Che la letteratura si concentri nel voler capire mi pare sia la cosa meno di moda, nel nostro tempo. Conversazione con Walter Siti
LN si prende una pausa estiva. Nel prossimo mese e mezzo ripubblicheremo alcuni articoli usciti quest’anno. Auguriamo a tutti i nostri lettori e lettrici buone vacanze. Ci rivediamo i primi di settembre.
Per La lepre edizioni è uscito il volume di saggi e interviste Non c’è che dire. Libertà di espressione nella cultura italiana, a cura di Marta Rizzo e con una prefazione di Massimo Carlotto. Il volume affronta il tema della censura nell’editoria, nella letteratura, nel teatro, nella radio, nella tv, nel diritto, nel dibattito pubblico. Per gentile concessione dell’editore e della curatrice, pubblichiamo il capitolo nono, che contiene un’intervista a Walter Siti.
1. “La Resistenza prevale sul Progetto. Il neo-impegno non crea una società nuova, abolendo quella esistente, ma valorizza l’opposizione e vuole confermarsi dalla parte giusta” (Siti W., Contro l’Impegno, Rizzoli, Milano 2021). Cosa intende precisamente con i termini ‘valorizza’ e ‘confermarsi’? Mi spiego: pensa che questa tendenza al neo-impegno che si oppone senza costruire e tenta disperatamente di essere politicamente corretta, faccia, al fondo, un lavoro di “auto boicottaggio” verso la ricerca di una nuova cultura? Pensa cioè, che il resistere, piuttosto che il progettare, sia un ostacolo che la cultura pone sul proprio stesso cammino?
Credo si debba distinguere tra letteratura e cultura in generale, riguardo a quanto ho scritto in Contro l’impegno. Sulla cultura in generale, ho l’impressione che più che rassicurare e confermare le posizioni “giuste”, la tendenza dominante della cultura sia quella di “polarizzare” le opinioni. Mi spiego, la cultura tende a creare, in questo momento, non un dialogo, ma uno scontro, tra due fazioni opposte che litigano fra loro. In questo contesto, la funzione del mediatore (giornalista o conduttore televisivo) sia quella di mediare tra questi due estremi e tentare di trovare un accordo; a meno che non si tratti di mediatori che vivono attraverso gli scontri altrui e, al contrario di armonizzare le parti, aizzano le posizioni contrapposte.
Per quanto riguarda la cultura in senso ampio, dunque, non credo si possa parlare di “autoboicottaggio” che essa perpetra nei confronti di sé stessa. Mi pare che, al contrario, in questo momento ciascuno tenti di avere posizioni il più possibile nette, eliminando ogni tipo di sfumatura.
Quanto alla letteratura, il discorso è diverso. In letteratura non c’è un confronto immediato, la letteratura nasce nel tempo e ha bisogno di riflettere. La letteratura agisce a livello psicologico, esistenziale, “creaturale”. Ecco, in questo caso, sono d’accordo con lei. Il lavoro della letteratura consiste nello scandagliare l’umano: la letteratura, cioè, rischia sempre, per propria natura, di creare contraddizioni e anzi sulle contraddizioni costruisce storie, personaggi, fa scoprire l’autore e le proprie debolezze.
(Per intenderci, il fatto che non stia nascendo una letteratura sulla pandemia, per esempio, o sulla guerra tra Russia e Ucraina che stiamo vivendo, credo sia un bene, perché la letteratura vive di riflessione e di sedimentazione dei fenomeni in atto, in corso, in fieri e deve storicizzare, per non creare inutili contraddittori).
In questo momento, la letteratura, a differenza della cultura e del giornalismo dominanti, tende ad appianare tutto, a non costruire, a non progettare, a non scandagliare, a far vedere soltanto la parte in luce, la parte “buona” di ciascun personaggio e avvenimento. Ecco, questa tendenza “appianatrice” che la letteratura contemporanea ha, è chiaramente un “autoboicotaggio” nella ricerca del senso che la letteratura fa dall’inizio della sua storia.
La cultura in generale, dunque, non chiede di ostentare neutralità. Al contrario, chiede di parteggiare nettamente e di posizionarsi tra i buoni o i cattivi (e, in ogni caso, anche se tu stesso non lo fai, qualcuno ti mette comunque da una parte o dall’altra).
La letteratura, al contrario, fa un torto a sé stessa, autoboicottandosi, nel momento in cui sceglie dichiaratamente di rinunciare alle contraddizioni.
