Perché leggere “Silenzio a Milano” di Anna Maria Ortese
Anna Maria Ortese arriva a Milano nel 1948 e vi abita stabilmente dal 1952 al 1958, dopo aver lasciato Napoli. La città partenopea le ha quasi inflitto l’embargo dopo la pubblicazione, nel 1953, di quel libro straordinario e controverso che è Il mare non bagna Napoli. Ma la scrittrice, seppure provata da quella esperienza dolorosa di rifiuto, nel 1958 dà alle stampe un libro che, nella struttura e nello sguardo, lo ricorda da vicino; e poco sembra importarle che quello sguardo si eserciti sulla capitale lombarda, che allora da Napoli appariva veramente lontana. Questo libro è Silenzio a Milano.
Si tratta di sette racconti che narrano una Milano triste, provata, deprivata: Una notte alla stazione, I ragazzi di Arese, Locali notturni, Le piramidi di Milano, La città è venduta, Il disoccupato, Lo sgombero. In realtà, alcuni di questi racconti – come già per Il mare – nascono come reportage giornalistici e l’etichetta del genere narrativo, ove si voglia dare importanza alla manzoniana invenzione, probabilmente andrebbe attribuita soltanto agli ultimi due. Non è il caso tuttavia di andare troppo per il sottile: il lavoro giornalistico è per Ortese «palestra di scrittura»[1] e strumento di ricognizione della realtà difficile e contraddittoria dell’Italia del dopoguerra. Ma è il racconto che trasforma quella realtà – tangibile, sensibile – nella metafora di un disagio esistenziale nei confronti di una società in rapida e cinica trasformazione economica e culturale, la cui cifra più vistosa è il silenzio della solitudine. Potremmo rileggere questo libro per le stesse ragioni per cui abbiamo riproposto la lettura del Mare. Ma non possiamo ignorare che tra le due raccolte ci sia un intervallo di cinque anni; e che siano – appunto – anni di solitudine e silenzio. Ecco dunque perché riprenderlo in mano.
Perché Nord e Sud si guardano allo specchio
Napoli e Milano: nell’immaginario collettivo degli italiani forse non esiste un binomio che, altrettanto efficacemente, rappresenti le polarità – vere o presunte – del Belpaese, che la tragica fine del secondo conflitto mondiale contribuì ad ampliare, con le forze alleate, già nemiche, che avanzavano da sud e i nazisti, già alleati, che infuriavano nel nord. Eppure questi due libri si guardano come in uno specchio; e davvero si dovrebbero leggere non uno dopo l’altro, ma uno accanto all’altro, alternando, se possibile, i racconti; quello che si dovrebbe fare leggendo Verga: alternare le Novelle rusticane a quelle di Per le vie. Non si tratta (o non si tratta soltanto) di seguire le traiettorie disperate degli emigranti che dal meridione salgono in settentrione in cerca di lavoro, ma di riconoscere le traiettorie non meno disperate di coloro che – milanesi – migrano da un lavoro all’altro, da un bar all’altro, da un quartiere all’altro della stessa città senza riconoscerla e riconoscervisi, in cerca di un’identità perduta. Significativamente la raccolta si apre sul racconto (forse, e giustamente, il più noto) di Una notte nella stazione: la stazione ferroviaria, emblema perfino usurato di modernità, spazio estremo di condivisione e di estraneità, provoca nella giornalista e nel fotografo che l’accompagna «un malessere iniziale che si muta [corsivo mio] in terrore segreto, doloroso, lo stesso che spinge dei prigionieri a gettare intorno occhiate che divorano i muri, in cerca di un varco» (p.7):
Sentivamo addosso la Stazione Centrale come una montagna; la sua potenza si faceva limite e fine: di qui non si partiva più: si entrava, e la destinazione era ignota. Di giorno, e anche di notte, il passeggero frettoloso non può avvertirle: ma (…) chi (…) da quella foresta di pietra che vivente ch’è la capitale del lavoro italiano, si porta fino a questo monumento, per conoscerlo, e s’addentra nei suoi fianchi, non può notarne queste particolarità, degne di un’antica cattedrale: la grandezza e le tenebre. (…) Alta, nel suo complesso con le parti retrostanti, oltre 42 metri, lunga 185, rivestita di pietra lavorata di Nabresina, nelle notti lunari è una specie di altare della decadenza, di faro della cecità. Guardandola, si ha l’impressione di toccare il polso alla vita moderna, all’uomo preso nel girone della civiltà industriale, che restituirà alla fine, dopo trent’anni, un automa o un rottame. (pp.10-11)
E non meno emblematico è che, fra i pochi passeggeri che alla stazione si lascino avvicinare, ci sia «una famigliola, evidentemente meridionale», che, dopo aver tentato il salto nella capitale economica d’Italia, ha scelto di tornare lì da dove è venuta:
«Non vi piaceva, Milano?»
