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Venezia, una casa di cura e una spider color bronzo: su “Il mondo che ha fatto” di Roberto Ferrucci

C’era un’auto parcheggiata davanti alla libreria, un’auto strana, mai vista prima da quelle parti. Mai vista del tutto, in vita mia, a dire il vero, non conoscevo né la marca, né il modello. (Roberto Ferrucci, Il mondo che ha fatto, La Nave di Teseo, 2025, p.22)

Si annuncia così, in modo quasi simbolico, il primo incontro fra lo studente di lettere Roberto Ferrucci e lo scrittore Daniele Del Giudice: la libreria è quella che il ragazzo frequenta ogni giorno, ma dentro c’è qualcosa di diverso, di nuovo, di altro, qualcosa che non ha ancora mai incontrato, come la sua spider Peugeot color bronzo targata Roma. Uno dei tanti oggetti che costellano la lunga storia di un’amicizia, nata nel 1985 e durata fino all’ultimo: Ferrucci ha il dono di elevare le cose materiali al rango delle idee, dei sentimenti, delle emozioni. Non ha mai conosciuto uno scrittore affermato prima, e questo incontro cambierà la sua vita, perché lui stesso desidera diventare scrittore, e perché di Del Giudice ha già letto e amato Lo stadio di Wimbledon. I due vengono presentati dal libraio, si stringono la mano, e parlano. Di cosa parlano?

Potrei raccontare di come il primo approccio con il primo scrittore che ho conosciuto sia stato eminentemente letterario, con una mia frase introduttiva indimenticabile, una di quelle frasi che si scolpiscono nell’animo, nella mente, qualcosa di nobile, efficace, dal punto di vista narrativo e evocativo, da giocarmi subito, fin dall’inizio di questa storia. Ma non andò così. (p.28)

Perché la vita vera non va mai così. E allora quello che Ferrucci ci riporta è la verità, con il suo inconfondibile sapore: fatta di gesti e parole non perfetti, mai definitivi, intralciati da dubbi e insicurezze, talvolta malintesi, talvolta casuali. Mette a fuoco ricordi recenti e remoti, e ci racconta l’evolversi di un legame che il lettore seguirà con interesse via via più commosso.

All’inizio è un rapporto allievo-maestro: Del Giudice, pubblicando il suo primo romanzo, ha già riscosso il plauso entusiasta della critica e si avvia a diventare un autore di culto, mentre Roberto ancora studia, legge, lavora in quella provincia tutta particolare che è Mestre, dove basta attraversare il ponte sulla Laguna per ritrovarsi a Venezia. E Venezia provinciale non è, dato che vi convergono artisti e intellettuali da tutto il mondo, non di rado fermandosi a viverci, proprio come ha fatto il romano Del Giudice, che non si limitava a amare le sue antiche pietre e i suoi scenari incantevoli, ma esplorava con acuta curiosità la controparte moderna, le periferie in terraferma e le zone industriali. E con il passare degli anni, e dei capitoli, il loro rapporto si trasforma in una fratellanza fatta di affinità, simpatia e stima.

Perché la commozione? Perché, come scopriamo fin dalle prime pagine, la vita di Del Giudice è declinata nella più triste delle malattie, l’Alzheimer. L’autore che riservava alle parole un’attenzione così precisa ha dovuto, infine, dimenticarle. Ha perduto la capacità di riconoscere, come accade, il mondo che aveva intorno – oggetti, immagini, persone – e a questo Ferrucci risponde raccogliendo la sua eredità e scrivendo questo libro che resuscita, per quanto possibile, il mondo che ha fatto.

Ma torniamo indietro: il giovane Ferrucci diventa lui stesso scrittore. Nel memoir c’è anche molto della sua vicenda personale, della sua formazione, ma solo e sempre laddove si è legata, con qualche filo, alla presenza reale o pensata dell’amico. Per esempio quando, ancora studente, sfrutta la recente conoscenza con il personaggio illustre per far colpo su una ragazza; o quando Antonio Tabucchi, festeggiando la sospirata laurea del ragazzo, lo guarisce da un mal di stomaco con un calice di champagne. E ci sono quelle che a prima vista potrebbero sembrare divagazioni: gli anni di lavoro a Tele Capodistria, all’epoca della guerra dei Balcani; il viaggio a Tirana, per presentare la traduzione albanese di un libro di Del Giudice, al posto dell’autore ormai irrevocabilmente ammalato; la creazione di un evento letterario a Venezia, Fondamenta, e il bel ritratto dell’invitata Agotha Kristof; le riflessioni sulla figura e sull’opera di Calvino, che di Del Giudice fu a sua volta mentore e amico. Avvenimenti, pensieri e incontri che si intersecano, nel tempo e nello spazio, rimandano l’uno all’altro, come in un gioco di scatole cinesi; e a ben guardare, se di divagazioni si tratta, sono tuttavia strettamente legate alla storia del rapporto con Del Giudice, alla sua influenza come intellettuale più che come scrittore.  

Scrive dal tavolino di un caffè, Ferrucci, trapiantato anch’egli a Venezia – la città fa da sfondo a queste pagine, tratteggiata con semplicità come quando è descritta da chi la vive davvero. Il caffè è posto a un’estremità del bacino di San Marco, e dal suo tavolino può vedere, all’estremità opposta, la casa di cura dove l’amico ha trascorso, non ancora anziano, gli anni della sua angosciosa malattia. Con pazienza e con malinconia rievoca episodi divertenti e altri strazianti, intrecciando gli insegnamenti e le discussioni su grandi temi – la scrittura, la letteratura, la politica – alle più semplici serate in pizzeria, alle spiritosaggini e agli scherzi, ai messaggi lasciati in segreteria, con un amore tutto suo e particolare per gli oggetti che testimoniano la relazione, alcuni conservati con devozione (cartoline, libri, fotografie, articoli, telegrammi) e altri rievocati con vivida precisione (orologi, racchette da tennis, penne a sfera, bottiglie di vino, taccuini).

Ferrucci ha conservato ogni cosa, poi molto ha perduto, e ancora ritrovato: quasi una Recherche che ricostruisce, pagina dopo pagina, quell’amicizia a lui così cara, e che rimanda, più che a Proust, a Pamuk. Il grande scrittore turco, nel Museo dell’Innocenza, ha narrato una trama amorosa dispiegando un intero patrimonio di cose insignificanti per chiunque tranne che per lui (forcine per capelli, caramelle per la tosse, mozziconi di sigarette), allineandoli nelle teche di un museo dapprima immaginario e poi, addirittura, realizzato. Perché la letteratura, come la poesia, è fatta proprio di dettagli, scelti con cura perché capaci di rendere autentiche e vive le storie, e di parole scelte con altrettanta cura per descriverli.

Tirava fuori la penna e la impugnava come se dovesse prendere degli appunti, poi la guardava, rimetteva il cappuccio e la rinfilava nel taschino o la appoggiava accanto al tovagliolo. Lo ha fatto un’infinità di volte quella sera e io ho pensato che gli servisse il gesto, il più quotidiano e ricorrente della sua vita, per richiamare a sé le parole necessarie per far scaturire i ricordi altrimenti confusi. Il suo roller era la bacchetta del rabdomante che cercava la parola chiave, la parola perduta. (p.301)

Ed è con grande sensibilità, garbo e pudore che qui le parole sono state scelte per raccontare la fine di un uomo geniale, appassionato e generoso.

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