
L’eroismo del precario: “Oltre l’ora di lezione” di Jacopo Zoppelli
Un nuovo genere letterario?
La figura dello scrittore-professore ha una lunga tradizione nel Novecento: solo per citare i più noti, Zanzotto, Quasimodo, Fortini hanno frequentato le aule scolastiche e composto alcune delle raccolte poetiche più belle del Novecento. Negli ultimi anni, invece, si sta diffondendo sempre più la figura del docente di scuola che, a partire dalla posizione privilegiata che occupa ogni giorno, decide di scrivere testi che raccontano la vita in classe, i cambiamenti della scuola, lasciandosi andare anche a riflessioni sulla professione e sul suo destino. Tra i prodotti più riusciti di questa stagione ci sono sicuramente, tra i tanti, oltre all’ironico Il rosso e il blu di Marco Lodoli (da cui è stato tratto l’omonimo film), Ex Cattedra e Sottobanco di Domenico Starnone, Tutti i banchi sono uguali: la scuola e l’uguaglianza che non c’è di Christian Raimo, oltre al recente Il banco e la cattedra di Roberto Contu (con alcuni estratti recuperabili qui).
Nel maggio del 2023 è inoltre uscito, per la piccola casa editrice puntoacapo, Oltre l’ora di lezione. Un precario diario di bordo un volumetto che, per le dimensioni esigue e l’autore poco noto, Jacopo Zoppelli, giovane insegnante di lettere in un istituto tecnico di Moncalieri, potrebbe passare inosservato. Tuttavia, la particolarità e il valore di questo libricino consiste nel contenere la prospettiva di un insegnante precario, una categoria che affolla le scuole italiane, ma di cui raramente sentiamo la voce, se non per le giuste rivendicazioni legate al desiderio di stabilizzazione.
Un anno in un libro
Oltre l’ora di lezione è strutturato nella forma di 44 brevi capitoletti (raramente eccedenti la misura di una pagina), preceduti da una Premessa, fondamentale per capire il senso e gli obiettivi del libro. Qui vengono esplicitati i tre motivi conduttori della raccolta: l’accidentalità, dal momento che «gli scritti sono ogni volta nati per caso […] e da eventi tutt’altro che insignificanti, benché minimi» (p. 9); la frammentarietà, intesa come «mancanza di un discorso unitario», per l’«occasionalità delle riflessioni che non danno vita a uno spazio testuale continuo e ininterrotto» (Ibid.); infine un movimento doppio e opposto, che marca, da un lato, attraverso l’uso insistito di deittici, lo spazio dell’aula e dall’altro cerca di andare oltre.
Così si spiega anche il titolo Oltre l’ora di lezione, in cui quell’oltre indica da una parte la nascita di queste riflessioni e la loro sedimentazione sempre in momenti lontani dall’aula scolastica, tanto da un punto di vista temporale, quanto spaziale; dall’altra parte l’oltre è però metaforico, perché dai frammenti di Zoppelli emerge con chiarezza un’idea di scuola e, financo, di società a cui l’autore aspira.
Il libro nasce dall’esperienza come docente precario in una piccola scuola media della provincia di Torino e si apre con il capitolo Il decalogo, l’elenco che il professore detta alla classe durante il primo giorno di lezione e che contiene alcune riflessioni sulla scuola, sullo stare in classe, sulla relazione con i compagni; in un mondo scolastico in cui sono penetrate già da un decennio le logiche dell’azienda (ben evidenti nelle nuove Linee guida di Educazione Civica e che la riforma dei tecnici e professionali, indicata non a casa con il termine filiera, acuirà ancora di più), dà ancora speranza che il decalogo si chiuda con queste parole:
Concludo l’elenco con la considerazione mia preferita: a scuola non dobbiamo avere paura di chiedere aiuto. Soltanto così possiamo liberarci di alcuni concetti che qui, dove siamo adesso, non devono trovare posto: efficienza, produttività, successo a tutti i costi. Soltanto così possiamo comprendere che nella vita non si può fare tutto da soli e che chiedere un sostegno nei momenti di difficoltà è una grande prova di coraggio (p. 10).
