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“Figlia mia. Vita di Franca Jarach, desaparecida” di Carlo Greppi – Un estratto

È uscito di recente presso la casa editrice Laterza il libro di Carlo Greppi “Figlia mia. Vita di Franca Jarach, desaparecida”, di cui pubblichiamo le prime pagine, dal titolo “Cadere”. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.

Nel moto di caduta libera noi esseri umani sperimentiamo l’assenza di gravità. I primi 2 o 3 secondi sono in moto uniformemente accelerato: come se si fosse in assenza di peso, appunto. Nel vuoto un corpo che cade aumenta di 9,8 metri al secondo la sua velocità ogni secondo che passa: poi interviene la resistenza dell’aria, che aumenta con il quadrato della velocità stessa. È la medesima dinamica che osserviamo lanciando un sasso in mare: come l’acqua, l’aria si oppone. Il moto accelerato, poi, esaurisce piuttosto in fretta il suo slancio; in sostanza, frena. O meglio: è l’aria che lo frena, e la velocità smette così di aumentare. Dopo circa 500 metri in volo, per via della forza di attrito viscoso, quella che si chiama “velocità terminale” è praticamente raggiunta, e si stabilizza sui 190 chilometri all’ora, forse 200 in assenza di vestiti. Si può calcolare dopo quanti secondi di caduta la tua velocità si è stabilizzata, circa 12, e quanto tempo ti resta a velocità costante. Dai 4.000 metri di altezza, rimangono ancora poco più di 60 secondi – 68, per l’esattezza. È l’ultimo minuto della tua vita – un tempo eterno, un colpo di tosse della storia dell’umanità: dipende dalla prospettiva –, 3.500 metri sopra la superficie del globo terracqueo. Se davvero vi lanciavano dai 4.000, come sosterrà l’ex ufficiale di corvetta della marina militare argentina Adolfo Scilingo a quasi vent’anni da questo momento, con una stima forse grossolana. Forse un giorno qualcuno proverà a calcolare da che altitudine sei caduta, considerando anche l’impatto.

Ma sarà un esercizio inutile: lo illustrerà implicitamente tra quasi mezzo secolo Luis Bernardo Fondebrider, tra i fondatori dell’Equipo Argentino de Antropología Forense che in quasi quarant’anni avrà localizzato 1.200 cadaveri in diverse parti del paese, giungendo a identificarne 620. È inutile, perché oltre i 40-50 metri è molto difficile determinare l’altezza da cui sta cadendo o è caduto un essere umano: al momento dell’impatto le ossa si spezzano in ogni caso, e anche precipitando sull’acqua questa non fa in tempo a spostarsi sotto il peso del corpo che si schianta, e offre quindi la medesima resistenza di un solido. Lui, Fondebrider, chiaramente valuta la caduta dal punto di vista del suo esito finale: “Non c’è differenza tra i 100, 200 o più metri d’altitudine”, sostiene. E più sali, più ti vengono le vertigini anche solo a immaginare a quali velocità può precipitare un corpo umano: 370 chilometri all’ora, 450 chilometri all’ora, 1.342 chilometri all’ora – il record del paracadutista austriaco Felix Baumgartner, nel 2012, che però non ha cercato di frenare come fanno “naturalmente” i nostri corpi, anzi di accelerare.

Nelle condizioni in cui sei non sai che giorno è, presumibilmente un mercoledì. Siete quindici o venti, ogni mercoledì: lo confesserà ancora Scilingo negli anni Novanta, rompendo il muro del silenzio, intervistato dal giornalista Horacio Verbitsky. Il velivolo è partito da Buenos Aires, diretto verso Punta Indio a 150 chilometri di distanza, e da lì verso il mare aperto. Forse. Fa orrore scriverlo, ma sei quasi certamente nuda, e quasi certamente incosciente, sebbene il Pentothal – il “Pentonaval”, nel gergo degli assassini – agisca bloccando il livello motorio, non la percezione di quel che ci accade intorno. Ma se il tuo sguardo coglie qualcosa, vedi per l’ultima volta l’acqua dal fondo marrone del Río de la Plata sfociare nel medesimo scorcio di oceano – un mare immobile, pare una lastra azzurra di ghiaccio – che sto per osservare io, quarantasette anni dopo. In volo.

Il pilota Emir Sisul Hess, rientrato dalla campaña Antártica, da poco nella Escuadrilla Aeronaval de Helicópteros EA2H alla base aeronavale Comandante Espora, dove resterà fino al 1978, escluderà categoricamente che voli come questo abbiano avuto luogo in elicottero, sebbene in qualche caso sia accaduto. Anche per ragioni tecniche, e l’esperienza si accumula con la pratica: un aereo è più capiente, e ci va spazio per aprire il portellone, prima di buttarti giù, anche se sei stata drogata. Lo si saprà in maniera inconfutabile solo fra quasi trent’anni, ma la pratica dei “voli della morte” sarà denunciata pubblicamente in Argentina già fra otto anni; e in Europa fra tre.

L’aereo sopra di te, con ogni probabilità un Electra della Lockheed o un Skyvan PA, un bimotore turboelica prodotto a Belfast che farà duecento missioni come questa – quattro anni, considerando solo i mercoledì – e che verrà ritrovato a molti anni da adesso, è forse ancora a 4.000 metri di quota, guidato da un giovane tra i venticinque e i trentacinque anni; tu sei distante 500 chilometri dalla costa, in volo da 12 secondi.

L’immaginazione ora si ritrae, il rifiuto è categorico: quel mare che unisce, che seppe farsi ponte per tua madre Vera e tuo padre Giorgio e migliaia d’altri esuli trentasette anni prima di questa tua caduta, e diciott’anni prima della tua venuta al mondo, è un mare che inghiottisce – è un mare che uccide –, è l’umanità che bestemmia contro se stessa. L’avrebbe detto tua madre, Vera, che oggi non riesce a sopportare l’idea che si possa vedere, un aereo come quello Skyvan che hanno ritrovato quarantasette anni dopo; l’avrebbe detto con parole molto più poetiche di quelle che sono a disposizione di chi non ha vissuto la tua sparizione: “Il mare è una enorme tomba dove sono finite migliaia di persone”, per poi lanciare un fiore nell’acqua del Río de la Plata su cui si affaccia il Parque de la Memoria, prima di incedere nell’Atlantico del sud, e ripetere ¡30.000 compañeros desaparecidos presentes, ahora y siempre! Lo dice ancora oggi, di te: “Si chiama, lo dico al presente, Franca”.

Cosa resta di te, Franca, su questo mare, in questo presente, di questa storia?

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