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diretto da Romano Luperini

Su Ballata di Memmo e del Biondo di Paolo Maccari

Un notaio, un uomo anziano e un racconto appassionato

«Il cielo promette di rimanere azzurro. Poche nuvole, rincantucciate ai suoi bordi, lo incorniciano morbide, sbuffate, ma ferme. Brave. L’aria è nitida e carica del profumo dei tigli. Ci saranno una ventina di gradi. Sembra che solo oggi, dopo chissà quanto, sia impossibile ficcare gli occhi nel sole senza esserne accecato» (p. 10)

E sembra che solo oggi, lo spazio di un pomeriggio di primavera dal cielo azzurro, duri questa storia. Una storia che invece dilata il tempo raccontandoci di un’intera generazione, quella di Memmo, protagonista del romanzo insieme al Biondo. La Ballata di Memmo e del Biondo, pubblicatoa gennaio 2025 da Elliot, è infatti il titolo di questo primo romanzo di Paolo Maccari, critico letterario e poeta raffinato che rivela notevoli doti anche come narratore.

Seduto su una panchina in piazza, il Biondo osserva quel cielo nitido con poche e “brave” nuvole, poi inizia la sua camminata verso la casa di Memmo: «Da piazza a casa di Memmo saranno sì e no due chilometri» (p. 11). È qui che avverrà l’incontro tra i due, nella casa di quest’uomo ormai vecchio e cieco, con l’urgenza di fare testamento annotando le ultime volontà, e forse di fare un bilancio della propria esistenza. Il Biondo sarà il notaio in questo incontro, e l’attesa di quel momento suscita in lui «una curiosità appena emozionata e per niente spiacevole. Una disposizione d’animo che conosco di rado» (p. 11), spiega il Biondo io narrante, e che ora intende prolungare salendo a piedi a Colle Alta. Del resto, manca ancora un’ora e mezzo all’appuntamento, può godersi «la festicciola del pomeriggio primaverile camminando» (p.11). Ripercorre, così, le strade ripide, “ripidissime”, del suo paese: Colle Val d’Elsa, in Toscana. Sceglie la Costa, «la strada più bella del mondo» (p. 12), e incontra luoghi che conosce fin da bambino, pieni di ricordi: il Baluardo, il palazzo delle Ancelle dove ha fatto le elementari, il Bastione di Sapia. Alla fine eccolo «di fronte alla casa di Memmo»: entra, e incontra Memmo nella penombra del suo salotto: «mi indica una poltrona davanti a lui. Anche questa è di pelle, ma di un colore più scuro: Ci affondo. Incrocio le gambe. Ora, penso, si inizia. Speriamo bene» (p. 27)

In una stanza poco illuminata, ma che sembra alludere a un’intimità del passato, inizia la “ballata”, il racconto appassionato della vita di Memmo e della sua generazione. Una generazione che si riconosce prima di tutto nel lavoro, di cui le cicatrici che orlano le mani sono la testimonianza, ma che ha saputo vivere anche di altro, cosa che a lui, tutto sommato, ha permesso di essere «più allegro che triste, per un sacco di anni» (p. 31). Si snoda così il racconto di Memmo, la storia della sua vita, della sua famiglia e della crescita culturale che l’ha accompagnata, della perdita prematura della moglie bellissima, dei due figli, e di qualche amico. Il Biondo ascolta, silenzioso, impeccabile negli atti, ma è una presenza che non si può ignorare, perché spetta a lui rielaborare le parole di Memmo, fonte di ricordi e di pensieri. Anche se Memmo appare come la figura centrale perché è quella che racconta, e il suo mondo occupa tutta la prosa, alla fine questa narrazione acquisisce significato soltanto grazie alla rivisitazione interiore del Biondo. È lui l’autentico protagonista del romanzo, è la voce malinconica e divertita allo stesso tempo, carica di dolore e di solitudine, ma anche ironica e disincantata. Quando esce dalla casa di Memmo, «il giorno se ne sta andando», il pomeriggio è trascorso e le cose non potranno più essere le stesse per il Biondo: «E così sono rimasto solo. In maniera completamente diversa da come lo ero prima di entrare da Memmo. È ora di tornare a casa, alle mie tecniche di rilassamento, e lì la solitudine sarà un’altra cosa ancora» (p. 127).

