisce sarebbe davvero illusorio pensare che il mondo possa essere cambiato dalla poesia. Se una tale funzione taumaturgica fosse stata attiva non staremmo oggi a parlare di guerra dopo millenni di versi. Anche chi scrive, ovviamente, lo sa: «Potremmo non cambiare questo mondo con ciò che scriviamo/ma potremmo graffiare la sua vergogna» (Marwan Makhoul, pag. 53). Eppure l’esistenza della poesia, tra il sangue, il terrore, le macerie, e i cadaveri, sembra essere la resistenza alla morte della vita: «I vostri proiettili sono mortali/E nell’inchiostro della mia penna c’è vita/Le vostre armi saranno annientate/E la poesia rimarrà viva» (Dareen Tatour, Allucinazioni di una poetessa condannata per terrorismo, 1, pag.33) La poesia non è uno scudo nei confronti delle bombe, ma è l’orma indelebile che testimonia la presenza umana nel deserto. E se le case si sbriciolano e le persone che le abitavano diventano profughi, la tenda, «corpo fragile» battuto dal vento, diventa metafora

Il vento scuote la tenda,
la tenda abbraccia la pioggia,
e la pioggia lava via tutto,
ma non la memoria di chi ci vive.
Così la tenda rimane in piedi,
a testimoniare che la fragilità
è l’altro volto del Sumūd
(Yousef Elqedra, pag.25)

Il termine Sumūd non è tradotto dai curatori «per rispettare la profondità della lingua», ma viene spiegato in nota, alla quale si rimanda per un’attenta disamina. La capacità di resistere, nonostante tutto, alle avversità senza usare la violenza, la condizione mentale che consente di guardare con fermezza alla giustizia, è Sumūd: la durezza e la fragilità della poesia di questi poeti palestinesi.

La poesia deve essere distrutta?

Insieme ai testi poetici, nel libretto è presente in prosa la Lettera a Refaat Alareer, di Chris Hedges (giornalista e scrittore vincitore del premio Pulitzer), dedicata all’amico ucciso «da un raid mirato dell’esercito israeliano»

Perché gli assassini temono i poeti? Non eri un combattente. Non portavi armi. Scrivevi parole su carta. Eppure, tutta la potenza dell’esercito israeliano e dei servizi di intelligence è stata mobilitata per venirti a stanare.

In tempi d’angoscia […] la poesia è il triste lamento degli oppressi. […] È un atto assurdo di speranza, un atto di sfida, una resistenza, […] che irride chi ti deumanizza. […] La scrittura, come ci ricorda Edward Said, è «l’ultima resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità». (pagg. 120-1).

Hedges ricorda che Refaat Alareer scriveva:

Le mie lezioni sulla tolleranza e la comprensione […], la resistenza non violenta, la poesia, i racconti e la letteratura, non ci hanno protetto dalla morte e dalla distruzione. […] Il mio mantra «Una poesia è più potente di un’arma» è stato deriso. […]

Ma perché Israele dovrebbe bombardare un’università? […] secondo me [perché] è il luogo più importante a Gaza per sviluppare, tra gli studenti, menti che siano armi indistruttibili. La conoscenza è il peggior nemico di Israele. La consapevolezza è il nemico più odiato e temuto. Ecco perché Israele bombarda un’università: vuole uccidere le menti aperte e il rifiuto netto di vivere sotto l’ingiustizia e il razzismo. (pagg. 125-6)

La violenza distrugge, la guerra rade al suolo le città, la poesia conserva l’umanità e racconta la sua storia. Chi legge restituisce la voce a chi non può parlare più.

Se devo morire,
tu devi vivere
per raccontare la mia storia,
per vender le mie cose,
per comprare un pezzo di stoffa
e qualche filo
(fallo bianco, con una lunga coda),
così che un bambino, da qualche parte a Gaza,
fissando il cielo negli occhi,
[…]
veda l’aquilone, il mio aquilone che hai fatto tu, volare alto
e pensi, per un momento, che lassù ci sia un angelo
che riporta l’amore.
Se devo morire,
che porti speranza,
che sia una storia.
(pag.116)

La poesia è apolitica?