2. “L’importante è che il messaggio arrivi”, continua nel suo Contro l’impegno. Forma e contenuto, dice, perdono la loro compattezza, fondamentale invece affinché la parola scritta possa trasformarsi in letteratura. Il messaggio che “arrivi”, purché sia, sottende una forma di “sciatteria” che ha molto a che fare con il concetto di libertà dell’esprimersi: purché arrivi ciò che si vuole dire, nella cultura del neo-impegno, è concesso sacrificare il modo in cui dirlo, scriverlo, costruirlo. Lei pensa sia rimediabile questa pericolosa deriva verso la rinuncia alla forma letteraria, che è contenuto solidificato? L’arte retorica, e non semplicemente l’“ornato” come lei stesso sottolinea, ha ancora un senso, in questa nostra cultura?
Vorrei essere chiaro: non mi riferisco all’aspetto esteriore del concetto di forma. Non parlo dell’estetica, della ricerca del bello a tutti i costi, dell’ornato, appunto. Esiste la forma del contenuto, con le parole di Adorno. I libri, oggi, traboccano di arguzie letterari, tutte cose che mettono in luce soprattutto la dignità dello scrittore). Il segreto della letteratura, invece, è fare in modo che il lettore si identifichi con i personaggi. E, badi bene, i personaggi sono loro stessi una forma (come li presento, come li faccio arrivare al lettore, che carattere hanno: queste sono tutte costruzioni formali). Se lo scopo della letteratura è l’immedesimazione, la letteratura contemporanea invece sfugge al suo ruolo: nel momento in cui il lettore si distrae dai personaggi per pensare alla forma letteraria usata dall’autore per far vanto di sé (il più delle volte), ecco, allora quell’attenzione formale nega la letteratura. Questa forma “esteriore” è un danno.
Al contrario, la forma che entra nelle profondità del personaggio, dev’esser una forma dove non si noti la presenza dell’autore, una forma dove il lettore si possa identificare totalmente con il contenuto di quello che legge, in modo da non essere distratto da nient’altro, per poter conoscere qualcosa che, prima di iniziare quella lettura, non conosceva. Questo, di solito, avviene molto bene con i libri tradotti. I grandi traduttori italiani, e ce ne sono stati davvero di straordinari in questo Paese, hanno la capacità rara di mantenete delle forme letterarie sobrie, il più possibile chiare, abbassando anche certe punte formali. Ecco, questo esempio mi serve per distinguere bene tra quello che i latini chiamavano inventio e dispositio. Occorre saper distinguere, cioè, tra l’inventare le situazioni e come metterle in successione. Queste due costruzioni retoriche sono, appunto, molto più importanti dell’elocutio, cioè dell’usare frasi dal bel ritmo. È chiaro che ciascun autore tende a scrivere nel miglior modo possibile. Se nel romanzo che costruisco mi viene un endecasillabo che funziona bene, lo utilizzo, ma non è questo l’obiettivo centrale del mio scrivere.
3. “La letteratura è avventura conoscitiva”, è scavare, entrare dove non si ha coraggio di entrare e di guardare (citando sempre il suo libro). Se, al contrario, in questo neo-impegno la ricerca del senso viene sempre sacrificata, come vede il futuro dell’esperienza conoscitiva e che fine fa la libertà di esprimersi, in letteratura?
Da un certo punto di vista, la questione ha a che fare con l’idea dominante dell’autore: e cioè l’idea che l’autore pensa, il più delle volte, che il personaggio principale del loro libro sia lui stesso e che il lettore non legge il libro per conoscere i personaggi che l’autore crea, ma per conoscere meglio te come persona-autore, attraverso i personaggi che racconta. La sigla dominante, per esempio, è l’uso della metafora molto spinta, quasi eccessiva, l’utilizzo del dialetto anche quando diventa ridondante, la sciatteria della forma come vezzo… In ogni caso, l’attenzione dev’essere attirata sull’autore e non su ciò che racconta.
Questa tendenza, naturalmente, ha a che fare con il Mercato letterario, perché avere una “sigla” di autore garantisce la vendita, indipendentemente da cosa si racconta. Il Mercato stima che il lettore voglia leggere un libro di Quell’autore per il suo modo di scrivere e, tendenzialmente, questo accade, oggi.
