Abitare la tradizione per mirare il cielo. La voce inattuale di Giacomo Panicucci
“…e in questo tempo ormai roso da ingiustizie e sofismi
cercare ancora lealtà e verità.”
(Giacomo Panicucci – Ode all’innocenza)
Piombino, 5 novembre 2023. Una domenica uggiosa, trascorsa più che vissuta, una parentesi in attesa di essere riassorbiti dal lavoro. Avevo visto sulla locandina di una piccola rassegna letteraria locale che quel giorno si sarebbe tenuto un evento su poesia e musica intitolato Dai trovatori ai cantautori, protagonista l’a me sconosciuto poeta e compositore Giacomo Panicucci. Il titolo del suo primo album da solista (A che punto è la notte? 2021) e il nome del gruppo musicale da lui cofondato (Vento dell’Altrove, con cui ha pubblicato il disco Canzoni orfiche nel 2018) suggeriscono che non dovrebbe trattarsi di cianfrusaglia, ma fino all’ultimo l’indolenza prevale. Non saranno cose già sentite, o scritte sopra un metro un po’ stantio? Per mia fortuna, mi decido a vincere la pigrizia e ad andare nella sala del Museo Archeologico cittadino dove si terrà l’esibizione. Una ventina i presenti, l’autore col suo violino spalleggiato dal chitarrista Paolo Batistini. Qui faccio la conoscenza, con inaspettata sorpresa ed emozione, di una voce che ha qualcosa da dire, che prende sul serio il compito di rivelazione e di raccoglimento che la poesia dovrebbe suscitare in chi la ascolta. Non meno delle sue canzoni mi colpisce la limpidezza e la serietà delle sue parole e della sua dizione tra un pezzo e l’altro. Dunque, mi dico, c’è ancora qualcuno che nonostante l’intossicazione comunicativa dei nostri tempi, crede che almeno da qualche parte deve pur esistere uno spazio per fare i conti col sacro e col tremendo. Gli esprimo gratitudine a fine spettacolo, compro il suo disco e il suo libro (Miraggi. Liriche musicali, Minerva 2022) con l’impegno a scriverne sopra dopo che lo avessi letto, ed eccomi qui.
Il primo testo di Miraggi, Nuvole, ci introduce subito alle sorgenti della poesia di Panicucci: la meraviglia di fronte alla Natura. Cosa di più antico, di più frequentato di questo tema? Perché ancora cantarla dunque? Eppure, la Natura è proprio ciò da cui la nostra specie si sta sempre più separando, violentandola e avvelenandola fra cinismo e noncuranza. La contemplazione delle nuvole (in cui possiamo cogliere un omaggio all’omonima canzone di De André) è il punto di partenza di un viaggio che invita a riabitare poeticamente la Terra, a far sostare i nostri sensi sui motivi di incanto che ancora il mondo ci offre. Esercitarsi a uno sguardo sull’alto e dall’alto, percepire la nostra piccolezza per riguadagnare il contatto con l’eterno, con l’universo, pure se orfano degli dèi. L’inferno a cui non occorre rassegnarsi ci viene per contro tratteggiato in versi che ricordano la temperie spirituale dei Frammenti lirici di Clemente Rebora:
“In basso la città con i suoi tentacoli
si contorce, grida, sferraglia, esplode, bestemmia:
pozzanghera multicolore
di rumori gracchianti e luci strepitanti.
camminano senza volto automi autocertificati
e al trotto passa un treno inferocito
su uno scheletrico ponte di ferro
alzando alte ventate di pulviscolo nero.