L’altra soglia del libro è rappresentata dal capitolo Arrivederci ragazzi!, il cui titolo, vista la vasta cultura cinematografica di Zoppelli, potrebbe evocare il film del 1987 di Louis Malle, ambientato anch’esso a scuola, ma nel periodo drammatico della seconda guerra mondiale. Nel finale lo spunto è dato dalla spiegazione tra tempo oggettivo e soggettivo in Henri Bergson: l’euforia degli studenti per l’ultimo giorno di lezione, giorno di festa, fa da contraltare con la serietà e compostezza dell’insegnante che, attraverso il tempo individuale, della coscienza, può condividere con la classe la felicità e l’arricchimento di un anno trascorso insieme. Un finale in cui, però, si mescolano gioia e amarezza, dal momento che al docente precario sono negate la progettualità e continuità, due prerequisiti alla base di ogni intervento educativo efficace.
Frammenti concreti
Come rilevato nella Premessa, il volume si articola in una serie di frammenti dal taglio spesso bozzettistico e aneddotico, ed è compito del lettore ricavarne i motivi e le intenzioni.
In primo luogo, emerge la difficoltà della relazione educativa, acuita dal contesto pandemico e dalla pratica (necessaria, ma, come emerge dal libro, poco inclusiva) della didattica a distanza: diversi capitoli si soffermano su un rapporto, quello tra docente e studenti, che va ricostruito, anche nella corporeità, che caratterizza ogni legame affettivo ed educativo. Si leggano, per esempio, i capitoletti intitolati Un’interrogazione a distanza, Una videolezione, Di ritorno dalla Dad, da cui si estrae questa bella citazione:
Con passo incerto […] entro in aula a rivedere le mie alunne e i miei alunni dopo quasi un mese di didattica a distanza, la prima della loro prima media. […] In effetti l’inizio della lezione è complicato e poco confortante: alla mia entusiasta affermazione – «Non sapete quanto sono contento di rivedervi!» – seguono mugolii non altrettanto felici, bisbigli decisamente dubbiosi e ambigui.
Il resto della lezione contraddirà quell’immediata e subitanea relazione e la prima impressione. Presto torniamo a essere una classe, vale a dire materici, concreti, di sangue pulsanti, docili fibre e fasci di muscoli e carne e ossa, non più parvenze, non più simulazioni virtuali (p. 46).
Il secondo motivo, a mio avviso, consiste nel ruolo fondamentale assegnato alle parole per plasmare il mondo e per articolare le nostre emozioni e il nostro vissuto; la povertà lessicale, che si percepisce sempre di più nelle nostre aule, era già stata avvertita da Edmondo De Amicis nel 1905, quando scriveva: «poiché pensiero e parola nascono nella mente gemelli, chi si disavvezza dall’esprimere il proprio pensiero, si disavvezza a poco a poco anche dal pensare» (E. De Amicis, L’idioma gentile, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006, p. 90). Adeguandosi all’età dei suoi alunni, Zoppelli, nel capitolo Orchi poco ortodossi, utilizza la metafora della «chiave che apre il baule del tesoro semantico» (p. 18) per lo svelamento, durante una lezione di storia, del significato di ortodosso, ma in tutto il volume è costante il tentativo di aiutare gli studenti in un apprendistato lessicale che è guida nella loro crescita come individui.
Il terzo motivo consiste nella capacità di estrarre dalla grande letteratura lezioni sulla storia, ma anche sul presente e noi stessi; oltre al trittico Lezioni italiane: gravezza-Il Giorno della memoria-Spiegare la Shoah oggi, incentrato sulla tentativo, comune a tutti noi docenti, di non far scadere il 27 gennaio in una vuota retorica pietista (preziose indicazioni sono nell’articolo di Gabriele Cingolani, Insegnare la Shoah: una sfida impossibile e necessaria apparso su questo blog), il volume si sofferma spesso su quell’oltre indicato nel titolo: un brano antologico letto in classe, una poesia, una citazione sono occasioni per riflettere su temi-chiave come l’amore, l’amicizia, la morte, la nostalgia: «la letteratura come incontro, quasi che un’opera possa essere persona viva, essere vivente tra altri esseri, esistenza inseparabile da altre esistenze; in qualche modo questo si voleva dimostrare» (pp. 33-34).