Due generazioni a confronto

Il senso della storia è nella rielaborazione delle parole del vecchio, nell’avvicendarsi di due generazioni, quella di Memmo, e dunque dei padri, di quelli nati intorno agli anni Trenta, e quella sua, di un uomo nato presumibilmente negli anni Settanta, che appartiene, pertanto, alla generazione dei figli. A loro si vogliono infatti trasmettere valori che troppo spesso, però, nel passaggio da una generazione ad un’altra, si perdono o vengono messi in discussione. Ha dunque uno sfondo generazionale il romanzo di Maccari. Dietro l’incontro tra Memmo e il Biondo, così come tra padri e figli, si nascondono diversità e incomprensioni che spesso impediscono di trasmettere valori nonostante le migliori intenzioni. Anche se nessuno dei due protagonisti esce pienamente soddisfatto da questo incontro, perché nessuna verità viene svelata, Memmo e il Biondo hanno comunque sperimentato l’esigenza di conoscere, si sono confrontati con se stessi e hanno imparato a mettere in discussione ciascuno le proprie sicurezze più apparenti. Entrambi escono arricchiti da questo incontro, e anche noi, come il Biondo, scopriamo ancora una volta la precarietà delle nostre convinzioni e di quelle certezze che pensavamo consolidate.

La Ballata di Memmo e del Biondo non è, infatti, un romanzo che insegue una verità, semmai rivela le debolezze umane, spingendoci, però, a interrogarci e a fare del nostro meglio. Come Memmo, che ha vissuto cercando di fare del suo meglio, senza però inseguire mai un’idea di perfezione in ogni azione o comportamento. Ogni errore commesso è spia della fallacità umana, ma è anche il significato della storia. Forse il senso di tutto risiede proprio in questa impossibilità di stabilire cosa sia davvero meglio: «Memmo ha saputo vivere. Ha saputo sbagliare provando a far bene. Ha fatto molto male a diverse persone, per esempio a me, eppure ogni sua scelta ha avuto sempre, se non successo, un significato. Ora, anche rincoglionito, sa come ci si spenge» (p. 128).

Uno sguardo disilluso, un’umanità in crisi

Conflitto generazionale e malinconia per l’impossibilità di accedere a qualche brandello di verità, dunque, ma la Ballata è anche ricerca di un’intimità che appartiene alla dimensione del paese e a un tempo che fu. Il romanzo, ambientato infatti nei primi anni del ventunesimo secolo, richiama atmosfere e immagini di un tempo ormai trascorso. Quando la piazza, e la casa, era ancora il luogo per raccontare e per raccogliere quelle confidenze che Memmo sceglie di condivide con il Biondo. E con le quali Maccari apre la narrazione: «Le confidenze di mio fratello…».

Memmo è l’uomo del passato che dà valore alle parole e alla loro condivisione, il Biondo, invece, con la silenziosa attesa, interpreta il desiderio di imparare e di fare esperienza. Eppure, questo incontro non produce nessuna esperienza catartica, perché apparentemente «non cambia niente. O quasi niente» (p. 136). Anzi, alla fine siamo indotti a dubitare delle parole di Memmo e la verità rimane ancora più sospesa.

Resta a dominare la narrazione lo sguardo disilluso della voce narrante, che racconta di un’umanità in crisi, impotente di fronte al male gratuito che sembra dilagare tra gli uomini, e incapace di qualsiasi spiraglio ottimistico sulla possibilità di ritrovare un senso all’esistenza. Solo «Pensieri di merda. Come i ricordi», che spingono «a non pensare. A scivolare sempre più in basso senza che sia troppo evidente a chi mi sta intorno» (p. 136). Anche il lettore si sente smarrito, perde definitivamente ogni rassicurazione, ma difficilmente può rimanere indifferenti di fronte a questa storia che, pur raccontando una semplice vicenda di provincia, parla della più ampia crisi sociale e culturale iniziata nel secondo Novecento e dei conflitti interni alla piccola borghesia. Senza smettere di osservare con un occhio attentissimo l’intimità dell’uomo.

In questo tentativo di inseguire una dimensione simbolica senza abbandonare mai il piano referenziale è possibile riconoscere molta letteratura primonovecentesca cara allo scrittore colligiano. La sua scrittura asciutta, antiretorica, che non insegue nessun compiacimento, ma sa cogliere le dinamiche psicologiche dei personaggi restando fedele alle cose da dire e ai fatti, rimanda a quella narrativa a sfondo sociale di aria senese – penso a Tozzi, e in particolare a Bilenchi – che è riuscita a liberarsi del bozzettismo toscano. Una letteratura dove ogni parola è scelta con grande precisione, perché ogni dettaglio racconta un pezzo di storia nel tentativo di avvicinarsi quanto più possibile a una verità della vita. Una ricerca forse destinata a non trovare quiete, ma capace di aprire interrogativi.

Anche la voce del poeta, che non esita a farsi sentire nel corso della narrazione con punte di forte lirismo, è impregnata di quell’ironia amara che nasce dalla riflessione. E il paese, dove realtà umana e sociale sono più a stretto contatto e le persone sono più vicine, è il luogo ideale per cogliere l’essenza delle persone e trasformarla in atto poetico: «E se un pensiero ti ossessionava e glielo dicevi, lui lo ripeteva, ci scherzava su, ti investiva con quella risata che non aveva niente di irridente o malizioso, era pura equanime allegria che schiumava sul tuo pensiero molesto e lo liberava dal suo dolore» (p. 129).

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