La Cina nelle pagine di un dissidente letterario: Yu Hua
Una scrittura dissacrante e critica
Nella letteratura cinese contemporanea, la voce di Yu Hua si impone per la sua carica dissacrante e la capacità di scardinare con radicalità i codici imposti dalla retorica ufficiale. La sua scrittura, aspra e insieme sorprendentemente ironica, si muove con spregiudicatezza in territori scomodi, rivelandone le contraddizioni strutturali e i paradossi morali. Molto distante dal registro (almeno apparentemente) più prudente e politicamente corretto del Premio Nobel (2012) Mo Yan, Yu Hua affronta la realtà cinese senza filtri accomodanti, trasformando la pagina in uno spazio di libertà sovversiva e di confronto diretto con ciò che il potere vorrebbe tacere. Se l’autore di Sorgo rosso ha saputo elaborare una narrativa capace di conquistare il consenso internazionale senza infrangere apertamente le linee di tolleranza del governo cinese, Yu Hua sembra invece muoversi con una libertà espressiva che ne sfida, talvolta in modo frontale, la sensibilità. Mo Yan lavora spesso per metafora, mantenendo una distanza protettiva tra la pagina e l’attualità politica; Yu Hua, al contrario, opera in una zona di frizione permanente, dove la satira, il sarcasmo e l’esposizione diretta delle storture sociali diventano strumenti di dissenso letterario. In tal senso, la sua scrittura non solo racconta la Cina contemporanea, ma la interroga e la mette in crisi, sottraendola alle narrazioni ufficiali. Pagina dopo pagina, egli mette in scena un paese fatto di contraddizioni brucianti: dalla memoria delle violenze rivoluzionarie alla febbre consumistica dell’era post-Mao, dalla sopravvivenza quotidiana alla cancellazione selettiva del passato scegliendo di guardare il Paese dal basso, attraverso vite marginali e destini spezzati.
Il volto oscuro della modernizzazione
Le opere raccontano un Paese complesso, sospeso tra retaggi autoritari e impulsi modernizzatori, fondendo realismo crudo, humour nero e un gusto quasi grottesco per l’assurdo. In Cronache di un venditore di sangue (la traduzione italiana è del 1999, ma l’originale è del 1995), ad esempio, Xu Sanguan, è costretto a vendere ripetutamente il proprio sangue per affrontare le emergenze familiari, diventando così un apologo sulla mercificazione estrema della vita, in una Cina in bilico tra povertà rurale e miracolo urbano. Il suo è un gesto tanto materiale quanto simbolico: «Il sangue è come l’acqua di un pozzo: se non vi attingi resta scarsa, ma se la prendi tutti i giorni, ce ne sarà in abbondanza…». Questa frase non esplicita solo lo sfruttamento della vita, ma anche la routine del sacrificio come norma sociale, in un contesto storico segnato da povertà e ideologia. Tuttavia è in Brothers e nella sua prosecuzione, Arricchirsi è glorioso, che si nota maggiormente la carica innovativa di questo scrittore (i due volumi sono usciti in lingua originale con il titolo Xiongdi, cioè “fratelli”, parte 1 e parte 2, rispettivamente nel 2005 e 2006; le traduzioni italiane sono state pubblicate da Feltrinelli nel 2008 e nel 2009). Attraverso la parabola di due fratellastri, uniti da bambini nel comune tentativo di sopravvivere alla violenza e alle privazioni della Cina degli anni Sessanta, durante la Rivoluzione culturale, i romanzi testimoniano la febbrile corsa al denaro e lo sviluppo tumultuoso del Paese, segnando la loro frattura definitiva nell’età della prosperità economica. Mentre Song Gang, onesto e rispettoso, rimane fedele ai valori tradizionali e soccombe, Li Testapelata, con spregiudicata intraprendenza, cavalca le trasformazioni in atto, fino ad affermarsi come un magnate dalle immense fortune.
