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diretto da Romano Luperini

Elsa de’ Giorgi, Italo Calvino e la rimozione di una donna

Una vita ricca e tormentata
Elsa Giorgi Alberti nasce nel 1914 “per caso” a Pesaro, da una donna bellissima e da un padre insegnante di nobile famiglia umbro-marchigiana. L’infanzia è funestata dalla malattia mentale della madre, vittima di una cura ormonale e presto rinchiusa in una casa di cura. La sua adolescenza, vissuta a Firenze, ha una svolta improvvisa grazie a un concorso fotografico. Notata da Mario Camerini, si trasferisce appena diciottenne a Roma, dove nel 1933 inizia una carriera cinematografica che la porterà a diventare una diva negli anni del fascismo. Rispettata e corteggiata dai gerarchi, negli anni della Guerra riesce a frequentare e nascondere in casa antifascisti, ebrei e comunisti (tra cui Luchino Visconti) con incredibile equilibrismo, mentre si fa strada la scelta più soddisfacente del teatro, più vera palestra dell’attore. Nel dopoguerra, sposata con il partigiano Sandrino Contini Bonacossi, racconta la sua disillusione nel suo capolavoro “I coetanei”, pubblicato da Einaudi e supervisionato da Italo Calvino, col quale (scomparso misteriosamente il marito pare a causa di rischiosi traffici di opere d’arte) vive una discussa e “itinerante” relazione dal 1955 al 1958. Negli anni successivi la casa romana di Elsa, che continua a scrivere e a dedicarsi al teatro anche a livello teorico, diventa il luogo dove il giovedì si riuniscono molti talenti della cultura, come Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Carlo Levi, Gadda e Palazzeschi, Gatto e Guttuso, Sandro Penna e Dario Bellezza, Elio Pecora e tanti altri, anche sconosciuti. Non avendo potuto conoscere la maternità, la De’ Giorgi “adotta” una amica-segretaria-figlia in Maria Grazia Rombaldi, giovane giornalista di Bevagna che è andata a intervistarla per un giornale perugino. Con lei vivrà gli ultimi anni non facili, in una lotta su più fronti: l’eredità del marito, trovato impiccato a Washington in circostanze misteriose; l’eredità affettivo-epistolare di Calvino, ostacolata dalla moglie e ancora oggi dalla figlia (e da altri insospettabili scrittori). Elsa muore a Roma in una clinica, quasi allo stesso modo della sua cara amica Anna Magnani, il 12 settembre 1997. I suoi resti riposano nel bel cimitero campestre di Bevagna, nella tomba di famiglia dei Giorgi Alberti, tra ignari visitatori.

La carriera cinematografica
Nonostante la debole ma ferma opposizione paterna, Elsa De’ Giorgi si trasferì a Roma per fare cinema, diventando ben presto una diva. Negli anni del fascismo le arrivano anche 300 lettere al giorno; ammiratrici, militari che le chiedono autografi sulla foto. L’attrice ricorda molti suoi film come sciocchi e “soffre” un metodo che la usa come una marionetta, che faccia l’ingenua sedotta, la ragazza spigliata o la nobile in costume. Dei suoi film resistono al tempo almeno i due cameriniani, “T’amerò sempre” e “Ma non è una cosa seria” da Pirandello, “Due milioni per un sorriso” di Borghesio e Soldati, “Sant’Elena piccola isola” dell’amato Renato Simoni, con un ottimo Ruggero Ruggeri nel ruolo di Napoleone. Ma già negli anni Quaranta il teatro diventa un’esperienza ben più soddisfacente, con nuovi studi e nuove prove anche più complicate (ad esempio con Visconti e Strehler) rispetto ai bamboleggiamenti dei set cinematografici. Dopo oltre 20 film girati tra il 1933 e il 1947, Elsa diventa scrittrice, saggista, memorialista, esperta d’arte e di teatro. E i suoi film più importanti diventeranno quelli che l’amico Pier Paolo Pasolini le chiede di interpretare in piccoli ruoli, ma in due capolavori: “La ricotta” (1963) accanto ad Orson Welles e il controverso, estremo “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975) dove interpreta la signora Maggi, una delle narratrici di quell’Inferno in bilico tra squadrismo e cinismo neocapitalistico. L’anno prima, però, la De’ Giorgi ha scritto, diretto, prodotto e interpretato il suo unico film da regista, l’ormai introvabile “Sangue + Fango = Logos Passione”, un’opera ispirata alla lauda di Iacopone e recitata in volgare umbro duecentesco, ardua e frutto di una ricerca faticosa con il suo gruppo teatrale. Un film povero e ieratico ancora più “fuorimoda” di quelli dell’amico Pier Paolo, al quale la battagliera Elsa aveva cercato di far vincere il Leone d’Oro a Venezia con “Il Vangelo secondo Matteo”, dieci anni prima. Era il 1964 e il Leone andò a “Il deserto rosso” di Antonioni, in una lotta tra giganti che non sono più in circolazione. Purtroppo.

