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diretto da Romano Luperini

Carlo Levi – tra le altre, moltissime, cose – è stato maestro di strategie di resistenza improvvisate e poi messe a punto nei frangenti difficili che, nel corso della sua ardimentosa esistenza, lo hanno travolto, ma mai vinto. La sua è stata una scrittura dolcemente battagliera: questo marchio a fuoco affiora in modo prepotente dalle pagine nate durante la molteplice esperienza di assedio (in ordine cronologico, CellaConfinoCecità*). Dalle poesie e dalle prose di quei tempi – i tempi della prigione, dell’isolamento, della malattia – si possono recuperare numerosissime testimonianze relative alla sua capacità di praticare quotidianamente la scrittura come forma di disciplina, come l’esercizio ascetico di un combattente (“il guerriero birmano”, così si autodefinisce Carlo Levi nel Quaderno a Cancelli) che, messo letteralmente alle strette, tenta di svincolarsi, di non perdere la bussola.

Da quelle pagine possiamo anche noi, oggi, recuperare alcune lezioni, alcune formule di scongiuro da utilizzare quando ci imbatteremo, per l’ennesima volta, negli idoli del nostro tempo: L’Accessibilità e La Trasparenza (sarebbe opportuno considerare anche La Sicurezza, idolo che merita forse una considerazione a parte). All’altare di questi idoli – come ai piedi di qualsiasi altare – sembriamo essere disposti a sacrificare tutto[1].

Un breve chiarimento, prima di proseguire: l’idolo – qualsiasi idolo – diventa tale quando viene astrattamente separato dal suo valore opposto e complementare (in questo caso L’Inaccessibilità, L’Opacità e pure Il Rischio), quando viene innalzato su di un qualche piedistallo e messo al sicuro da ogni mossa che tenti di relativizzarne il potere. Ecco, quindi, che l’accessibilità – valore non problematico, anzi, fecondo di per sé – diventando L’Accessibilità sempre e a tutti i costi si trasforma in idolo pernicioso. La trasparenza – valore non problematico, anzi, fecondo di per sé – diventando La Trasparenza sempre e a tutti i costi si trasforma anch’essa in un idolo altrettanto pernicioso. Va da sé che anche con La Sicurezza sempre e a tutti i costi – ma qui non la consideriamo, per andare sul sicuro pure noi – accadrà lo stesso.

Cominciamo, dunque, proviamo a lanciare le nostre formule di scongiuro contro quegli idoli che influenzano potentemente la nostra società e pure la nostra scuola che ne sta diventando un inquietante riflesso.

La Cella

Carlo Levi è internato nelle Carceri nuove di Torino con l’accusa d’aver supportato le attività sovversive del movimento “Giustizia e Libertà”. Da carcerato, meditando sulla sua condizione e sulla vita in cella, scrive: “Se un erudito si prendesse il gusto di fare un libro sulle opere scritte o cominciate o parzialmente eseguite in prigione, vedrebbe che gran parte della più alta letteratura di tutti i popoli è nata in queste celle e dietro queste inferriate, dal Tasso, al Defoe, dal Campanella al Cervantes…”; pare che anche la sua di produzione in gabbia (gabbia perché, leggendo il Levi prigioniero, la sensazione che per “il mezzo leone” la cattività fosse intollerabile è forte) possa rientrare, in effetti, “nella più alta letteratura”, quella sorta dal moto reattivo degli scrittori che si sono ritrovati dietro alle sbarre:

“Come potrebber nascere dei versi

da questo inchiostro conteso,

da questa carta ad altro destinata,

dall’udito teso

a un lontano rumore di passi,

da questa luce sotto la grata

uguale a tutte l’ore

da questi giorni persi

dietro a servigi bassi

di un insipido languore?

Pur, se così sommersi

dal monotono peso

grigi scorron gli istanti ed abbrunata

sembri la primavera e ignoto passi

nel cielo il sole, non però mutata

è l’anima, né perso il calore

né per eventi avversi

può esser che s’abbassi

a prender norma da quel ch’è di fuore.

Ma trova ogni colore

la fantasia in questi bianchi muri:

variando crea di queste forme uguali

penseri più maturi

e in azzurro si volge anche senz’ali.”