Sotto, un grigio fiumiciattolo smorto resiste ancora
ai veleni che ha in sé disciolti.
vi nuotano inermi bottiglie verdi
che sembrano opachi smeraldi falsi;
ai lati affiorano copertoni incrostati di melma,
la testa di una bambola spaccata,
un cartone di vino accartocciato”
Il secondo testo, Stanze e corridoi, ci fa subito precipitare in un campionario del dolore umano – “Come una clessidra minuto su minuto / cade a granelli nel mondo sofferenza” -, nei territori della malattia e della morte che ogni “secol superbo e sciocco” ha la presunzione di poter del tutto estirpare. “Steso sopra un colle l’ospedale / sembra un bianco leviatano arenato”, nelle cui viscere trova ricovero un’umanità ai margini della vita. Dalle battaglie furenti della terapia intensiva al silenzio di ghiaccio dell’obitorio che accoglie le spoglie di un suicida, Panicucci ricrea attraverso rapidi passaggi da un piano all’altro della struttura i gironi di un piccolo inferno prima della fine, prima di un oltre forse migliore che non rinuncia a immaginare. La Morte come dispensatrice di quiete, come forza dalle sembianze classiche o cristiane che ci mette di fronte all’inanità di tutti i nostri affanni e beghe, è al centro dell’Elegia su un cimitero di campagna, un testo solenne che omaggia degnamente la grande tradizione della poesia cimiteriale (da Gray a Foscolo, da Lee Masters ad alcune liriche di Sereni). La solitudine dei trapassati, la loro voce muta, può essere raccolta solo dal poeta, che si fa carico di insinuare in noi l’interrogativo su quali siano davvero i morti, quali siano davvero i vivi: “E mentre procede il transumano progresso / abbattendo memorie e monetizzando ogni luogo / voi siete al riparo oltre la dismisura e nella notte del mondo / come candele in un black-out sembrate vegliare.”
Esplicitamente e a più riprese omaggiate, Dante, Dostoevskij, Leopardi e Pasolini sono le voci poetiche e profetiche che più ispirano la polemica di Panicucci contro il mondo moderno. Polemica non esente da qualche eccesso predicatorio un po’ troppo prevedibile e prosastico (es. “Siamo sempre più devoti alla religione dei Consumi / e ci corrode l’anima il Nichilismo”) che indebolirebbe la qualità di questi testi, se non fossero destinati anche all’esecuzione musicale. Altrove invece, la sua parola riesce ad essere più incisiva in entrambe le sue possibilità di fruizione, come ne La ballata della Grande Quercia, un componimento malinconico sull’avanzare del Mercato e del Cemento che assume i nomi truffaldini di Sviluppo e Progresso a mascherarne lo scempio: “L’uomo preferisce le tenebre alla luce, / l’uomo non riesce a custodire e amare la Bellezza. / Sparge semi di morte e apocalisse sulla vita / e poi si dispera quando coglie i frutti della distruzione.”
Si potrebbe pensare che il temperamento poetico di Panicucci sia all’insegna del fascino per il lugubre e l’oscuro come fonti privilegiate di ispirazione. Al contrario, in costante opposizione a tutto ciò che la nega, vi è in gran parte delle sue liriche un’intensa sete di solarità, una tensione spirituale che gli permette di articolare “un punto di vista divino sulla vita” (Cinzia Demi), inclinazione che è consapevolmente rivendicata dall’autore stesso in una breve ma densa intervista che funge da introduzione alla raccolta:
“Nonostante si manifesti spesso come una potenza feroce, assurda e spietata, la Natura avrebbe potuto avere soltanto la funzionalità automatica del robot e noi avremmo potuto nascere senza la capacità di avvertire belli i fiori, gli animali, il mare, le montagne, il firmamento e le stelle. […] Se non riusciamo a vivere per ideali più eterni dell’egoismo e della passione per il denaro e se non siamo capaci di stupore di fronte al mistero della vita, vuol dire che siamo in dissonanza con un’armonia superiore, di cui siamo solo un’esigua ed effimera parte.”