Elsa De’ Giorgi nel “Salò” di Pier Paolo Pasolini

La memorialistica ristampata
È incomprensibile come dalla ampia letteratura resistenziale italiana sia stato spesso rimosso I coetanei
di Elsa De’ Giorgi. Eppure venne pubblicato da Einaudi nel 1955, supervisionato da Italo Calvino, prefato da Gaetano Salvemini e vinse un premio Viareggio. Per fortuna Feltrinelli lo ha ristampato nel 2019. Sicuramente il capolavoro della scrittrice, è un prezioso testo di memorialistica che inizia con Anna Magnani sulla spiaggia nel 1940 il giorno precedente l’entrata in guerra dell’Italia, e finisce con il suicidio di Cesare Pevase nella desolata estate del 1950. Dieci anni in cui Elsa fa un cinema “sciocco” e irreale, nasconde in casa antifascisti ed ebrei, visita con orrore i mutilati provenienti dall’Africa e dall’Albania ed è pronta, col suo potere contrattuale di diva, a intercedere da Pavolini e poi presso un ufficiale nazista innamorato per salvare gli attori da atroci incombenze propagandistiche e liberare ragazze arrestate senza validi motivi. E scorrono riunioni di antifascisti in piccoli alberghi, allarmi e bombardamenti, la scoperta delle Fosse Ardeatine nella quale Elsa sembra aver avuto un ruolo mai riconosciuto. Con uno sguardo alla Resistenza fiorentina, dove il nobile Alessandro Contini Bonacossi si segnala per imprese arditissime prima di diventare, nel 1948, il marito dell’attrice. La Liberazione arriva come un’onda di entusiasmo, che ben presto si trasforma in disillusione perché ritornano dal Sud vecchie facce conniventi con il precedente potere, mentre gli americani devono guardarsi dal pericolo comunista in una prospettiva che è già di guerra fredda. I “coetanei” come Carlo Levi, grande amico di Elsa a cui il libro è dedicato, si disorientano, a volte si appartano con una pietra nel cuore, come Cesare Pavese. A questo libro assolutamente da recuperare, nel 1958 fa seguito il dattiloscritto di Storia di una donna bella, che però vedrà la luce solo nel 1970, edito da Samonà e Savelli, “dal 1963 punto di riferimento della sinistra extraparlamentare”. Protagonista è Elena, attrice del cinema dei “telefoni bianchi”; gli anni sono più o meno gli stessi dell’opera precedente ma viene abbandonata la prima persona narrante per un romanzo di formazione dove realtà e invenzione si mescolano in un tessuto nel quale è possibile riconoscere personaggi come Jean Gabin e il maestro di teatro Renato Simoni. È un racconto di grande interesse ma meno “iconico” del precedente, fortunatamente ristampato pochi mesi fa da un piccolo editore, 13 Lab. La curiosità del lettore si accende nell’ultima parte, dove il personaggio del partigiano Giovanni sembra inizialmente assomigliare al conte Sandrino Bonacossi per trasformarsi, nell’epilogo forse successivo al 1958, nello scrittore Italo Calvino. Elena e Giovanni si sono lasciati e si ritrovano con reazioni quasi raggelanti a una conferenza dello scrittore, sposato a una donna dal petto “umile e materno”. Sembra proprio l’incontro dall’aria turbata e pesante che molti ricordano, tra Italo ed Elsa ancora bellissima ed elegante col suo cappello nero di velluto. Ma questa è una storia che la De’ Giorgi sarà “costretta” a raccontare nel 1992.