Un’idea di scuola
Oltre l’ora di lezione reca la dedica In memoria di Luca Serianni, di cui Zoppelli riporta, nelle pagine introduttive, il celebre passo della lezione di congedo all’Università Sapienza di Roma, in cui il compianto Accademico intimava a «chi ha scelto di fare l’insegnante» di non «prendersi il lusso di essere pessimista». Il titolo tradisce però anche la lettura del saggio di Massimo Recalcati L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento; lasciati da parte, però, i tratti talvolta estetizzanti e poco calati nella realtà della scuola contemporanea, credo che la lezione dello psicanalista si manifesti, in Zoppelli, nel concetto recalcantiano di presenza: «Questa […] è la forma principale che assume il desiderio dell’insegnante. Per rendere presenti gli allievi nell’ascolto, è necessario che il maestro sappia innanzitutto rendere presente a se stessa la propria presenza. […] L’insegnante parla e non è altrove, ma qui con noi. Non vorrebbe essere in un altro luogo» (M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014, p. 101).
È quanto avviene, per esempio, nel capitoletto In pochi (ma con Malpelo), in cui Zoppelli prende spunto dalla lettura, in una classe semivuota (chi ha vissuto l’esperienza kafkiana della didattica mista lo può ricordare) della novella verghiana, per questa riflessione: «Oggi la storia di Malpelo ha colpito con forza i tre ragazzi che, solitari, coprono, maculandola, la pianta della classe […]. Siamo in pochi oggi nell’aula, le rade voci riecheggiano timorose tra le quattro pareti spoglie, un po’ come le parole di Malpelo, “cencioso e lordo di rena rossa”, mentre lavora, da solo, nella cava» (p. 42). La lettura è, infatti, per l’autore, evidentemente debitore di Gadamer, «avventura conoscitiva, intesa anzitutto come occasione di partecipazione emotiva e momento in cui si incontrano esistenze diverse» (Ibidem).
Una lezione di realtà
Oltre l’ora di lezione ci consegna, tra le righe, anche un ritratto di insegnante, con cui non possiamo che identificarci: di contro alla retorica sul docente del XXI secolo, che dovrebbe essere dotato, oltre che di solide conoscenze metodologiche disciplinari, anche delle più aggiornate competenze digitali, orientative e via dicendo, Zoppelli si rappresenta invece come
un inesperto marinario nel mare in burrasca: all’ululare del vento e allo sciabordare delle onde si sostituiscono domande sull’inflazione, sul cristianesimo, sulla natura del centro della Terra, sulla suspence nel racconto d’avventura, sul perché di certi usi linguistici piuttosto che altri, sulle tasse delle automobili, sul senso della mitologia. E come un marinaio inesperto arranco, mi aggrappo al timone sperando di non urtare contro qualche iceberg o di non sobbalzare sulla schiena di qualche Moby Dick (p. 32).
Ma soprattutto, pur nella breve misura, che è il limite, ma forse anche il pregio del volume, Zoppelli ci ricorda, come fa anche Contu nel suo volume, la necessità di mettere in primo piano, ogni giorno in classe, il cosa, i contenuti culturali, «la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco che daranno sostanza e forma alla nostra relazione educativa» e il chi «verso cui li rivolgiamo» (R. Contu, Il banco e la cattedra, aguaplano, Perugia 2024, pp. 64-65).
Di fronte all’imperante scuola delle metodologie senza contenuti, del digitale “appiccicato” senza intenzionalità didattica, il libro di Zoppelli ci affida l’immagine di un insegnante come artigiano che, attraverso gli strumenti di lavoro, anche umili (una lavagna in ardesia, un libro di testo cartaceo, delle fotocopie) cerca di crescere i cittadini di domani, fiducioso nella possibilità che la scuola possa continuare a essere luogo del dialogo, del confronto, dell’aiuto, in cui mettere da parte, per qualche ora, le logiche competitive e prestazionali, che caratterizzano il mondo contemporaneo e che, ahimé, si stanno insinuando nelle nostre aule, sin dal primo ciclo.
Un libro quindi non rassicurante, che non scade nella mielosa retorica di professori psicologi o maestri di vita, ma che ci consegna un ritratto di insegnante vero, autentico, collocato in una scuola intesa come presidio di democrazia, concetto da difendere con forza in questi tempi bui.
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