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diretto da Romano Luperini

Libri in valigia: i consigli della redazione per l’estate 2024

Luisa Mirone – Letture a specchio

Appena esce il libro di una scrittrice o di uno scrittore che mi interessa, mi piace averlo e, di solito, provo a leggerlo subito. Così è successo per Chi dice e chi tace (Sellerio) di Chiara Valerio, per Aria di famiglia (Mondadori) di Alessandro Piperno, per Locus desperatus di Michele Mari (Einaudi), per Lucy davanti al mare di Elizabeth Strout (Einaudi), per Magnifico e tremendo stava l’amore (Einaudi) di Maria Grazia Calandrone, di cui mi piacerebbe scrivere, magari nel tempo più disteso dell’estate. Ma altri tre libri ci sono, usciti da poco, che mi hanno procurato un’esperienza ulteriore, accanto a quella attesa e sempre intensa della lettura in sé: hanno – cioè – sollecitato una lettura “a specchio” di altri tre, già letti, già meditati, già (pensavo) metabolizzati. A specchio li propongo anch’io.

A specchio/1. La vita delle parole. Finalista al Premio Strega, Autobiogrammatica (minimum fax) di Tommaso Giartosio è «il racconto di un’esistenza – unica e comune – come la storia di un linguaggio», accompagnato da una rete flessibile di immagini (fotografie, disegni autografi). Raffinato, sottile, capillare, si misura con una operazione che è – insieme – recupero e superamento del lessico famigliare che, da «atlante morale», si fa «per lo ‘Ntoni che mi porto dentro» «un esoscheletro di parole che sento il bisogno di grattare via come le incrostazioni sotto uno scafo» (p.150). Il risultato dunque, al netto delle incrostazioni, è proprio una grammatica: non un repertorio di parole, di stilemi, di espressioni tanto ricorrenti da assurgere alla significazione universale del proverbio, pur se generato nell’ambito circoscritto di una famiglia o di una vita; ma una grammatica, cioè la ricognizione ragionata delle costanti di una lingua, degli eventi e delle questioni esistenziali che ne hanno determinato le strutture e che ne implicano e ne spiegano il funzionamento. E la ricognizione si fa racconto: «Lingua e linguaggio, una coppietta battagliera! Mi servivano entrambi, ma preferivo il secondo. (…) ho capito che il linguaggio era un taglio di carne o un metro di stoffa, una cosa materiale. E che la lingua, a raccontarla, diventava linguaggio: così come una persona a raccontarla diventa per forza un personaggio» (p.43). Ed è personaggio straordinario, che continuamente contende all’intestatario formale della narrazione («il povero autobiografo», p.57) il ruolo di protagonista e, al contempo, lo definisce, lo qualifica, lo giudica, lo osserva, divertito o implacabile, attraversare le stagioni e i luoghi del suo tempo, tracciando la parabola che, con qualche stupore, lo emancipa (forse senza sottrarlo del tutto) dall’«imperialismo del lessico famigliare» (p.189) per attingere a una dimensione linguistica non più autentica, ma più vicina al dinamismo stesso della vita.

Non rimpiango la perdita del passato; non amo salire i vecchi ascensori cingolanti, e la nostalgia mi dà un senso di claustrofobia. Laggiù c’è un sacco di roba di cui mi sono disfatto volentieri. Ma provo stupore: questo sì. E con questa dipartita devo farci i conti, magari inventandomi un mio vocabolario delle catastrofi (…). Non esiste la purezza, l’autenticità non esiste. Ma il corpo del linguaggio è importante come conduttore di energia metamorfica del pensiero e dell’emozione – ammesso che si possa distinguere l’uno dall’altra. (p.147)

Importante dunque la rilettura di Lessico famigliaredi Natalia Ginzburg (Einaudi, 1963¹): lo stesso Giartosio ci offre una chiave per riaprirlo (ammesso che qualcuno l’abbia mai richiuso: per chi scrive, resta una porta sempre spalancata):

Sono nato nell’anno di Lessico famigliare. Quando l’ho letto io, vent’anni dopo, il memoir di Natalia Ginzburg veniva ancora ricordato e citato con amore da quasi tutti gli adulti che conoscevo. Non aveva soltanto vinto il premio Strega e venduto centinaia di migliaia di copie: aveva messo in circolazione una categoria linguistica fino allora nota solo agli specialisti.