Se in Brothers, la critica di Yu Hua si concentra sulla violenza del conformismo rivoluzionario, nella seconda parte, la satira esplode in una vera febbre consumistica: il protagonista, Li testapelata, arricchitosi con il commercio di spazzatura, trasforma il desiderio in spettacolo e merce, fino a inventare il Concorso nazionale di bellezza delle vergini, che innesca un indotto grottesco (ricostruzioni dell’imene, gadget, sponsor) e ribattezza la città come capitale dell’ossessione per l’immagine. Qui viene messa in risalto l’altra faccia dell’autoritarismo: non più il controllo ideologico dei corpi, ma il controllo dei desideri attraverso mercato e spettacolarizzazione («Fu il pomeriggio più impressionante nella storia di Liuzhen: una fila di due chilometri composta da tremila miss vergini, tutte in bikini, ma una diversa dall’altra, alte e basse, grasse e magre, belle e brutte. La via più lunga della città non era sufficiente, l’armata delle ragazze spariva dietro un angolo, copriva un intero ponte e raggiungeva un altro viale», p. 307). L’etica confuciana o collettivista viene sostituita da un utilitarismo sfrenato, ciò che conta è il denaro, anche a scapito di dignità e giustizia («Moltissime delle candidate non erano più vergini, c’erano quelle sposate, quelle divorziate, quelle che convivevano e anche quelle che avevano vissuto con un numero imprecisato di uomini. Tutte, indistintamente, si riversarono in massa nei reparti di ginecologia e ostetricia degli ospedali a fare la ricostruzione dell’imene. […] Le loro pubblicità erano affisse dovunque: sui parapetti dei ponti, ai pali della luce, sulle pareti dei gabinetti pubblici, in qualunque posto potesse cadere l’occhio c’era un manifesto della ricostruzione dell’imene. Ti facevi una dormita e te lo ritrovavi sulla porta di casa, eri seduto a tavola a mangiare e qualcuno ti infilava un volantino sotto l’uscio, andavi in un centro commerciale a comprare un paio di scarpe e te lo rifilavano in mano, acquistavi un biglietto al cinema e te ne passavano uno, entravi in un ristorante, guardavi il menu e dentro ce ne trovavi un altro, non facevi in tempo a ordinare uno “zampetto di maiale brasato alla soia” che ti capitava sotto gli occhi la dicitura “ricostruzione dell’imene”, anche la lista al ristorante era invasa dalla pubblicità. Tutti a Liuzhen – uomini, donne, vecchi e bambini – sapevano cos’era la ricostruzione dell’imene», pp.281-283).
Accanto al destino dei due fratellastri, Yu Hua mette in scena un’umanità variopinta e pittoresca: venditori ambulanti, funzionari corrotti, bellezze di provincia, opportunisti e visionari. Una folla eterogenea che restituisce, tra comico e tragico, l’anima contraddittoria della Cina in trasformazione che corre verso la modernità senza più regole condivise (emblematica la figura di Zhou Ramingo, un truffatore che gira il paese seguendo la scia dei sogni di prosperità collettiva), e che ossessionata dalla ricchezza si svuota di qualsiasi valore.
Ne Il settimo giorno (l’originale, Di Qi Tian, è del 2013, la traduzione italiana, invece, del 2017) questa logica si manifesta nel modo più estremo, persino la morte viene subordinata al denaro. Il protagonista, Yang Fei, muore improvvisamente e, privo di una tomba, vaga per sette giorni in uno spazio sospeso tra vita e aldilà, incontrando persone care e perdute, ma anche altre anime, tutte vittime di ingiustizie sociali, di disuguaglianze economiche, di quella voragine che separa chi partecipa al miracolo cinese da chi ne rimane escluso («Si lamentano che oggigiorno una tomba costa più di una casa, tremila yuan il metro quadro, in cimiteri sovraffollati e fuori mano. E il diritto di proprietà scade dopo venticinque anni. Almeno il diritto di proprietà sulla casa dura settant’anni, anche se i prezzi sono esagerati. Alcuni si indignano, altri sono presi dallo sconforto al pensiero di cosa ne sarà di loro tra venticinque anni. Magari a quel punto, il costo dei lotti sarà schizzato alle stelle. Le loro ceneri diventeranno concime per i campi, se i familiari non saranno in grado di sobbarcarsi le spese. “Non ci si può permettere nemmeno di morire!”», p. 19). In questo percorso onirico, che ha i tratti di una discesa negli inferi moderni, attraverso parabole surreali in grado però di evocare in modo lucido la realtà, emergono impietosamente le tragedie e le lacerazioni contemporanee: le demolizioni forzate, la corruzione e il traffico di organi, la privatizzazione della sanità, l’estrema precarietà del lavoro, le torture della polizia.