C’è dunque, un pericolo di Manierismo. L’autore scrive nella sua maniera e, per questo, vende. Se, per esempio, leggessi un libro di Roberto Saviano con uno stile simile a quello di Marcel Proust, rimarrei evidentemente sconcertato. Magari sarei anche stupito e divertito e incuriosito, ma fondamentalmente sarei sconcertato.
Ritengo, cioè, che un autore che voglia davvero mantenersi libero di esprimersi, dovrebbe essere in grado di deludere il proprio lettore, stupire il proprio lettore, non lasciarlo su posizioni comode, consolidate, note. L’eccessiva fedeltà a se stesso finisce sempre per essere una gabbia.
Qualche volta, quando cioè le motivazioni degli autori che leggo sono davvero forti e sincere e tendono davvero a un cambiamento di rotta che fino ad allora quello scrittore non era stato in grado di fare, allora, in questo nuovo modo di fare letteratura, vedo dei libri sinceri, liberi, nei limiti della libertà che ciascuno di noi ha verso sé stesso e verso gli altri. E, allora, riesce anche a inventare qualcosa di molto buono.
Vorrei puntualizzare una cosa, riguardo la libertà di espressione degli autori. Gli editori, in generale, tendono a non favorire un processo di crescita, di cambiamento, di maturazione dell’autore. Se Fabio Volo, per esempio, pensasse di scrivere un libro rinunciando al suo immancabile “lieto fine”, per lui sarebbe anche una forma di crescita, ma l’editore non sarebbe d’accordo.
L’economia, indubbiamente, intralcia la libertà dell’autore.
4. “Anche le democrazie occidentali, non soltanto le dittature dichiarate, dispongono di strumenti che condizionano e costringono le scelte dei cittadini: forme di pressione che si riverberano sulla sensibilità del pubblico, sulle mode culturali e sulle logiche del mercato editoriale e comunicativo, indirizzando il pensiero e le azioni degli individui” (Caravale G., Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna, Laterza, Bari 2022). La libertà di espressione, secondo lo storico Caravale, è in pericolo in Occidente. È davvero possibile che non siamo in grado di riconoscere e risolvere questo ricatto intellettuale, che va dalla questione etica a quella economica, con un cinismo che sta soffocando la volontà del singolo e della collettività?
Ciascuno di noi ha una propria enciclopedia mentale, che si è costruita nel Paese di origine, nelle scuole che si sono fatte, nelle letture e nelle conoscenze che la nostra natura predilige e via dicendo. Nessuno di noi, quindi, è libero di uscire dai propri condizionamenti culturali. Siamo tutti legati al tempo e allo spazio che viviamo. Altro discorso è, in questo contesto di non libertà, tentare di poter raccontare liberamente ciò che si sceglie.
Faccio, a tale proposito, un esempio che mi è vicino. Da qualche tempo, seguo i romanzi di alcuni giovani scrittori, tutti esordienti. Spesso, questi ragazzi partono da romanzi esili, che tendono più a levare che ad aggiungere, parlo di romanzi non più lunghi di 80-100 pagine. Credo che questo sia il loro modo di affacciarsi alla letteratura, con quelle timidezze e pudicizie della giovane età. Questi libri, successivamente, vengono affidati a editor affermati e professionisti, i quali tendono ad arricchire lo scritto originale. Gli editori tendono a chiedere maggiori sforzi agli esordienti, consigliano di sviluppare i personaggi, anche quelli minori, a specificare cose che i testi originari avevano lasciato nell’ombra. Così facendo, costringono gli esordienti ad appesantire la loro scrittura. Il risultato è che quell’esile romanzo di 80-100 pagine perde completamente la propria originaria autenticità e diventa un romanzo di 200 pagine, che somiglia, in certo modo, a tutti gli altri.
Ecco, la mia paura è che l’autenticità degli autori sia deformata dal bisogno che gli editori hanno di avere un prodotto libro che si presenti di più alle richieste del Mercato. Questo, lo vedo, accade tra gli esordienti. È evidente che questo dipende anche dal potere contrattuale dell’autore. Un autore affermato può permettersi di dettare le proprie regole. So, per esempio, che Aldo Busi ha un romanzo già pronto, di non facile pubblicazione a quanto pare, e sta aspettando l’editore giusto. Ma è Aldo Busi e il suo potere contrattuale è altissimo. Questo esempio lo faccio per dichiarare apertamente quanto, al contrario, un esordiente al suo secondo, terzo libro, sia inevitabilmente più ricattabile, manipolabile, influenzabile dal Mercato e dal mondo editoriale rispetto a un autore affermato. Anche questo aspetto, evidente a chiunque, è per lo più taciuto, accettato, dato per assodato, mai contestato, incontestabile.