(Poesie,31 marzo 1934, p. 15)

Quando tutto ci sembra accessibile – a disposizione, a portata di mano, o meglio, di click – quando il cielo non ci appare precluso, siamo portati ad illuderci che pure le nostre conoscenze lo siano e che l’intero processo conoscitivo possa coincidere con il percorso di recupero dei dati (delle informazioni) ritenuti utili e bastevoli, in un certo momento/contesto, a rispondere alle nostre domande. Dati ed informazioni che tendiamo a considerare sempre reperibili, sempre collocati da qualche parte (tendenzialmente nel web), e noi dobbiamo solo accedere ai dati attraverso i mezzi -potentissimi, efficacissimi, rapidissimi – che rendono possibile il loro recupero. Trovarci in una condizione di perenne accessibilità e trovarci a sguazzare in questa condizione da sempre, come tutti coloro che vi sono nati dentro, può produrre effetti collaterali inquietanti. Effetti che cominciamo a notare negli adulti, ma, in modo ancor più evidente, in bambini e ragazzi i quali, a forza di connessioni, sembrano aver perduto la capacità di godere nel limite del limite. Nessuna distanza, nessuna tensione erotica, nessun desiderio.

Oggi in cella non ci sentiamo mai – non sentircisi, non significa che in qualche cella non ci si trovi, senza saperlo – non subiamo l’impaccio dell’inchiostro conteso, della carta ad altro destinata, dell’udito teso, della luce uguale a tutte le ore, dei bianchi muri, dei giorni persi, dei servigi bassi, delle forme uguali… ci sembra d’essere dotati d’ali. E così, senza avvertimento del limite (avvertimento del limite, perché un limite c’è sempre, ma noi procediamo come se non ci fosse, gabbati dai giochi di prestigio dell’Accessibilità), dell’impaccio, dell’attrito l’anima pare mutata, o in via di mutazione, e “pronta a prender norma da quel ch’è di fuore”. Una società e una scuola dall’anima intiepidita, dove la fantasia langue e non sa più trovare il colore, non produce variazioni poiché le attende da fuori e, perciò, non sa più produrre pensiero maturo, che per esserlo – maturo – il pensiero deve affrontare la potenza del negativo.

A causa delle lusinghe dell’Accessibilità sempre e a tutti i costi rischiamo di risvegliarci tutti struzzi: dotati di ali di cartapesta, incapaci di volare e con la testa ficcata nella finissima e sterminata sabbia dei dati (tutti, manco a dirlo, accessibili).

Il Confino

“Nel mezzo del cimitero si apriva una fossa, profonda qualche metro, con le pareti ben tagliate nella terra secca pronta per il prossimo morto. Una scaletta a pioli permetteva di entrarci e di risalire senza difficoltà. In quei giorni di calura avevo preso l’abitudine, nelle mie passeggiate al cimitero, di scendere nella fossa e di sdraiarmi nel fondo. Il terreno era asciutto, il sole non arrivava laggiù, e non lo arroventava. Non vedevo altro che un rettangolo di cielo chiaro, e qualche bianca nuvola vagante: nessun suono giungeva al mio orecchio. In quella solitudine, in quella libertà passavo le ore.” (p. 59)

Carlo Levi si trova confinato a Gagliano e, nelle splendide pagine dedicate ai suoi vagabondaggi al cimitero del paese, racconta – come dipingendolo – il tempo trascorso tra i morti. Il tempo davvero libero, quello in cui si stendeva nella fossa vuota e si poneva, paradossalmente, in uno spazio ancor più angusto, si ritagliava una fetta di cielo ancor più stretta, ma era lui, l’uomo – non il Partito, non lo Stato fascistizzato, non il carabiniere che lo sorvegliava – a determinare tempi e spazi dell’uscita pomeridiana. Queste righe del Cristo sono incastonate tra lo sguardo, né divino né umano, di una capra che accoglie Levi al cimitero e la successiva descrizione del cane Barone che scende pure lui nella fossa, stanco dei giochi, e si addormenta quieto riuscendo a far addormentare pure l’amico-padrone, il mezzo leone.

Un finto morto tra i morti, un mezzo animale tra gli animali, una strana creatura questo pittore-scrittore che per riuscire a reagire alla tristezza del confino sembra inventarsene di ogni foggia e colore: un rettangolo di cielo chiaro, qualche bianca nuvola vagante, il profilo scuro della fossa, nessun suono. In questo modo bizzarro, il confinato trascorre le ore.