Anche chi (come tanti, come me da ragazzo) l’aveva letto per il puro piacere di leggerlo, senza coglierne la maestria letteraria, ne aveva trattenuto almeno l’idea portante (…) secondo cui ogni famiglia aveva un suo linguaggio. Intuizione elementare e penetrante come una spilla da balia, che subito aveva innescato un processo di emulazione (…). Una cosa l’ho capita, e abbastanza presto: il nostro non era davvero un repertorio come quello di cui aveva scritto Ginzburg. Era forse, come dice lei, il fondamento della nostra unità familiare; ma non si poteva aggiungere che una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Una parte dei nostri termini era esclusivamente nostra, sì. Ma altri erano semplicemente dei modi di dire un po’ frusti, dei cliché. (…) Avere un lessico privato significa avere l’apparenza della libertà. (…) Ma una volta cresciuto, perché continuare? (pp. 123-129)

A specchio/2. Racconti. I Legami (Feltrinelli)di Eshkol Nevo sono racconti brevi; ma sono difficili da allontanare dalla mente una volta che si è terminato di leggerli. Riaffiorano nei momenti più impensabili del giorno, proprio come una pulsione, un desiderio tenuto a bada per qualche ragione o un piccolo trauma rimosso. Al centro, come sempre nella narrativa di Nevo, le relazioni – coniugali, familiari, amicali. Apparentemente codificate secondo un registro scoperto e leggibile, «uno delle decine di codici» che consentono (nella vita di coppia come in ogni rapporto) «di restare insieme, nonostante le differenze abissali» (p.79), esse si rivelano in realtà segretamente attraversate da spinte misteriose, capaci di disorientare chi le vive e chi le legge, fino a cambiarne il destino. A volte a raccontare è un narratore esterno, onnisciente; e allora il meccanismo narrativo è annunciato con semplicità disarmante: «Durante l’amplesso, si ritrova a osservarsi dall’esterno. È strano: il suo corpo continua a cambiare posizioni, la gola emette i suoi gemiti, ma lui è altrove. Osserva tutto con un ghigno cattivo» (p.80). A volte, invece, il narratore è in prima persona e allora è un io ipersensibile come un radar ai gesti, alle immagini, ai suoni, agli odori, per lo più inabile a disciplinarli: «Da ogni angolo proviene un odore pungente che sovrasta il precedente. Negozi di tessuti. Lavanderie. Marijuana. Immondizia. Bagel. Gas di scarico. Anacardi. Pizza. Successo. Fallimento.» (p.167) E spesso al racconto s’intreccia una colonna sonora, che non è accompagnamento, ma struttura, parte strutturante della trama; e alla musica, alle canzoni di Bruce Springsteen, di Lenny Kravitz, di Enya o dei Fugees è affidato il compito di dire quel che uomini e donne non si dicono, pur pensandolo, pur vivendolo, soffocandolo ostinatamente dentro di sé. Sarà stata la centralità delle relazioni, sarà stato lo stesso formato narrativo, ma a me sono tornati in mente i Racconti di Daniele Del Giudice (raccolti in volume da Einaudi nel 2016, ma datati a partire dal 1985; e uno in particolare, L’orecchio assoluto, dove la musica ha un ruolo da protagonista), attraversati dalle stesse pulsioni segrete, ma con esiti sorprendentemente diversi. Perché «C’è un’utopia malinconica nei racconti di Daniele Del Giudice. Si trova in una scena ricorrente: qualcuno comunica a qualcun altro la sua passione conoscitiva; e, nel farlo, trova nell’altro una rispondenza, una condivisione» (Tiziano Scarpa, La profezia delle parole, p.V). Quei rapporti, che in Nevo si acquietano o soccombono o si infrangono sotto la legge uniformante dei codici, in Del Giudice trovano una chance nell’attenzione comune, convergente verso un oggetto, una persona, una situazione che sia trait-d’union.

