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diretto da Romano Luperini

Di cosa parliamo quando parliamo di valori (Il bisogno di un nuovo Umanesimo – parte II)

Nell’articolo Il bisogno di un nuovo Umanesimo, pubblicato il 18 ottobre, si tracciava un excursus dei significati principali attribuiti nel corso del tempo al concetto di humanitas. Le radici e la storia della parola hanno sedimentato nei secoli visioni e concezioni del mondo legate alle diverse epoche, mantenendo però inalterato un nucleo di valori in cui ancora oggi pensiamo di riconoscerci e che riteniamo definiscano il nostro essere umani. 

Eppure, sulla definizione di questi valori o su cosa intendiamo per bene e male, è necessario fare uno sforzo ulteriore. In astratto, sembra intuitivo distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è o ciò che risponde a criteri condivisibili da un punto di vista etico e morale, ma se andiamo più a fondo ci accorgiamo che il rischio di genericità e approssimazione è tangibile.

Ci avventuriamo allora in un terreno friabile, quasi in punta di piedi, imbastendo una riflessione che non può avere nessuna pretesa di esaustività né tanto meno fornire risposte definitive, ma sentiamo ugualmente la necessità di affrontare la sfida.

Il pensiero si spinge lontano e abbraccia il divenire con i suoi corsi e ricorsi in cerca di un sentiero che ci guidi nel labirinto, per citare l’immagine con cui si era chiuso l’articolo precedente.

Ci sono state epoche, come il Medioevo, in cui i concetti di bene e di male erano netti e definiti. Se la realtà è emanazione di Dio, ogni suo aspetto viene interpretato in chiave teologica in quanto manifestazione della volontà divina. L’architettura della Commedia dantesca è complessa, ma non lascia margini di dubbio su ciò che per Dante, interprete della sua età, corrisponde al bene e ciò che invece appartiene al dominio del male.  

Le cose cominciano a complicarsi durante il Rinascimento maturo, quando si va delineando quel relativismo etico per cui, come insegna Machiavelli, un’azione di per sé riprovevole può, a seconda delle circostanze, rivelarsi utile e condivisibile, se finalizzata al consolidamento dello Stato. Anche Ariosto nella costruzione del suo poema ci restituisce la rappresentazione di una realtà mutevole in cui il caso e l’illusione guidano in fondo le azioni degli uomini e dirigono il corso degli eventi. 

L’età controriformistica, avviata dal Concilio di Trento, cercherà di normalizzare ogni manifestazione umana all’interno delle rigide maglie di un dogmatismo che disciplina, sancisce confini netti; tuttavia, il dubbio e una sensibilità inquieta, che sembrano precorrere la modernità, rendono molto difficile il tentativo di imbrigliare la libera espressione del pensiero anche quando questo viene messo a tacere con la violenza e la costrizione all’abiura.

Ogni età, in fondo, crea i propri miti da cui sente poi il bisogno di emanciparsi. In questo senso non fa eccezione neanche l’Età dei Lumi: basti pensare alla conclusione del Candide con la sua esortazione a coltivare il proprio giardino ovvero ad abbandonare ogni pretesa irrealizzabile e a ridimensionare il controllo della ragione su quella porzione di realtà che ci è consentito controllare.

È in una ragione che riconosce i propri punti di forza ma anche i propri limiti che possiamo trovare uno degli strumenti di cui abbiamo bisogno in questa ricostruzione, per quanto sommaria, che ci consenta di approdare al nostro tempo confuso e incerto per orientarci nel labirinto.

Proprio la ragione, secondo Kant, guida le scelte morali insite in ogni essere umano e, nella sua universalità, si traduce in quegli imperativi categorici che lo portano a considerare l’umanità come un fine, mai come un mezzo, attribuendo un’importanza fondamentale all’intenzione che determina ogni azione.

In questa lunga e non sempre lineare traiettoria, l’umanità, come osserverà Freud, ha subìto tre ferite inferte alla sua presunzione antropocentrica o desiderio di primato e di dominio: la prima è la rivoluzione di Copernico, che ha fatto prendere coscienza all’uomo della sua marginalità in un universo illimitato; la seconda è la scoperta, con Darwin, di non godere di nessun privilegio distintivo ma di essere governato, nella sua evoluzione, dalle stesse leggi che regolano le altre specie animali; la terza “ferita narcisistica” è la presa d’atto dell’uomo di non essere «padrone neppure in casa propria», cioè della propria vita psichica, proprio grazie agli studi dello stesso Freud.

Come spesso accade, le ferite che riceviamo ci obbligano a riconsiderare da prospettive diverse la nostra storia, il nostro percorso e le nostre convinzioni.

Allora, per tornare alla premessa di questo ragionamento, saranno proprio le risposte che l’umanità è stata, è e sarà in grado di dare alle ferite inflitte al suo amor proprio e alla perdita della sua centralità a tracciare una mappa di valori grazie ai quali provare a orientarci nel labirinto.