Il mercato letterario pone delle “pressioni”, velate, mai imposte dichiaratamente: un editore è liberissimo di non accettare un libro, o di non accettare che l’autore non voglia sottostare alle regole della linea editoriale di quella precisa casa editrice. Ma in Italia ci sono un’infinità di editori e chi non cede alle regole del Mercato e dell’editore al quale si è rivolto, può sempre cercarne e, magari, trovarne altre.
Quindi, sì, sono d’accordo con questa idea di “ambiguità” rispetto alla nostra libertà di esprimersi. Si crea un sottile convincimento sul fatto che gli editor che curano il libro di un esordiente siano ben più consapevoli delle tendenze del Mercato e lavorano per la buona riuscita del libro. E così, non si sperimenta, non si cambia, non si osa.
Un libro che mi piacerebbe leggere, se ci fosse qualcuno che avesse interesse a farlo, vorrei che confrontasse in maniera chiara le prime redazioni di alcuni romanzi di esordienti, scritte liberamente e in modo “autentico” da un giovane autore, con le stesure definitive degli stessi, curate da grandi editori i quali, in un modo o nell’altro, hanno condizionato e modificato le volontà di partenza di chi ha scritto quel testo per seguire gli standard del mercato. Credo ci sia una precisa “estetica” degli editor e delle scuole di scrittura.
Per esempio, una cosa che ho notato è che molti esordienti sono portati a dare per scontato che raccontare le cose in ordine cronologico, per come cioè accadono nella realtà, sia una cosa un po’ rozza e da incolti, per cui sono portati a costruire “salti temporali” complicatissimi: flashback e flashforward difficilissimi da seguire. Però, questa costruzione è molto di moda e risulta particolarmente “figa”, a scapito del lettore.
Ecco, le scuole di scrittura e gli editor hanno una precisa “estetica” che seguono senza molto criterio.
5. Sono talmente d’accordo che le chiederei, qualora fosse mai possibile, di indicarci alcuni esempi specifici sulla tendenza del Mercato e su ciò che il Mercato chiede.
Mi fa una domanda difficile, che richiederebbe ore di ragionamento. Ma proviamoci.
a. La scrittura femminile. C’è una forma di distacco, quasi schizoide, tra il presentare i personaggi femminili come vittime e, contemporaneamente, come “cattive ragazze”. Per esempio, sei problematica, sei stata una cattiva figlia, sei stata una cattiva madre, sei pessima con gli uomini. Allo stesso tempo, però, sei vittima della violenza maschile, al primo schiaffo devi scappare dall’uomo che te l’ha dato, se il tuo amore è tossico lo devi immediatamente dimenticare (perché si sa che le donne sono sempre sottomesse e soccombenti). Voglio dire: nella scrittura femminile mi pare chiaro che ci sia una profonda ambiguità, che non “sceglie” mai da che parte stare. Voltaire dice una cosa molto divertente sulle scrittrici del suo tempo: “Elles sont dévotes et coquettes à la fois: il faudrait opter”. Ecco, vorrei che le donne scegliessero che tipi di donne raccontare. Seppure con le inevitabili sfumature e contraddizioni umane, vorrei conoscere un personaggio femminile che non sia contemporaneamente devoto e leggero.
b. Raccontare le vite degli eroi, o dei criminali: tutto al di sopra, o tutto al di sotto della media. Si dedicano romanzi e testi letterari a persone indiscutibilmente al di sopra della media. Oppure, si raccontano specifici casi criminali, indiscutibilmente al di sotto della media. È come se fosse difficile, se non impossibile, raccontare la vita quotidiana, perché la vita quotidiana è percepita o come noiosa, oppure come troppo avvolta da contraddizioni che noi stessi non conosciamo bene (come diceva lei stessa prima), e quindi ci è difficilissimo parlarne. Mi pare che si fugga dalla ricerca introspettiva dell’uomo comune. La letteratura del Novecento è stata, al contrario, una letteratura di grande introspezione: la ricerca dell’uomo comune, dell’inetto, dell’uomo che non sa trovarsi, che non sa cosa fare e cosa scegliere. Mi riferisco, soprattutto, ai grandi temi di Moravia, per esempio. Ecco, oggi mi sembra impossibile che nasca un nuovo Moravia, o uno scrittore capace di guardare profondamente nell’inettitudine e nella confusione che vive l’uomo comune. Bisogna guardare, allora, oltre la normalità e raccontare l’eroe o il delinquente, il grande buono o il grande cattivo, per fuggire dal quotidiano, dal qualunque, dal meschino.