A specchio/3. De senectute. Usciti a breve distanza l’uno dall’altro, Baumgartner (Einaudi) di Paul Auster e Il vecchio al mare(Einaudi) di Domenico Starnone hanno per protagonisti due anziani intellettuali (Baumgartner è professore di filosofia, il-vecchio-al-mare è scrittore, benché si finga magistrato in pensione), che – si direbbe proprio in quanto intellettuali – affrontano la vecchiaia senza tentare di darle un altro nome, e tuttavia offrendole, dove possono, pungoli o lenitivi e il travestimento estremo di nuovi vagheggiamenti erotici. Avevo già letto il primo quando mi è stato regalato il secondo e non ho potuto fare a meno di associarli, benché siano così diversi, per temperamento ed estrazione, i loro autori. La scomparsa di Auster, a ridosso della pubblicazione del romanzo, lo ha segnato con un alone di premonizione che probabilmente non ha; mentre forte è la carica di ironia, non solo quella che strappa il famigerato sorriso amaro, ma quella che scopre, che svela e rivela le assurdità dell’esistere di cui la vecchiaia sembra metafora: consapevolezza e lucidità sulle cose della vita proprio quando di vita ne resta tanto poca da renderle inservibili; o diversamente servibili. Narrazione dolente e lieve, sospesa in un equilibrio quasi miracoloso tra disperazione e luminosa saggezza. Di segno diverso la carica del romanzo di Starnone, apparentemente nostalgica, in realtà percorsa da linee di tensione diverse, contraddittorie, che deformano la nostalgia a volte rendendola morbida, carezzevole, dolcissima come la malinconia di Vittorio Alfieri, altre rendendola appuntita fino ad essere crudele.

Linda Cavadini – Libri tutti per me (e quindi vorrei fossero di tutti)

Finita la scuola, a quella settimana più o meno di stacco che c’è tra scrutini ed esami arrivo di solito piuttosto in affanno e ho bisogno di evadere, fermarmi e, in un certo senso, respirare. Tutte cose che per me sono sinonimo di lettura: mi piazzo quindi sul divano e mi regalo il lusso della lettrice compulsiva, sprofondando dentro pagine così, per il puro gusto di farlo, senza motivi di studio, di scuola o altro. Leggo solo per me e quindi scelgo i libri a caso o mi faccio scegliere da loro, andando a pescare dalla mia libreria, dalla pila dei “leggerò” che stanno sul comodino, da librerie che conosco o che scovo in viaggio: insomma, scelgo partendo dalla copertina e da una pagina letta a caso, come quando ero bambina. Ora, io non lo so se si tratta di fortuna, di abilità a scegliere o della vita propria che hanno i libri (propendo per la terza ipotesi), ma spesso in questa “settimana (più o meno) di libri tutti per me” è come se i volumi si parlassero tra loro e si mettessero d’accordo per fornire fili comuni, storie che mi rimettono in sesto e, inevitabilmente, desiderio di leggere ancora, ancora e ancora. Anche in questo giugno, che pare novembre alle mie latitudini, è successo lo stesso e questi sono i miei libri a caso, che meritano di essere ribattezzati “libri da leggere”

Un saggio (per così dire). Valentina Furlanetto, Cento Giorni che non torni. Storie di pazzia, di ribellione, di libertà. Laterza editore. Questo libro è un saggio sulla malattia mentale:

Pare che ogni epoca abbia – per così dire – “la sua malattia mentale”. Ed è difficile, prendendo in considerazione i disturbi che hanno contrassegnato ogni momento storico, non vedere un collegamento tra i traumi degli individui e le carenze, le caratteristiche, le richieste della società in quella determinata fase. Certi disturbi di cui soffrivano le donne a inizio Novecento, ad esempio è facile collegarli alle limitazioni, oppressioni e mortificazioni della condizione femminile in quegli anni. certe demenze di fine Ottocento trovano spesso la causa nelle campagne povere nella malattia della povertà: la pellagra.

In questo libro c’è la storia di Rosa, investita negli anni ‘40 nelle campagne venete:

Per mesi Rosa rimase incosciente in ospedale. Le sorelle, i genitori e il fratello erano rassegnati al peggio, invece dopo qualche mese Rosa si risvegliò. Si risvegliò ma dal quel momento iniziarono i problemi. La commozione cerebrale da trauma le lasciò in eredità frequenti mal di testa, convulsioni e crisi epilettiche durante le quali perdeva conoscenza, il suo corpo si muoveva a scatti, senza alcun controllo; quando usciva dalle criti, Rosa avvertiva un senso di confusione ed estraneità […] Per queste crisi, per questi disturbi venne più volte ricoverata in ospedale. Da qui ha inizio la sua storia di malata psichiatrica

Ma questo libro è anche il racconto di Franco Basaglia e della legge 180, e la denuncia di quello che è successo dopo, dei servizi pubblici dimensionati, dei TSO violenti, delle cure farmacologiche legate a interessi delle case farmaceutiche.