«Signora, mi piaceva, ma questo che vuol dire? Il nostro è un mestiere che non va più tanto; l’industria è grande: sarto, signore mio, e malato per giunta: il clima. Mia moglie non fa che piangere, (…) la casa è buia, le lenzuola nel cortile non asciugano mai, diventano verdi, anche noi diventiamo verdi. Allora dico: torniamo.»
(…)
«Così è Milano» (…) «ti fanno… ti dicono…, e poi sei morto» (pp.22-23)
Ma altrettanto significativamente il libro si conclude, come a voler chiudere un cerchio, con il racconto Lo sgombero – questo sì racconto “puro”, apparentemente privo di istanze documentaristiche – che narra il trasloco di una coppia “autoctona” e anomala, un fratello e una sorella – lui, come il defunto padre, operaio delle acciaierie, lei donna senza qualità. Gli è stato assegnato un alloggio nelle case popolari, per il quale lasciano l’appartamento in affitto dove hanno sempre vissuto e all’improvviso
Che silenzio, intorno! Che silenzio sopra Milano, nel mondo! Che impossibilità di gridare, di chiamare aiuto, di muoversi. Che morte fatta di silenzio, di abbiezione! (p.137)
E come la tempesta che scompiglia le ali all’Angelus novus, il progresso stravolge la storia di questa città laboriosa, ne torce e ne cattura cinicamente lo sguardo, fino a indurla a voltare le spalle a chi (come una famiglia di tradizione operaia) di quel progresso è stato artefice. Ortese scrive dunque storie di solitudine metropolitana e restituisce di Milano una immagine molto diversa da quella dinamica e moderna che la consacra regina e condottiera della (ri)nascente economia nazionale; un’immagine in cui si guarda, come in uno specchio, come fosse l’altra faccia della stessa moneta, quella Napoli degradata, che neppure il mare lambisce più.
Perché racconta un destino collettivo
Alberto e Masa, i due protagonisti de Lo sgombero hanno per qualche tempo tenuto a pigione Dino, un giovane borghese di Alessandria di cui entrambi, ognuno a suo modo, si sono invaghiti. Da lui, come da un inatteso messia, hanno ascoltato la buona novella di una «vita nuova, più ricca di rapporti, di conoscenza, di bellezza», dove «un uomo è un uomo e un operaio è un uomo come un altro» e hanno creduto «che il comunismo fosse un ponte per unire il passato all’avvenire, per introdurre tutti gli uomini nell’avvenire» (p.127). E invece non solo Dino (come già, nel Mare, le Giacchette grigie di Monte di Dio) improvvisamente li lascia («A Torino, mi hanno offerto un buon impiego e ho deciso di accettare, tanto le idee lo sappiamo tutti a cosa servono», p.131), ma
Il partito era finito. Era cominciato con l’Ungheria, quando s’era scoperto che anche i russi erano come hitleriani o fascisti, adoperavano le armi per imporre le idee, e gli eserciti in luogo dei libri. (…) giorno per giorno, la terra si riempiva di fragore, peggio di quando c’era Hitler, perché allora, se da una parte c’erano gli automi, dall’altra rimanevano gli uomini, e ora, invece, tutto si confondeva, ancora gli automi avevano qualcosa degli uomini, mentre la gran massa degli uomini si avviava a diventare automi. (pp.129-130)