Carlo Levi si trovava in una situazione tutta limiti e confini – e lo sapeva bene, avendola già sperimentata in altra forma – ma, di nuovo, lo vediamo all’opera: la coscienza del limite, la consapevolezza dei mezzi avari, la pressione tellurica del confino forgiano sguardi nuovi, parole nuove, modalità e mezzi espressivi anch’essi nuovi che si nutrono di quella condizione limitata e limitante dove, di facilmente accessibile, pare non esserci nulla. Lo scrittore scende nella fossa, cerca e trova una visione angusta, ma solo sua, pone egli stesso quei limiti spaziali e temporali che gli permettono di esperire l’aperto (il cielo chiaro) e la vastità del tempo (nella fossa scorrono fluide le ore); lì – da confinato che si confina nella fossa del morto – conquista e gode la libertà.

Penso ai miei studenti, proprio a quelli che noi adulti abbiamo abituato a non prendere sul serio il limite, a credere che il sapere sia la somma più o meno ricca e ampia di nozioni/dati e che, a questi dati, sia sempre possibile accedere, che sia sempre possibile salvarli, comprenderli, usarli attraverso itinerari che permettono di fare tutto ciò: recuperare informazioni, copiarle, incollarle, modificarle, salvarle, usarle per creare un qualche prodotto (digitale o meno, ma pur sempre un prodotto).

Ma che cosa hanno a che fare questi procedimenti con la ricerca vera e propria? Con quel processo in cui sono sempre in gioco il soggetto che si interroga, il suo modo di cercare le risposte, la relazione tra il soggetto che cerca e gli altri soggetti che, inevitabilmente, incontrerà lungo il suo percorso?

E ancora: gli studenti, oggi, vivono un’esperienza scolastica (dal Nido all’Università) capace di far sperimentare lo scacco, il non accessibile, il non reperibile, il non comprensibile, il non salvabile, il non modificabile, il non utilizzabile, l’inaccessibile?

In un tempo che persegue con foga gli ideali/idoli dell’Accessibilità totale e della Trasparenza assoluta, sapremo trovare la nostra fossa, scendervi e, sdraiati, godere ancora del nostro rettangolo di cielo chiaro?

La Cecità

Vedere tutto, comprendere tutto. Illuminare tutto, spiegare tutto. Eliminare le zone d’ombra, raschiar via il residuo del non visibile, del non comprensibile. Mi sembrano, queste, le tendenze che rappresentano al meglio l’influenza degli idoli contemporanei.

Una Trasparenza che – s’intende – va a braccetto con L’Accessibilità: esse non tollerano opacità, dominano sulle nostre vite pretendendo che tutto ricada nel cono di luce del visto/saputo che non sopporta lo sfocato, i profili poco nitidi e, infatti, ci ostiniamo a ritoccare l’immagine, utilizzare filtri, aumentare la luminosità. Gli idoli tiranneggiano  al punto che arriviamo a crederci: il Mondo ci appare come se fosse tutto visibile/conoscibile, come se non ci fosse sempre una qualche cornice ad incorniciarlo, un qualche profilo a delimitarlo. Questo Mondo trasparente – noto, accessibile, sicuro, senza residui – è un mondo sul quale è facile intervenire e, infatti, procediamo lesti con le nostre liste spuntate.

Carlo Levi, invece, nel suo Quaderno a cancelli: “… in questo purgatorio o luogo di prova, e di attesa, e di decisione, e di scelta, e di penombra, oramai sto, incerto della incertezza”(p.68); diventato provvisoriamente cieco, lo scrittore sperimenta una nuova e terribile condizione di privazione e di assedio e, assediato in sé stesso come può esserlo chi non vede più, inizia gradualmente a comparare la sua condizione di prima a quella presente:

“In questo pozzo profondissimo, pare di essere in un sottomarino e di cercare di scrutare in qualche modo l’orizzonte con un doppio lunghissimo periscopio, che non scopre da ogni parte altro che mare, monotono e confuso mare. Guardare, guardare dal fondo, dentro al tubo del periscopio. Questo è ancora l’elemento che, mutato, permane: questo guardare chiuso e nero di occhi chiusi o ciechi o aperti e costretti, immobili, in ogni modo tuttavia guardanti: in dentro alle immobili apparizioni di un mondo probabile, o in fuori, alle ancora cieche apparizioni di un mondo che si afferma reale. (…). Palombari impacciati nei loro scafandri si muovono goffi in un mare ignoto non solo nel suo nome, ma anche nella sua sostanza, nella sua qualità salata o pescosa, tenebroso in quelle profondità.” (p.69)

Un palombaro impacciato e goffo, così si sentiva lo scrittore dapprima bendato e poi dotato di Occhialino correttore; un palombaro, però, consapevole del suo essere nuovamente costretto, confinato, impacciato, ma, tuttavia guardante.