6. Mi pare un ottimo punto di partenza per cominciare a mettere ordine tra i “temi” della letteratura dominante. E mi pare anche che sia giunta l’ora di chiarire ciò che penso da tempo e cioè che la cultura italiana, un po’ ovunque, sia pervasa da un “perbenismo” nel quale non si riesce mai a scavare in profondità dentro i personaggi, i quali restano comunemente, quietamente borghesi, rassegnati, assuefatti alle mode e alle tendenze, rassegnati, risolti nel non stupirsi, nel non ribellarsi, nel non scegliere, ma essere scelti dalle loro stesse vite.
Sì. Direi che siamo pervasi da una letteratura allo stesso tempo “perbenista” e “permalista”. Come se la letteratura debba edificare, tranquillizzare e rassicurare. Contemporaneamente, però (e questo non ho fatto in tempo a chiarirlo in Contro l’impegno, perché mi sembra una tendenza letteraria che si sta imponendo da poco tempo a questa parte), deve demonizzare, inquietare, spaventare.
Che la letteratura si “limiti”, per così dire, a capire, mi pare sia la cosa che va meno di moda, in questo momento.
7. Scegliere cosa scrivere e cosa essere, certo. La determinazione della letteratura è un mestiere da speleologi, lo dice bene nel suo Contro l’impegno. Questa letteratura del nostro tempo, invece, che mestiere fa, o è costretta a fare, condizionata da tanti fattori che non la riguardano direttamente e che, invece, la indirizzano verso strade diverse?
Mi pare che la letteratura contemporanea non sia più in grado di creare, dare voce, dare spazio a un autore capace di “sorprendersi”. Il mestiere della letteratura, voglio dire, dovrebbe essere fatto da persone che iniziano con una certa idea e, nel corso d’opera, siano in grado di sorprendere la loro stessa idea di partenza, perché un personaggio prende il sopravvento e scalpita; perché un episodio della sua vita va costruito meglio; perché un elemento narrativo apparentemente marginale diventa invece dominante…
Ecco, questo credo sia il presupposto per fare letteratura: sorprendersi nel momento in cui si scrive. Al contrario, vedo libri pieni di ringraziamenti e, di solito, questi ringraziamenti vanno agli editor i quali sono stati in grado di indirizzare la scrittura dell’autore nel momento della costruzione del romanzo. Questo, a mio avviso, non dovrebbe avvenire. Bisognerebbe farsi sorprendere dalla scrittura stessa, bisognerebbe cambiare idea perché lo si vuole, non perché qualcun altro indirizza la destinazione di un romanzo.
E questo discorso è strettamente legato alla libertà di espressione, perché se un autore vuole fortemente parlare di un argomento, anche se scomodo, anche se l’editor è contrario, dovrebbe comunque scegliere di perseguire la strada che lo ha stupito, anche a rischio di non essere pubblicato, o a rischio di dover cambiare casa editrice.
Quando si ha un libro in mente che nessun editore ha il coraggio di pubblicare, è proprio in quel momento che bisognerebbe trovare maggiori forze per scriverlo e per farlo pubblicare, da chiunque. Va da sé che quanto sto dicendo è più semplice per un autore che abbia un passato, una storia letteraria forte, per così dire che abbia, cioè, o un grande potere contrattuale perché è una firma, oppure che non abbia più nulla da perdere, per l’età che ha e, quindi, può ormai dire ciò che vuole. Se, al contrario, l’autore ha una giovane età, o è nel mezzo del suo percorso autoriale, è evidente che le indicazioni dell’editore diventano predominanti e vince l’autocensura sulla volontà creativa. Il punto è capire se un autore preferisca la “visibilità”, che può garantirsi assecondando il mercato, oppure se preferisca fare il proprio mestiere, quello di capire, assumendosi i rischi di questa ricerca. Bisognerebbe sporgersi un po’ in avanti.