Esistono argomenti di cui la poesia non si dovrebbe occupare?

Le nostre foto di famiglia: un sacco di brandelli, un mucchio di cenere,
cinque sudari avvolti l’uno accanto all’altro di dimensioni differenti.
Le foto di famiglia a Gaza non sono come tutte le altre.
Ma erano insieme, e insieme se ne sono andati.
(Heba Abu Nada, pag. 73)


I poeti annullano il silenzio, squarciano il velo del perbenismo, guardano disincantati la realtà attraverso la musica delle loro parole e i giochi dei loro versi. I poeti non hanno paura. I poeti scrivono e anche quando non hanno speranza l’accendono in chi li ascolta. I poeti sono scomodi. I poeti non rispettano i divieti. Per tutto questo anche oggi, come in passato, la poesia non teme di essere politica. La poesia fa evadere il poeta dalla prigione: «Sono in isolamento/E le penne sono vietate/Né inchiostro né carta/Il cuore scrive memorizza i versi/La poesia in prigione è luce e fuoco/La poesia nella mia prigione/È nutrimento/È acqua è aria» (Dareen Tatour, Allucinazione di una prigioniera in isolamento, pag.33). Ma «tra il sangue che sgorga», «le membra smembrate», «le urla», «il suono delle ambulanze», «i corpi senza lineamenti», «Cosa può una poesia?» (Yousef Elqedra, pag.23) L’esistenza della poesia è testimonianza della presenza dell’uomo, anche dove l’umanità è offesa e negata: per questo è scandalo e denuncia, come scriveva Fortini «La poesia/non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.» «E anche tu, poesia mia, morirai sicuramente,/eppure scriverò/e possa tu vivere anche solo un po’/dopo di me» (Marwan Makhoul, pag.49)

Per scrivere una poesia non politica,
devo ascoltare gli uccelli,
e per sentire gli uccelli
bisogna far tacere gli aerei da caccia
(Marwan Makhoul, pag. 55)


Il poeta non è un cronista «In tempo di guerra non contare sui poeti/perché sono lenti come una tartaruga/che cerca invano di tenere il passo con un massacro/che corre come una lepre» (Marwan Makhoul, pag. 45) Il poeta è uno strano sognatore

Voglio sognare
fosse questa
la mia unica colpa
per essere ucciso.

Voglio nutrire
i passeri delle strade
e non ho altro che la mia carne
sul marciapiede.
(Haidar al-Ghazali, pag.101)


Nella realtà non c’è consolazione per il dolore, nella poesia si elabora il lutto che diventa emblematico archetipo comune

La bambina il cui padre è stato ucciso
mentre portava un sacco di farina
sulla schiena
continuerà a gustare
il sangue di suo padre
in ogni pane.
(Haidar al-Ghazali, pag.91)


Ma dal sangue può nascere una nuova generazione

Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e lanciano la loro voce nel vento.
Oggi vediamo cuori sgozzati come i nostri
e piangono per le madri che non hanno trovato tempo
per piangere.
Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e non verrà promosso
chi non supera l’esame di umanità.
(Haidar al-Ghazali, pag.97)


Ma riuscirà l’Occidente a liberarsi degli stereotipi sul misterioso Oriente popolato da popoli estranei?

Gioisci, o Gaza:
non siamo più uccisi mentre il mondo dorme.
Il mondo è ben sveglio: balla e canta.
Alcuni leggono le nostre notizie,
solo quelle che possono reggere.
Pochi manifestano nei ritagli di tempo.
E il nostro mondo arabo, sui carboni ardenti,
aspetta che passino mille e una notte,
perché tu, o Gaza, salvi te stessa
raccontando le storie di migliaia di vittime…
(Yahya Ashour, pag.61)


E chiediamo pace in terra «Mentre nostro padre che è nei cieli,/è soltanto un aereo da caccia,/nient’altro» (Marwan Makhoul, pag.47).

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