Più apollineo che dionisiaco, tale sentimento dà il colore a numerose liriche dedicate alla notte, al succedersi delle stagioni, a un oraziano sentimento del tempo e infine, presenza irrinunciabile per uno scrittore piombinese, alla vastità del mare. A quest’ultimo viene dedicato un trittico di poesie in bilico tra la promessa di libertà e di immense possibilità che esso racchiude e il senso di minaccia di fronte a un mostro indomabile da cui tenersi lontano,sentendo la “belva nera gli scafi azzannare.” Anche in questo caso la contemplazione del paesaggio naturale viene riletta e trasfigurata attraverso riferimenti alle storie e alle creature del mito, alla tradizione poetica antica e moderna e forse anche sotto l’influsso di un disco di Capossela particolarmente riuscito, Marinai, profeti e balene.
E volendo tenersi proprio all’ultimo Capossela, si può dire che anche le canzoni e le liriche di Panicucci sono animate da un’urgenza, dalla necessità di consegnare un messaggio, o quantomeno di dargli una forma. Non di messaggio immediatamente politico si tratta, però. Non troviamo qui una risposta ad alcun “Che fare?” operativamente collettivo, perché non è questo il compito dell’arte, certo non della poesia di questo autore, che si disinteressa sovranamente della cronaca, del contingente e dell’effimero, dedicandosi invece alla lunga durata delle epoche e dell’eterno. Tranne in due casi. Vi sono infatti due liriche giustapposte, datate 2006 (Fabbrica della morte) e 2022 (Cantico delle creature nell’era degli equilibri nucleari). Entrambe puntano uno sguardo angoscioso su due forme di violenza e di distruzione dell’essere umano ad opera di forze incontrollate e di logiche che sfuggono alla ragione. Mostrare le ferite da sanare, le fratture da riparare, porre interrogativi frontali e radicali, che nessun altro discorso può porre con la stessa libertà e lo stesso “disimpegno”, questo l’onere civile che tale poesia si assume, non senza rendere onore alla esperienza nobile ma ormai tramontata del movimento operaio novecentesco: e come cifre in elenchi siete segnati, / tra promesse cadute mai mantenute, / mentre voi sognavate orizzonti più umani”. Emerge qui il rimpianto e il dolore per i legami familiari spezzati anzitempo a causa dalle morti e dagli infortuni sul lavoro, delle tante malattie che l’industria siderurgica ha elargito ai lavoratori e ai cittadini di questa piccola città sul mare. Una storia che ne contiene molte altre.
Il testo successivo, composto a poche settimane di distanza dal precipitare della guerra tra Russia e Ucraina, denuncia lo strapotere del denaro, la mediocrità e l’arroganza dei governanti e degli imprenditori a capo degli imperi, la follia disumanizzante di ogni guerra, con parole dolenti che si prestano a evocare quanto in questi ultimi mesi è stato inflitto alla popolazione di Gaza: “Van spezzandosi incolpevoli vite / van sul fango le lacrime degli sfollati / e troppe infanzie perdute e tradite / mentre volano schegge, proiettili, granate.” Di fronte al propagarsi di tale orrore, Panicucci ci invita a ritirare ogni credito di fiducia e ascolto agli attuali signori del mondo, lanciando un messaggio di pace e fraternità che può fondarsi solo sulla cura comune che dovremmo dedicare a un “pianeta esausto e insanguinato”, alla lode e alla salvaguardia di tutte le sue creature e per loro tramite di noi stessi. Un salmo, una preghiera/invettiva che invita al recupero di una semplicità francescana corredata dalla speranza (di nuovo, nel segno di Dostoevskij) che la Bellezza possa, forse, salvare il mondo e la nostra specie dall’autoannientamento, dai sottosuoli in cui siamo e stiamo continuando a precipitare.