Per una rivista che curo assieme ad altri, L’età del ferro si chiama, ho scritto un saggio su Roberto Saviano. L’inizio del mio saggio diceva: “Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti”. Quando l’editore lesse questo incipit mi chiese se fossi sicuro di voler esordire con questa frase. Ovviamente ero ben sicuro e il saggio è stato pubblicato così come l’avevo scritto. L’editore stesso, però, mi disse che molte erano state le contestazioni e le varie forme di indignazione da parte dei lettori. Insomma, credo che bisognerebbe sfidare le cose. Quando scrissi un libro su un pedofilo, gli editori Rizzoli non erano per nulla tranquilli, ma sono felice che quel libro sia stato pubblicato, anche perché se non lo avessi scritto in quel momento, forse non lo avrei scritto mai più.
Credo occorra fare dei passi nel proibito per non restare chiusi dentro sé stessi.
Il rischio vero dello scavare nel proibito è l’indifferenza da parte di chi legge. Mi spiego. Da qualche tempo, nella cultura in generale (non mi riferisco, cioè, soltanto alla letteratura), un libro difficile, imbarazzante, torbido, non viene più contestato, discusso, dibattuto da critica e pubblico. No, i prodotti culturali “difficili”, per usare una formula semplice, vengono immediatamente dimenticati, taciuti, ignorati. Non si entra più nel merito, dando un giudizio di valore sul prodotto in questione, se è troppo faticoso, scomodo, disagevole, lo si ignora e basta. D’altra parte, basta non parlare di un libro per qualche settimana che subito ne escono altre decine e, quindi, dimenticare ciò che è faticoso diventa facilissimo. Anche questa è una forma di censura indiretta, molto subdola, molto efficace.
Le racconto un fatto accaduto molti anni fa che mi pare emblematico di quanto stiamo dicendo e che non riguarda l’Italia.
Ismail Kadare è uno dei più grandi scrittori, sceneggiatori, saggisti albanesi. Lo ascoltai mentre parlava a una conferenza a Parigi. I libri di Kadare sono stati perseguitati pesantemente dal regime comunista albanese e circolavano in modo clandestino, in ciclostile. Non appena gli fu possibile, il grande poeta emigrò a Parigi, dove tutt’ora vive. Durante la conferenza alla quale partecipai disse testualmente: “Quando ero in Albania, i miei libri erano letti da 100, 150 amici che se li passavano di mano in mano. Ma li leggevano con gioia, alcuni miei libri hanno cambiato le loro vite. Da quando sono andato via dall’Albania, posso scrivere quello che voglio, pubblico liberamente, ma nessuno fa caso a ciò che scrivo. Mi sento più censurato dall’indifferenza di Parigi che dal regime albanese”. Certo, quella di Kadare è una provocazione, ma spiega bene come si possa sentire un autore validissimo; eppure, volutamente ignorato dal libero pensiero. L’indifferenza, torno a dire, è non soltanto mortificante per chi scrive, ma è comodissima per chi dovrebbe parlare di ciò che si scrive: l’indifferenza è un ripiego molto comodo per i critici, perché li esenta anche dal rischio di sbagliare, di mettere in gioco la loro stessa reputazione prendendo posizione su qualcosa di scomodo.
8. Ricordo bene una sua affermazione: lo scrittore non scrive mai quello vuole. Tutt’al più scrive quello che può, rispetto a se stesso e alle proprie possibilità, ma anche considerando le possibilità che il lettore ha di leggere e sopportare quello che gli viene proposto. Ci vuole spiegare meglio cosa intende dire, in riferimento a questo comune ragionare su quanto siamo o non siamo liberi di esprimerci attraverso gli strumenti della letteratura (pensiero e scrittura)?
In realtà, questo concetto non è mio. La formula originale è: “il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può” e l’ha pronunciata Carmelo Bene. Penso volesse dire che il genio, in quanto tale e quindi con qualcosa di molto diverso dal talento, è determinato nelle sue pulsioni interiori. Mi spiego: prendiamo quello che diceva Dante (il quale era senza ombra di dubbio un genio) e cioè che non faceva altro se non trascrivere quello che un dettatore interiore gli dettava e lui, come un bravo scrivano, trascriveva ciò che il dettatore diceva.
Il concetto di fondo è che se sei un genio e ciò che fai è una trascrizione di ciò che una voce dentro di te detta, allora non sei mai libero.