Ho visto partire il tuo treno è l’incipit di una delle oltre 300 lettere che Italo Calvino scrisse a Elsa De’ Giorgi, forse il più bell’epistolario d’amore del Novecento secondo Maria Corti. È anche il titolo del terzo volume di una “involontaria” trilogia degiorgiana, uscito per Leonardo Editore nel 1992 e per fortuna ristampato da Feltrinelli nel 2017. Elsa lo scrive per fare chiarezza sul chiacchiericcio e i pettegolezzi che dopo la morte di Calvino, sopraggiunta a Siena nel 1985, hanno ripreso vigore. È un’opera dolente, lucida e pacata, che la scrittrice ricostruisce utilizzando sì le lettere (senza poterle pubblicare per il veto di Chichita, moglie di Calvino dal 1964), ma è anche un attraversamento degli amici scomparsi, da Anna Magnani a Pier Paolo Pasolini, da Carlo Levi a Gerardo Guerrieri. E soprattutto c’è la storia d’amore tra lei e Italo, iniziata nella primavera del 1955 (complice la pubblicazione de I coetanei) e finita nel 1958. Una storia intensa perché invade e corrobora la mente, influenza (eccome!) il Calvino delle Fiabe italiane, del Barone rampante, della Nuvola di smog fino al Cavaliere inesistente, alimenta e arricchisce un razionalismo che diventa vitale, rivelando la fragilità del genio, magari emancipandolo dalla figura materna. Calvino ha 32 anni ed Elsa 40, già uno scandalo anagrafico. Poi Elsa è sposata con il conte Sandrino Contini Bonacossi, che sparirà dalla vita della moglie il 27 luglio del 1955, prima confermandole il suo immutato affetto poi, mesi dopo, chiedendo una separazione per “ingiurie e dispendiosità” che in prospettiva aprirà la voragine della successione ereditaria circa venti anni dopo. Elsa e Italo si amano incrociandosi tra Roma e Torino, dove lo scrittore vive in una camera con telefono e bagno esterni prima di un trasloco curato anche da Elsa. Le estati sono meno turbolente, a Praia o a Caponero. Scrivono entrambi e si amano in una trasfusione di saperi, intuizioni, trasporti e civetterie ora giocose ora più inquiete. Nel 1958, dopo un litigio banale che ha “costretto” Calvino a restare accucciato e piangente fuori dalla camera occupata da Elsa, lo scrittore si dilegua. Scriverà ancora all’amata chiedendo una serena amicizia intellettuale, custode di un passato prezioso, ma stavolta sarà Elsa a dileguarsi. La mia modestissima ipotesi, oltre alla difficoltà calviniana di vivere accanto a un “cavaliere inesistente” come il conte Sandrino, è che lo scrittore si sia spinto oltre l’accettazione del suo “tradimento alla razionalità”, rischiando di perdersi smarrendo equilibrio e quel sé a cui ogni artista è legato. Due caratteri differenti, per certi aspetti opposti, nei quali la componente distruttiva rischia di impaludare e umiliare quella creativa. Ma quei tre anni di bellezza sconvolgente noi non potremo riviverli se non in questo libro. Perché? Elsa ripone le lettere calviniane nella cassapanca dove rimangono custodite per anni, senza farne parola nemmeno con la fedele Maria Grazia Rombaldi. Prima di morire nel 1997, le vende al prestigioso Fondo Manoscritti pavese di Maria Corti, decretandone la secretazione al pubblico per 25 anni. La filologa, amica di Calvino, le legge ed è entusiasta di aver salvato il più bell’epistolario del Novecento dalla fuga in Svizzera, in un qualche caveau. Forse oggi tutti potremmo godere di quella bellezza geniale, ma prima Chichita Calvino, poi la figlia, con tanto di avvocati impediscono la diffusione e la lettura della metà delle lettere custodite a Pavia, come ci ricorda Eugenia Petrillo nella sua preziosa tesi di laurea sul carteggio. È proprio vero: spesso i morti restano ostaggio dei vivi.