Di testo in testo emerge sempre più chiaramente uno dei tratti della loro ideologia implicita ovvero la convinzione, sulla scia di Rousseau, che il bene stia soprattutto dalla parte della natura, che il male sia perlopiù un prodotto della corruzione operata dalla società e dalla storia – “Siamo stonature dentro l’armonia del cantico del cosmo / Vivi solo per conservarci, accumulare soldi, / assaporare vanità, potere e per tramare inganni.” Danza di primavera -; che non provenga insomma anche dal cuore profondo e oscuro della natura dell’uomo. Vi è qui qualcosa di troppo edenico, un mancato corpo a corpo che l’autore potrebbe elaborare poeticamente in futuro; non necessariamente frequentando i territori letterari e filosofici del nichilismo e del pessimismo antropologico più cupo, ma anche solo attingendo al contemptus mundi della grande poesia cristiana, a partire da Jacopone da Todi.
Da ultimo, qualche parola su altre due presenze degne di nota ovvero l’esperienza dell’amore e la riflessione sulla poesia stessa. Per Panicucci l’amore cantabile coincide con l’esperienza della solitudine e dell’abbandono, del ricordo malinconico della felicità provata e delle possibilità svanite. È un amore elegiaco e totalizzante, non riducibile a un’esperienza puramente privata ma sempre partecipe di un’armonia più grande che lo sovrasta, di quell’“Amor che move il sole e le altre stelle”. Qualcosa che si può perdere, da cui ci si può disconnettere, ma che rimane impresso in noi e che può essere disseppellito, se solo ritrovassimo un cammino di purificazione e disciplina interiore (che ha a che fare anche con la frequentazione devota della tradizione poetica), verso quel Sole a cui l’autore dedica un vero e proprio Inno, una mistica esaltazione della luce e della conoscenza che può ricordare alcune canzoni di Franco Battiato:
“Brucia questa terra, trionfa il caos
con i suoi vessilli
fende l’aria sterile e insana
il grido muto e innocente
di un pianeta ferito
e la vita autentica è assente;
sembra di essere ombre e ologrammi,
c’è dovunque un’Eclissi di Luce;
c’è nei cuori un’Eclissi di Sole.”
Qualcuno ha parlato di diffuse tracce crepuscolari in questa poesia che nasce “tra sogni e altiforni” (Gordiano Lupi), dalla provincia e anzi dalla periferia della provincia. Trovo invece che la voce di Giacomo Panicucci sia distante, ben più distante di quanto egli stesso dichiari, da qualunque crepuscolarismo, perché la sua è una poesia dell’incanto e dell’intensità, proprio le due dimensioni che i crepuscolari rifiutano dietro lo schermo di una malinconia anestetizzante o di un’autoironia che funga da giustificazione della propria inerzia esistenziale. Nel cantautore e poeta piombinese, al contrario, la parola poetica crede in se stessa, nella propria forza e sacralità, ma soprattutto nella potenza di ciò che la precede e la supera, rispetto a cui il poeta si pone in un umile e appassionato spirito di servizio, agli antipodi di ogni egocentrismo e di ogni volgare culto della personalità e della celebrità oggi così diffuso.
In un’epoca in cui, come ha scritto Mario Tronti ne Lo spirito libero, “fuoriesce senza sforzo, perché viene lasciato passare, solo il messaggero che non porta alcun messaggio”, dovremmo apprezzare e prestare ascolto alla voce, non sempre sublime, ma mai priva di serietà e generosità, di chi ha qualcosa da dire, che potrebbe essere condensato nel seguente monito: “Abbiamo il dovere di non cancellare la saggezza delle tradizioni, di salvare il silenzio e la contemplazione dalla continua tirannia del rumore e della distrazione.” Per emanciparsi dagli insignificanti “miraggi di un mondo fallace”, può allora essere utile ricercare altri miraggi, degli Altrove come sono appunto la spiritualità, il culto della poesia e il contatto con la natura stessa. Niente di tutto ciò potrà salvarci senza un ritorno alla politica, ma le vie di questo ritorno possono forse passare anche dalla ricomposizione dei tanti e sparsi tentativi di diserzione interiore dalla società della merce. A questo ci invitano le liriche musicali di Panicucci.
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