“Le città di pianura” di Francesco Sossai
L’idea nasce da una serata a Venezia, dove effettivamente il regista e un suo amico conoscono uno studente di architettura dello IUAV e si sentono tutti e tre un po’ persi. Da questo incontro casuale prende forma il soggetto del film, che da un dettaglio reale si espande in una prospettiva esistenziale.
Giulio, studente di architettura timido e per bene, entra nell’orbita di due sgangherati compagni di bevute che lo attirano e non lo lasciano più andare, trascinandolo in una deriva notturna e diurna attraverso la pianura veneta, quasi senza soste, a bordo di una Jaguar frutto di guadagni illeciti. Lo coinvolgono nel loro mondo fatto di bar, alcool, incontri improbabili.
Giulio vuole tornare a casa, sarebbe meglio che tornasse a casa: il giorno successivo ha una revisione alla facoltà di architettura di Venezia. Ma non dice mai di no e finisce a Treviso, sempre più lontano dal proprio dovere e sempre più vicino a una diversa idea di libertà. Seduto sul sedile posteriore della Jaguar, il suo viso cambia lentamente: da contratto si fa aperto, disteso, curioso. Alla fine sorride, e riesce persino a prendere l’iniziativa di un appuntamento amoroso cui aveva rinunciato all’inizio della vicenda.
Doriano, detto Dori, e Carlobianchi (tutto attaccato), sono gli artefici del cambiamento. Due cinquantenni scanzonati e falliti, dal fisico invecchiato e dalla faccia disfatta ma sorniona, sorridente, complice. Mai davvero sconfitti, solo fuori tempo massimo. La camera si sofferma su di loro in primissimi piani e dettagli impietosi, ma anche affettuosi: teneri e divertenti, rimasti adolescenti perché ormai è troppo tardi per crescere.
La loro storia, segnata da piccole truffe e residui di un passato operaio, si intreccia con quella di un terzo personaggio, Genio. Tutti e tre erano impiegati in una fabbrica di occhiali: scoperti a rubare e a rivendere i prodotti, sono stati licenziati. Genio, denunciato e condannato, fugge in Argentina, ma dopo anni ritorna, poiché il reato è caduto in prescrizione, alla ricerca di un tesoretto nascosto — il frutto del loro illecito commercio.
La vicenda è incastonata nel paesaggio veneto, filtrato dallo sguardo di chi lo conosce intimamente. Le inquadrature sembrano rispondere agli studi paesaggistici dell’autore: gli scatti e gli scritti di Gianni Celati, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Guido Ceronetti e Guido Piovene. Ma dentro queste suggestioni letterarie e fotografiche si avverte anche la materia viva del quotidiano: il vagabondare nei bar, i mezzi pubblici, le piazze, la vita di provincia che resiste e si sfalda insieme.
Il tessuto del film alterna la deriva del viaggio a bordo della Jaguar — con la camera car che costringe lo spettatore a condividere l’ebbrezza e la nausea di un pilota alticcio, lungo rettilinei interrotti da curve improvvise — a due soste principali, veri spunti di riflessione.
La prima avviene nella villa rinascimentale Roberti a Brugine (PD), dove i tre si fingono architetti, scroccano un bicchiere di vino e qualche contante per una consulenza inventata. Qui si concentra uno dei temi chiave del film: il paesaggio lacerato e barbarizzato, la violenza della trasformazione. Si parla della costruzione di una futura autostrada che collegherà Lisbona, Treviso e Budapest, un progetto che va ad intaccare la struttura della villa e fa da sfondo alla visita dei suoi interni decorati. Di fronte a un affresco di scuola del Veronese Giulio osserva:
«È un capriccio, un paesaggio che non esiste, immaginario. Si vede che volevano unire il paesaggio delle montagne a quello lagunare, senza tutte quelle città di pianura in mezzo.»