È come il Corano: se è dettato a Maometto, chi scrive non è libero, ma sottoposto a una voce superiore. Credo che questi esempi siano utili per capire la differenza tra potere e volere realizzare un’opera. Se, ancora, pensiamo ai grandi geni della letteratura, quelli cioè che hanno fatto la storia della letteratura, da Dante a Dostoevskij, tutti coloro che riconosciamo come geni, hanno scritto per tutta la vita un unico, grande libro. Ciascuno di questi geni letterari ha dentro di sé un mondo unico che racconta, un mondo limitato che scava fino allo sfinimento, un tema dominante, che potremmo anche definire “un’ossessione” (la colpa in Dostoevskij, Dio in Dante, e così via). Se, dunque, questa ricerca spasmodica di trovare la radice di un tema dominante e sviscerarlo è dettato da una “ossessione” interiore, non sei davvero libero, perché sarà sempre quella ossessione a determinare il frutto di ciò che scrivi. Ci sono persone, anche brave, che riescono bene a scrivere libri diversi tra loro, perché non hanno una vera ossessione letteraria, hanno semplicemente la capacità di raccontare bene, anche molto bene, storie tra loro molto diverse.
Pensiamo, ad esempio a Georges Simenon. Si sa che la produzione letteraria di Simenon, addirittura escludendo gli infiniti libri su Maigret, è enorme, raffinatissima, molto profonda. Ma Simenon non ha un’ossessione dentro di sé. Ama e sa scrivere, sa raccontare e lo fa splendidamente. Altri scrittori, invece, anche inferiori a Simenon, hanno un’ossessione che li costringe a scrivere sempre lo stesso libro: Stephen King, per esempio, è tremendamente ossessionato.
L’ossessione, voglio dire, non è mai libertà, ma questo lo dice, meglio di me, la psicanalisi.
9. “C’è una cultura, in Italia, che fatica ad andare avanti. Ed è, invece, una cultura che va difesa, sostenuta, incentivata” (Fofi G., L’oppio del popolo, Eléuthera, Milano 2019). Siamo ancora in tempo, secondo lei, nel tentare di difendere la letteratura affinché sia ricerca di senso, piuttosto che ricerca di approvazione?
È vero, oltre il mainstream esiste un’ampia cultura, e diverse subculture, che vanno difese sempre. E, in fondo, è quello che Fofi fa da tutta la vita, con le sue case editrici e le sue riviste, fino agli Asini.
Ricordo iniziative molto interessanti organizzate da Goffredo Fofi. Il suo mestiere di difesa di questa cultura libera è un mestiere faticosissimo. Valorizzare tutto ciò che esiste e vive oltre il mainstream è un lavoro di sacrifici, di rinunce morali e materiali. È un lavoro molto utile. Fondamentale.
Anche L’età del ferro, la rivista che porto avanti con altri autori, è letta da un numero esiguo di persone, rispetto al mainstream, ma è tanto faticosa quanto di grande soddisfazione. Paghiamo tutto noi, dalla stampa alla distribuzione, dalle presentazioni ai viaggi per promuovere la rivista stessa.
Sono scelte che mirano a non far morire le culture differenti.
Cercare dei luoghi appartati, nei quali poter dire, poter difendere, poter far sopravvivere quello che nel mercato dominante non entra è molto importante, anche perché poter dire ciò che si desidera in contesti ristretti è molto più comodo che dirlo in luoghi consolidati e affermati.
C’è, però, una cosa che tengo a dire, nel concludere questa conversazione.
Esiste una fortissima componente di autocensura, nella cultura.
Si vorrebbero dire alcune cose, ma si sceglie di tacerle, perché denunciare, scavare, scomodare è faticoso e crea moltissimi nemici. Esiste, nel nostro essere liberi pensatori non liberi, una forma di pigrizia, ma anche e soprattutto la voglia di non litigare. Io, a settantacinque anni, davvero sono stanco di fare polemiche. Il mio unico desiderio, lo dico qui perché è pertinente al tema che lei sta trattando ma lo penso da molto tempo, è un libro postumo: un libro nel quale potrò scrivere tutto quello che non ho mai detto, ma che chiederò che esca dopo la mia morte. Soltanto così potrò liberarmi davvero, senza dover litigare con nessuno.
Alberto Arbasino diceva qualcosa del genere: pare scrivesse degli annali che avrebbe voluto pubblicare dopo la sua morte. La sua bravura era quella di trascrivere tutte queste cose impossibili da dire. Io, per esempio, non lo faccio. Ma comunque, questi annali postumi di Arbasino non sono mai usciti. Io, invece, vorrei davvero fare questa cosa.
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