Ci sono libri che finisci e metti via, altri che chiudi, ti restano attaccati addosso e ti aprono porte, anzi portoni. Questo libro è così, non solo per come, coraggioso, volteggia tra biografia, ricerca, indagine, denuncia, ma anche per lo stile che è leggero, di quella leggerezza di Calvino, però: la sola possibile quando vuoi raccontare il dolore e aprire alla possibilità e alla speranza. Non soverchia con le parole una materia che ha bisogno di rispetto, distanza e cura, Valentina Furlanetto non urla, non si indigna, non fa sentire il lettore inadeguato ma lo accompagna. L’ autrice fa un passo indietro, sta sullo sfondo e così non ci dà scampo e ci costringe a sapere, conoscere, interrogarci, a leggere e scoprire insieme a lei. Ci costringe a chiudere il libro e a guardarci intorno e a studiare, vedere, chiedere.

Un romanzo classico (o quasi). Romain Gary, L’aquilone, Neri Pozza. Però mi domando se vale la pena di rifare il passato. Insomma, sì, comunque per ricordare. Ma servono cose nuove. Per il momento faremo de Gaulle, c’è n’è per un po’. Poi bisognerà trovare qualcos’altro, vedere più lontano, guardare al futuro…

Ludo è orfano e vive con uno zio postino un po’ strambo perché pacifista e costruttore di aquiloni: è nell’Europa degli anni Trenta, lascio a voi indovinare per cosa venisse considerato più folle. Un giorno, dopo essersi rimpinzato di fragole, Ludo si sdraia in un prato e qui davanti ai suoi occhi appare Lila, bionda, bella e altera: è solo un bambino ma ha la chiara consapevolezza che la sua vita è cambiata per sempre. Per più di un anno torna lì tutti i giorni per portarle le fragole promesse, l’amore nasce come ossessione e desiderio che occupa ogni momento, anche quando lei ritorna.

Questo libro celebra l’attesa, il ritorno, la partenza e le scelte; è un romanzo di guerra e resistenza, ma soprattutto di ottimismo e attaccamento alla vita, raccontata in ogni sua forma, ironia e disincanto compresi.

Ho amato tantissimo gli altri libri di Gary,”la vita davanti a sè”, “La primavera europea”, “Prima dell’alba”, questo non lo conoscevo e mi ero persa forse il libro più bello, perchè Gary, quando fa ridere, ti costringe a guardarti allo specchio e rende la tragedia umana.

Un romanzo fresco di stampa. Nicoletta Verna, Giorni di vetro, Einaudi. Avevamo gusti diversi, idee a rovescio, eppure mi sembrava l’unico che sapeva capirmi. Perché avevamo una cosa uguale: ci sentivamo estranei al mondo sebbene per motivi contrari. Io perché avevo paura di tutto, lui invece perché aveva troppo coraggio, e questo lo allontanava dalla gente. Vedeva solo quello che era giusto e quello che era sbagliato, e invece gli altri vedevano quello che gli conveniva, e dopo, forse, parlavano di giustizia. Così, con questa incoscienza, con questa matteria, Bruno non voleva confondersi con nessuno

Redenta nasce nei giorni del delitto Matteotti, non che al suo paese la cosa faccia differenza, troppo impegnati a sopravvivere: la sua nascita è segnata dalla tragedia già da prima e lei stessa, mormorano i suoi compaesani, ha la scalogna e non vivrà fino a San Rocco. Invece Redenta resiste e si oppone per tutta la vita, proprio così, resistendo e attaccandosi a Bruno, uno degli orfani che sua nonna cura e che ha deciso di tenere con lei perché è diverso da tutti gli altri. Insieme attraversano un mondo in cui la violenza non risparmia nessuno ed è normale, vivono la tragedia della guerra e della resistenza ciascuno da un’angolazione diversa e provano a cambiare le cose.