Il caso riaperto e la rimozione di una scrittrice e intellettuale
Il libro del 1992 riapre il “caso De’ Giorgi”, come documentato nel prezioso studio di Mariapia Comand
Elsa De’ Giorgi – Storia, discorsi e memorie del cinema edito da Mimesis nel 2022. La stessa Adele Cambria si chede come possa essere stato possibile il linciaggio di Elsa De’ Giorgi da parte di intellettuali di sinistra (Arbasino, Citati, Cotroneo e, in misura più indiretta, Asor Rosa e Scalfari). Evidentemente, a parte la comprensibile posizione della vedova, peraltro aspra e risentita, è stato toccato un “totem” della letteratura italiana che gli amici hanno voluto difendere nella sua cristallizzazione, al punto da svalutare il ciclo calviniano degli antenati rispetto alle opere più tarde (Citati), o definire la scrittrice “falsa contessa”, “dark lady”, “femme fatale”. C’è insomma un’acrimonia che attinge certo al maschilismo di un’élite da un lato e al rifiuto della dimensione “privata” e dunque “borghese” dall’altro. Ma qui non si tratta di pruriti sentimentali o di liquidare, come fa Asor Rosa, “un’intensa storia erotica”, bensì di restituire lo statuto di intellettuale a una donna che ha lottato (anche politicamente) per essere riconosciuta come “persona pensante”, testimone di una stagione irripetibile del Novecento e scrittrice di livello. Tra l’altro, è un “linciaggio” che si sviluppa sulla stampa nazionale già dal giorno successivo alla morte fino ai primi anni del nuovo millennio, ogniqualvolta si riaffaccia la questione dell’epistolario “più bello del Novecento”. E più impossibile. Purtroppo anche la scomparsa della figlia-segretaria Maria Grazia Rombaldi ha lasciato un deserto coltivato da amici fedeli come Elio Pecora e Roberto Deidier, da donne che l’hanno apprezzata in quella zona del Circeo dove la sua villa custodisce ancora oggetti familiari e giovani studiose che magari provano a scrivere una controstoria di genere. In un’epoca, come ebbe a scrivere nel 2004 Romano Luperini, di “intellettuali giulivi, disinvolti, narcisisti, furbi, pronti a fiutare ogni moda e ogni indirizzo del mercato culturale”, appare doveroso riascoltare la voce di una donna che non ebbe né editori facili né mercato e che ci ha lasciato forse i più bei ritratti di Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini, divenendo testimone combattiva e lucida anche nei suoi scritti. Anche per rendere più adorna quella tomba sulla quale soffia un vento dell’oblìo, tra le colline umbre di Bevagna.

Allora vorrei che l’editoria tornasse a pubblicare Elsa De’ Giorgi, magari altri romanzi come L’innocenza (1960) che tanto successo ebbe in Francia, Un coraggio splendente (1964) apprezzato da Pasolini e con uno struggente ricordo di Thea Brandi, la seconda sfortunata moglie di Eduardo De Filippo o l’ultimo Una storia scabrosa (1997) su un giovane amore sessantottino, o ancora L’eredità Contini Bonacossi (1988), memoriale scomodissimo su un giallo mai chiarito, quello della morte del marito e della Collezione d’arte forse più chiacchierata del secolo scorso, che interessi economici altissimi alienarono in gran parte dal patrimonio statale italiano. E si restituisse a questa intellettuale innamorata di verità e libertà ciò di cui è stata espropriata, senza intaccare di un grammo la grandezza letteraria di Italo Calvino, per il quale parlano le opere. Nel 1960 Elsa scriveva all’amico Emilio Cecchi queste righe chiare e persuasive: “Dal mio lavoro dipende ormai l’unica speranza di ordine e di pace per la mia vita (…) Io non ho altro Cecchi. Nè figli né famiglia, né un affetto su cui contare. Devo dare un significato dignitoso e vero a quello che faccio. Non da dilettante capricciosa che non sono”. La De’ Giorgi quel significato dignitoso ce lo ha restituito e qualcuno, anche grazie all’amorevole cura dei suoi scritti esercitata dall’amico Elio Pecora, per fortuna se ne sta accorgendo. Forse.

La tomba di Elsa De’ Giorgi a Bevagna (foto Guerrini)

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