L’eliocentrismo, la teoria dell’evoluzione della specie e la scoperta dell’inconscio, erodendo la visione idealizzata dell’umano, ci fanno prendere atto della nostra incompletezza e imperfezione. La consapevolezza di una conoscenza frammentaria, che mina costantemente certezze acquisite, è alla base di quel cambiamento di paradigma a cui si faceva riferimento nell’articolo precedente [1]

Nel nuovo Umanesimo di cui avvertiamo il bisogno punti di riferimento sono proprio la consapevolezza di muoverci in un mondo plurale, in cui ogni scelta ha riflessi planetari. Accantonata ogni presunzione di onniscienza e di dominio, il nuovo abito mentale e comportamentale in grado di arginare l’incertezza o almeno di insegnarci a convivere con essa consisterà nel riconoscimento dell’altro e della diversità in un reciproco patto di corresponsabilità. Convertire «la vulnerabilità in valore» significa riconoscere i nostri limiti e interrompere «la spirale prometeica dell’illimitatezza» per «pensarsi nella relazione di interdipendenza che ci accomuna in un’unica umanità»[2]

Questa presa di coscienza comporta cambiamenti nello stile di vita individuale e collettiva al fine di trasformare l’atteggiamento di aggressione e di dominio nei confronti del pianeta in un rapporto rispettoso e consapevole dell’impatto che le nostre azioni hanno su ogni ecosistema.

Nel tentativo di costruire una mappa necessariamente incompleta e frammentaria che possa però dare qualche indicazioni sulla rotta da seguire, prendo ispirazione anche da un altro contributo fondamentale fornito dalla studiosa americana Martha Nussbaum[3] in un testo dal titolo altrettanto   significativo Coltivare l’umanità. La stessa autrice esplicita il debito nei confronti del pensiero di Seneca il quale nel De ira, dopo aver mostrato gli effetti nefasti di questa manifestazione dell’animo, definita una pazzia momentanea, una sorta di furor che accieca chi la prova, invita a còlere humanitatem. “Coltivare la propria umanità” significa fare appello a quella sapientia che esorta a non dimenticare mai sé nell’altro affinché l’odio non segua la nostra morte, offuscando persino il diritto alla memoria e al ricordo in quanti ci sopravvivono. 

In modo più pragmatico, Nussbaum elenca poi tre modi attraverso cui sia possibile coltivare l’umanità nel mondo attuale e che potrebbero costituire i fondamenti di ogni insegnamento.

In primo luogo si configura imprescindibile la capacità di esaminare criticamente «ogni abitudine o convinzione consolidata dalla tradizione»; è questo un presupposto importante per evitare di incorrere in quella forma dannosa di hybris intellettuale che ci porta a ritenere che solo la tradizione «in cui si è nati e cresciuti sia l’unica in grado di fare autocritica e di aspirare a essere universale».

Il secondo punto consiste nel «concepire sé stessi non solo come membri di una nazione o di un gruppo, ma anche come esseri umani legati ad altri esseri umani da interessi comuni e dalla necessità di un reciproco riconoscimento». In questo senso il “riconoscimento” è un processo cruciale e una parola-chiave ricca di numerose implicazioni letterarie ed etiche, su cui tornerò nella conclusione di questa riflessione.

Infine, come terzo aspetto, viene sottolineata l’importanza dell’«immaginazione narrativa», cioè «la capacità di immergersi nei panni di un’altra persona, di capire la sua storia personale, di intuire le sue emozioni, i suoi desideri e le sue speranze». Non significa, prosegue Nussbaum, cancellare la nostra identità o i nostri giudizi che, al contrario, in questo rapporto di reciprocità si definiranno in modo più critico e consapevole.

Il secondo e terzo punto appaiono dunque accomunati dalla nostra capacità di riconoscere, o meglio di riconoscerci simili, in quanto esseri umani, in quella inevitabile alternanza di dolori, gioie, desideri, paure, che orchestrano la regia della vita di ognuno di noi.

Come ci ricorda Piero Boitani[4] nel titolo di un saggio altrettanto bello e denso di riferimenti alla letteratura, nelle sue connessioni con l’etica e con la morale, Riconoscere è un dio. Non è un caso che l’espressione rimandi ancora una volta al patrimonio classico e ai nostri studia humanitatis: la citazione è tratta da un verso dell’Elena di Euripide, in cui la protagonista, alla vista di Menelao, nonostante i patimenti dovuti alla guerra e alla lontananza, riconosce lo sposo e identifica nello squarcio che illumina la sua mente qualcosa di sacro e di divino.

Questo meccanismo, che con termine di derivazione latina chiamiamo agnizione, è alla base di molte opere letterarie, a partire dai poemi omerici – pensiamo all’Odissea – , attraverso la tragedia, la commedia, il romanzo, su su lungo i secoli fino alla modernità.  Non si tratta solo di un espediente narrativo, funzionale allo svolgimento della trama, ma investe la nostra capacità di provare compassione e di riconoscerci affini nella sofferenza che sfiora la vita di tutti, senza eccezioni, permettendoci di cogliere nell’altro una parte noi.  Sebbene questo punto richieda una trattazione più ampia, da riservare eventualmente ad un’altra puntata, concludo ricordando un eloquente discorso in cui David Grossman[5] esorta gli uomini politici a imparare proprio dagli scrittori a calarsi nei panni dell’altro e a cogliere dietro ogni corazza e armatura le speranze, le delusioni e i dolori che si celano anche in coloro che definiamo i nostri nemici. Un esercizio di compassione e di umanità che oggi più che mai dovremmo mettere in pratica e che può restituire un po’ di senso al nostro essere insegnanti, politici, professionisti ma soprattutto esseri umani accomunati dal progetto comune della costruzione di un presente e di un futuro più vivibili.


[1] M. Ceruti – F. Bellusci, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2023

[2] E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità, Bollati Boringhieri, Torino, 2009

[3] M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci Editore, Roma, 2006

[4] P. Boitani, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Einaudi, Torino, 2014

[5] D. Grossman, Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese di guerra, Mondadori, Milano, 2007

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