Per due giorni non ho fatto altro che leggere questo libro e di esserne a tratti disturbata e a tratti avvinta, ma sempre in bilico tra il pensare “no è troppo, non poteva essere così” e “non dobbiamo dimenticarlo mai”

Stefano Rossetti: Libri per una scuola democratica

Ho incontrato questi libri negli ultimi due anni, quando le mie traiettorie di lettura si sono allontanate dall’immaginario narrativo, per avvicinarsi all’argomentazione saggistica. Ne condivido molte idee, ma non è questo il motivo per cui li considero importanti. Lo sono, secondo me, perché vanno controcorrente, e regalano al discorso sulla scuola prospettive inaspettate.

Di Ecce infans, il saggio filosofico di Marcello Maurizi (uscito nel 2023 per Novalogos), abbiamo recentemente pubblicato l’introduzione. Ѐ una lettura impegnativa e provocatoria, fatta apposta per mettere in crisi convinzioni e atteggiamenti radicati. Studia nella prima parte alcune rappresentazioni del “bambino” (più in generale, di chi apprende), nella seconda la figura del docente e la sua posizione all’interno dell’istituzione. Il programma dell’autore – definito nel sottotitolo “diseducare alla pedagogia del dominio” – è ambizioso e più volte ripreso. Ѐ la chiara formulazione teorica del tentativo di sottrarre la scuola al destino che il morbido autoritarismo capitalista vuole per lei: il progressivo scadimento della cultura in direzione tecnico-utilitaristica, la prevalenza di una sorta di “sapere emozionale” (contrapposto alla tradizionale razionalità, fredda e apatica); la trasformazione delle scuole in luoghi di divertimento, in nome di una non meglio definita esigenza di “democrazia”. In questo discorso critico, l’attenzione di Maurizi non è tanto indirizzata ai cultori di una presunta scuola ideale del passato (conservatori di varia natura e estrazione), quanto piuttosto ai loro corrispondenti nel campo progressista, che definisce “ultrapedagogisti”. Questi ultimi esaltano il proprio ruolo di motori del cambiamento: sono convinti, infatti, che l’assetto storico-culturale e valoriale della scuola non sia conseguenza di un certo ordine sociale e economico, bensì al contrario ne costituisca la base e la matrice. In nome di questa convinzione, dunque, finiscono per convergere con i conservatori nella denuncia dei difetti del sistema; prima di tutto di chi insegna, inadeguato a farsi portatore dell’utopia democratica e del sacrifico di sé in nome del futuro ugualitario. Ma una simile postura, denuncia Maurizi, produce il paradosso di “una lotta al classismo senza lotta di classe”. Nell’indicare i professori (“un po’ Eichmann, un po’ signorina Silvani”, nella spassosa sintesi dell’autore) come primi responsabili del fallimento dell’istruzione pubblica, il pedagogismo contemporaneo si rende complice del disegno di asservimento delle persone e del lavoro che anima la scuola tecnocratica del capitalismo.

In L’epoca della vulnerabilità(pubblicato da Piano B pochi mesi fa) il ricercatore indipendente Gioele Cima studia “l’invasione della psicologia nella vita quotidiana”, partita dagli USA, dove “gli psicologi sono ormai il doppio di dentisti e farmacisti”. Ne ricostruisce la storia, attraverso il progressivo allargamento dei disturbi e delle diagnosi descritte nel “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, che da testo per addetti ai lavori è diventato nel corso dei decenni riferimento immaginario, culturale e politico di primaria importanza. Fra i numerosi aspetti di interesse dell’analisi condotta da Cima, tre rivestono una particolare importanza rispetto all’universo della scuola e dell’educazione. Il primo è la colonizzazione del linguaggio e dell’immaginario popolare, che tramite l’incontrollata diffusione di parole come “ferita”, “ansia”, “disturbo” giunge a creare quella che l’autore definisce “industria del trauma”, sulla base di interessi che nulla hanno di psicologico e tutto invece di economico. Il secondo è l’effetto sociale di questa “inflazione psicologica”: essa fortifica la narrazione individualista della nostra epoca, ponendosi come la merce della singolarità per eccellenza: le questioni psicologiche sono personali (..) e pertanto inadatte alla mobilitazione sociale”. Il terzo ne è una diretta conseguenza, particolarmente evidente nel modo in cui i media trattano la figura dello studente e le rivendicazioni di chi insegna: se il benessere è un problema individuale e la sua analisi va cercata nell’intimo dell’individuo (di ogni individuo, dal momento che la normalità non esiste più), ogni istanza condivisa, collettiva e politica è subordinata e addirittura contraria alla corretta soluzione della questione. Il discorso di Cima e quello di Maurizi trovano su questo punto una saldatura solida, che illumina e inquieta.