Dal mito del popolo alla sua mercificazione
Come racconta nel pamphlet La Cina in dieci parole gli ultimi quarant’anni hanno ridefinito in modo netto ed inesorabile il concetto di «popolo», che «sopravvive grazie al bla-bla dei funzionari»: «ma in passato era una parola importantissima: il nostro paese è la “Repubblica del popolo cinese”, il presidente Mao diceva di “Servire il popolo” e il “Quotidiano del popolo” era il giornale più importante. E noi, che appartenevamo al popolo, ripetevamo, ogni giorno: “Dal 1949, comanda il popolo”. Quando ero piccolo, “popolo” era una parola portentosa, esattamente come “presidente Mao”, le prime due cose che ho imparato a leggere, solo in un secondo tempo ho imparato il mio nome e quello dei miei genitori. […]. Credo che piazza Tian’anmen sia stato lo spartiacque per una totale ridefinizione di “popolo” o, se si preferisce, il “popolo” ha subito una riorganizzazione del capitale, visto che è stato privato del suo significato precedente per dare spazio a contenuti diversi. Nei quarant’anni trascorsi dall’inizio della Rivoluzione culturale a oggi, “popolo” nella realtà cinese sembra un termine vuoto; per ricorrere al linguaggio economico tanto di moda, “popolo” è una società di comodo che per essere quotata in Borsa si riempie di contenuti differenti a seconda della fase», p.9, p.16). Yu Hua smonta la retorica ufficiale e mostra come la parola popolo sia stata utilizzata dal potere non per emancipare, ma per controllare. Nelle sue opere il popolo non appare come una entità astratta e gloriosa, ma come una somma di individui concreti che rivela la manipolazione mettendone in luce le conseguenze sociali. Restituendo voce ai corpi e alle esistenze marginali, lo scrittore denuncia come dietro il trionfo economico si nascondano fratture profonde: la perdita di principi etici, la mercificazione della vita e persino della morte, la frantumazione del concetto stesso di popolo. In questa tensione tra memoria e modernità, tra ironia e tragedia, Yu Hua consegna alla letteratura non soltanto il ritratto di una nazione in trasformazione, ma anche un universale monito sul destino delle società che sacrificano l’umano sull’altare del progresso.
Letteratura e dissenso
L’aspetto davvero significativo dell’opera di Hua è quello di mettere in discussione la propria identità, le caratteristiche della propria cultura, della società in cui è vissuto e vive; egli non pronuncia «biblici sermoni di fuoco», non vuole dimostrare a tutti i costi di essere dalla parte della ragione, l’obiettivo è quello di non tacere «il castigo ingiustamente inflitto al suo popolo, riconoscendo i diritti e le libertà democratiche a tutti e non soltanto, con odiosa discriminazione a pochi eletti» (Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, p. 106-107). Per dirla ancora con Said, è un intellettuale che possiede «il coraggio e la pietas necessari a dire e a rappresentare la verità» (op. cit., p. 107), con il dolore di chi non ha ripudiato la propria storia ed è ancora profondamente connesso ai drammi della propria gente. Sofferenza e compassione (lucida e non sentimentale) sono due parole-chiave della scrittura di Hua: mentre registra, amaramente, l’oppressione e la disumanizzazione, mentre scava nella brutalità del reale, si percepisce, in modo netto, l’eco di un destino condiviso, non solo per appartenenza biografica, ma per scelta etica. Nella postfazione di La Cina in dieci parole, parlando della sua esperienza come medico (in realtà dentista), ricorda come uno dei suoi primi incarichi fosse stato quello di vaccinare gli operai nelle fabbriche e, dopo qualche tempo, anche i bambini nelle scuole materne. Non esistevano siringhe usa e getta, per cui gli aghi venivano lavati perbene, poi si sterilizzavano in modo approssimativo. Un po’ alla volta, con il passare del tempo, si curvavano per via dei ripetuti utilizzi e, quando s’infilavano nella pelle, se ne portavano via un pezzetto. Gli operai si lamentavano, gemevano, ma è la reazione dei bambini, terrorizzati, che piangevano disperatamente ancora prima della puntura, a colpire Yu Hua, tanto da fargli prendere la decisione di raddrizzare gli aghi ogni sera. Attraverso il ricordo di questa esperienza affiora il legame profondo con il paese natale, che lui racconta così: «negli anni, guardandomi indietro, mi sono sentito in colpa per aver realizzato il dolore degli operai solo con il pianto dei bambini. Perché non ero stato in grado di rendermene conto subito? Se prima di vaccinare gli operai e i bambini mi fossi infilato un ago storto nel braccio, strappandomi un pezzo di pelle insanguinata, avrei capito cosa fosse il dolore, senza dover arrivare al singhiozzo dei bambini e ai gemiti degli operai. Sono profondamente grato a questo pensiero, che mi ha tenuto compagnia in tanti anni di scrittura. Quando il dolore degli altri è diventato il mio dolore, sono stato finalmente in grado di capire cosa significasse vivere e cosa significasse scrivere. Credo che al mondo, nulla quanto l’esperienza del dolore possa mettere gli esseri umani in comunicazione, perché si tratta di un contatto molto intimo. E così in questo libro, raccontando le sofferenze della Cina, ho raccontato anche la mia sofferenza. Sono la stessa cosa».
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Editore
G.B. Palumbo Editore

Un contributo veramente importante e illuminante, specie per chi, come me, è ignorante della realtà cinese, e desideroso di capirci qualcosa. Grazie ad Antonella Amato