La frase, pronunciata di spalle allo spettatore, suona come un manifesto poetico e politico: il paesaggio ideale del passato si contrappone a quello reale del presente, un territorio che si sta popolando di supermercati, villette dagli infissi in alluminio, distributori di benzina.
La seconda sosta è presso la Tomba Brion di San Vito di Altivole, progettata da Carlo Scarpa: un memoriale in cui si fondono elementi architettonici di Venezia e del Giappone, luogo di riflessione sul paesaggio e sulla memoria, dove il film trova una sua sospensione quasi spirituale. I tre, seduti tra cemento e acqua, sembrano per un attimo consapevoli del proprio destino e del tempo che li attraversa.
Il tempo della storia e il tempo narrativo si snodano con lentezza nell’arco di un paio di giorni, in un ritmo che ricorda le ambientazioni e i personaggi marginali di Aki Kaurismäki. Anche qui, come nel cinema del regista finlandese, si lavora sul “dopo”: su quello che il film rivela e su ciò che rimane, sul tanto che rimane dopo la visione.
Francesco Sossai, con Le città di pianura, firma il suo secondo lungometraggio, che è di fatto il primo vero film per il pubblico, poiché il precedente lavoro, Altri cannibali — film di diploma presentato a Cannes e accolto in modo controverso — non è mai uscito nelle sale, circolando solo nei festival. Le città di pianura rappresenta invece un’opera matura e coerente, capace di uscire dai canoni geografici e tematici della filmografia italiana, e di testimoniare un legame profondo con la propria terra.
Bellunese di origine, Sossai vive e lavora in Veneto, regione verso cui nutre un sentimento di amore-odio:
«Non girerò mai un film altrove. Non potrei. Non so come spiegarlo. Non che i miei lavori siano identitari, ma è proprio… c’è una condanna al Veneto. Una condanna a vita al fatto di rimaner là, un ergastolo. Il Veneto è l’unica realtà che conosco. A me interessa raccontare lo spaesamento che provoca viverci. Tutti i miei sogni sono ambientati lì. Leggo Thomas Bernhard e non lo ambiento in Austria ma vicino al mio paese; leggo Stephen King e il Maine diventa il Veneto.»
Con Le città di pianura, Sossai firma un film che è insieme un viaggio, un’educazione sentimentale e un atto di resistenza alla deriva post industriale.
(Per alcune informazioni e per le citazioni ci si è avvalsi dell’intervista rilasciata da Francesco Sossai “Le città di pianura, una lettera d’amore e odio per il Veneto e l’Italia profonda” in “Rivista studio” 9 ottobre 2025)
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Si, visto il film. Come quando accade in visioni apparentemente superficiali queste immagini, storie, evocazioni rimangono e si riscoprono ogni volta che le ripensi o ne riparli. Ogni volta che versi un’ombra, ogni volta che vai in bici sulla Treviso-Ostiglia e passi per Trebaseleghe.
Grazie per la recensione.
Il Bello è la Luce del Vero (Sant’Agostino)
Il paesaggio veneto è ormai una grande infrastruttura senza luoghi ed i personaggi del film sono alcolisti, ladri di polli e falliti. In questa splendente verità (parziale ovviamente) vi è la bellezza del film (del Veneto?). In questa verità lo studente di architettura (troppo giovane e non-veneto) è spaesato e ritrova il suo equlibrio solamente nell’arca di Carlo Scarpa, ultima dimora del “bello” oramai estinto, oppure gurdando un “capriccio” all’interno di una Villa Veneta pronta ad essere “sfregiata”dalla frenesia di correre da qua a là. Bellissime le musiche ed il rumore di sottofondo sempre in primo piano sonoro.
Penso che questa porzione di Verità raccontata nel film sia bellezza: l’ho vissuta anche io e sono stato felice, serbandone un meraviglioso e affettuoso ricordo di amicizia, sofferenza, amore, bacari, caligo, spussa, e kilometri.
E ora cossa femo? Dove ndemo?