Disobbedire, di Frédéric Gros (uscito nell’edizione originale nel 2017 e tradotto da Einaudi nel ’19), è un saggio filosofico e politico, complesso e di lettura talvolta difficile. L’autore ragiona sulle differenti forme di obbedienza che osserviamo intorno a noi e nel mondo, per studiare e immaginare corrispondenti forme di disobbedienza personale e collettiva. Sul piano storico, il saggio costituisce una rassegna critica che va dalla schiavitù al conformismo sociale, e esplora i territori della sottomissione economica, del senso etico personale e del rispetto delle leggi, del consenso democratico. Le radici della disobbedienza si delineano in forme e misure differenti, in questo percorso, e risiedono nel “pensiero pensante” e nel “lavoro critico”, che generano capacità di scelta e responsabilità. In questo caso il nesso con il mondo dell’istruzione è indiretto, e forse a qualcuno potrà sembrare forzato. Tuttavia, la riflessione di Gros pone in una nuova luce domande urgenti su due aspetti della scuola dibattuti e importanti: le dinamiche di autorità e obbedienza che costruiamo in classe con chi studia, da una parte; il servilismo e l’omaggio al potere (leggete pure “dirigenza”) che costituiscono parte non irrilevante dei rapporti fra chi insegna nella scuola (a partire dai collegi docenti). Penso davvero che questa lettura possa accrescere il valore della democrazia in cui crediamo e che contribuiamo a formare dentro e intorno a noi.

L’ultimo libro è una rilettura, la cui attualità si mostra più evidente ogni giorno che il dio della scuola digitale manda sulla Terra: in Emergenza smartphone, uscito nel 2018, Manfred Spitzer, fra i più importanti neuroscienziati mondiali, analizza disfunzionalità, distruttività, perdita di fiducia e verità che accompagnano la crescita esponenziale del peso delle diverse tecnologie digitali nella vita delle persone comuni. Il saggio è dedicato “a chi ha figli o è responsabile dell’educazione di giovani e bambini” e vi si legge un capitolo appassionante su quella che l’autore definisce “Istruzione 0.0”. La semplice lettura di queste ventidue pagine (dalla 91 alla 112) vale da sola il prezzo del libro. Al loro interno si ritrovano le caratteristiche che contraddistinguono l’argomentazione scientifica (quella vera, non il misticismo tecnocratico tipico dei tecnofili nostrani): una strenua difesa del metodo e della sperimentazione, curiosamente sovvertiti quando si tratta di affermare ‘pregiudizialmente il valore delle tecnologie per l’apprendimento; una poderosa bibliografia scientifica, pressoché assente nei testi normativi e negli studi che accompagnano le recenti “riforme” in quest’ambito; una puntuale confutazione di alcuni argomenti di senso comune utilizzati di solito nelle discussioni sul tema.

In tutti questi libri circola aria pura di opposizione e critica. Per me, c’è un filo rosso che li lega: l’invito a considerare un nuovo assetto sociale e culturale, in cui l’istruzione pubblica acquisti effettivamente la centralità, l’indipendenza e la libertà che a parole i governi riconoscono, salvo poi negarla con le scelte politiche e le leggi di bilancio. Giusto, allora, che questi consigli si concludano con le parole di Spitzer, quando confuta l’argomento principe che sostiene l’introduzione del digitale nelle scuole: “Gli smartphone fanno parte della vita dei bambini e dei ragazzi, i quali devono pertanto imparare a utilizzarli il prima possibile”:

(…) va detto che molti elementi fanno parte della vita di milioni di bambini tedeschi, ma che non per questo sono automaticamente positivi. Fare colazione davanti alla TV; respirare aria inquinata sulla strada che porta a scuola; frequentare scuole fatiscenti (evidentemente per le lavagne multimediali i soldi ci sono, mentre mancano per riparare i bagni e ristrutturare le aule); mangiare cibo malsano nelle mense scolastiche; vedere in TV violenza e pubblicità di alcolici a ogni momento; abituarsi alla presenza di droghe nei cortili delle scuole (..). Se questo è ciò che i nostri figli fanno tutti i giorni, anziché prepararli a questo genere di vita, dovremmo offrirne loro una migliore!

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