Noi pure siamo palombari impacciati e goffi, ma lo scafandro che indossiamo  allegramente sembra impedirci di cogliere ruolo e funzione dell’Inaccessibile, dell’Opaco, di tutto ciò che – negandolo e rifiutandolo – non ci curiamo di considerare sperando di metterci al riparo da ogni rischio.

Bambine e studenti che dalla primaria in avanti hanno sempre a che fare con Uda, progetti, eventi, pacchetti che impacchettano (presumono di farlo) tutto: la Cellula, l’Africa, la Grande Guerra, Leopardi, i Vulcani, l’Affettività, la Sessualità, La Costituzione… Proponendo sterminate sequenze di pacchetti che non possono che contenere dati accessibili – pare risulti difficile impacchettare l’Inaccessibile – che tipo di insegnanti stiamo diventando? E che tipo di persone stiamo formando?

Nell’epoca dell’Accessibilità, della Trasparenza, della Sicurezza sempre e a tutti i costi,  sapremo ancora assumere – ciascuno a modo proprio – la postura suggerita da Levi?  Sapremo guardare dal fondo, dal tubo del nostro periscopio? Sapremo trovare il modo di continuare ad essere tuttavia guardanti?

Raschiando il barattolo

In Tutto il miele è finito Carlo Levi racconta i suoi viaggi in terra sarda (primo e secondo viaggio, 1952 e 1962) e condivide con il lettore, ripetutamente, descrizioni minuziose della medesima esperienza di ritiro solitario nella penombra silenziosa del nuraghe:

“La misura stessa delle pietre, quei venti conci aggettanti che chiudono il cerchio del muro, è lontana dalle nostre misure e gigantesca. E la forma dell’apertura, che non è una porta, né il vano di un ingresso, ma una stretta fessura a un metro dal suolo, che costringe ad entrare strisciando orizzontali (…). Stavo sdraiato in terra a contemplare, nel cavo profondissimo silenzio, il cielo rotondo, come dal fondo di un pozzo, dal fondo buio del pozzo della memoria, e le grige nuvole trascinate dal vento. Gli amici erano rimasti fuori.” (p. 47)

Altri passi, simili a questo, vedono Carlo Levi porsi volontariamente nella medesima situazione, una situazione che ormai, nei suoi elementi strutturali,  dovrebbe suonarci familiare: una dimensione limitata e limitante – cella, confino, cecità, da ultimo il nuraghe – subita o ricercata, ma che, comunque, vede il pittore-scrittore assumere la sua postura tipica, quella del tuttavia guardante. Ma noi, invece, proviamo ad assumere ora una prospettiva aerea e contempliamo dall’alto l’opera di Carlo Levi, come se stazionassimo in sospensione nella cesta di una mongolfiera e avessimo dispiegata, sotto agli occhi, l’intera mole delle sue tele, dei disegni e degli scritti: da qui sembra possibile scorgere una linea di faglia che attraversa molte delle sue produzioni, una linea che congiunge punti apparentemente separati e isolati. Il cortile di via Bezzecca, le Carceri nuove di Torino, la cella romana di Regina Coeli, la fossa di Gagliano, la costa atlantica francese, il letto della clinica di S. Domenico, il cono dell’Occhialino, il fondo del nuraghe: queste non sono lezioni separate, ma un unico orizzonte di senso che spinge il lettore – anche “In questo tempo dell’occhialino/(necessaria transizione)/ciascuno è Dio, Re, Padrone/del proprio mobile castello di latta/e chiuso nella sua regale scatola”(QC, p. 84) – a farsi egli stesso tuttaviaguardante.


[1]     Edizioni di riferimento delle opere di Carlo Levi citate nel presente contributo: Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1975; Poesie, Donzelli Editore, Roma 2008; Quaderno a cancelli, Einaudi, Torino 2020; ; Tutto il miele è finito, Ilisso Edizioni, Nuoro 2003.

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