Il dramma individuale assume il «senso di un preciso destino collettivo»[1]. A Sandra Petrignani, che le chiedeva se non credesse più nel «miracolo di riforme e rivoluzioni»[2], Ortese rispondeva: «Tutte le riforme e le rivoluzioni che non abbiano per oggetto il rinnovamento, la rinascita della vita morale (prima che religiosa o politica) sono fallite in partenza» e di questo fallimento Silenzio a Milano sembra prefigurazione profetica, profondamente inquietante per chi lo legge con gli occhi del poi. Rappresentazione plastica di questa rivoluzione deforme, che è stata economica ma ha mancato il suo compito fondamentale di riabilitare le masse, è il «Centro di rieducazione per minorenni traviati, che ha sede in Arese, a soli quindici chilometri da Milano» (p.45), immerso (anche questo) nell’«astratto silenzio» (p.51) di una «gioventù pietrificata» (p.52), dove ogni ragazzo è «uno zero circondato da un altro zero» (p.53). Ma è inutile illudersi che basti confinare in centri, sobborghi, stazioni, come in nuovi e sconcertanti lazzaretti (chissà: oggi forse li chiameremmo Hotspot o Cas o Cpr), gli appestati che nemmeno il miracolo economico è riuscito a risanare; coloro che da quel miracolo sono stati beneficiati vivono già la dannazione di re Mida e senza difficoltà li si incontra nei Locali notturni, «locali di lusso (che) si assomigliano tutti», dove «chi siede, ha sempre, in viso, una felicità turbata; chi si alza, è muto» (p.67):
Qui, di veramente giovane, non c’è nessuno. Persone forse rappresentative di un certo settore artistico-industriale della vita cittadina, come una nota mannequin, qualche attore, un antiquario; il resto commercianti, con l’amica non ancora stanca, qualche aristocratico privo di cultura, qualche giovanotto fatto di niente. (…) La presenza dell’equivoco, in questa elegante saletta, è sconcertante come una coppa di champagne riempita con risciacquatura di piatti. Sconcerta la stessa dolorosa finezza, ricca quasi di gratitudine, con cui lo scarso pubblico accetta il gioco. (pp.65-66)
E chi s’aspetta, per tradizione, la rivoluzione dal cosiddetto ceto medio, è condotto da Ortese a visitare le Case albergo, Le piramidi di Milano, «l’Ottocento e il Duemila, la Pianura padana e New York» (p.75), «oltre duecento finestre, (…) oltre duecento stanze con doccia, una sopra l’altra, una accanto all’altra, tutte perfettamente simili» (p.77): ai loro abitanti, sempre in nome del progresso, la metropoli ha imposto, come ai Ragazzi di Arese – gioventù pietrificata – o ai ricchi avventori dei lussuosi Locali notturni, il gioco del silenzio:
Pesa, su ciascuno di questi cittadini, (…) intenti tutti, più o meno, a guadagnarsi la vita, (…) una sorveglianza delicatissima; e il sospetto permanente, cui i più si rassegnano, che la “vita” sia alla base dei loro interessi. La vita, cioè i rapporti umani, l’amicizia, il conversare, il discutere, l’intelligenza di uno sguardo, la gioia. Invisibile, su ciascuna porta, c’è un cartellino che invita il personale a tenere d’occhio quel professionista o artista o insegnante: la ragazza col golfino o la signora coi capelli quasi bianchi, il giornalista e l’impiegato, lo studente negro e il vecchio pensionato. Tutti probabili contravventori della legge, la legge della grande città industriale e medioevale insieme, (…) spregiudicata e prudentissima, che dovunque sospetta un’infrazione alla regola, all’ordine stabilito; (…) e dispone senza stancarsi la condizione prima del silenzio: la solitudine. (pp.77-78)
Perché s’inventa uno stile
Centri di rieducazione, case albergo, stazioni, quartieri popolari e quartieri eleganti, locali notturni di lusso o malfamati, uffici o acciaierie, sono tutti, indistintamente, «luoghi paradigmatici dello strazio quotidiano»[1], che Ortese affronta con lo sguardo vigile della giornalista, taccuino alla mano, senza perdere un dato (dimensioni, colori, odori, oggetti, visi, suoni); tuttavia, la scrittrice non si appaga di questa istanza primaria fortissima di adesione alle cose, come fosse animata da una determinazione altrettanto forte, implacabile, di attraversamento, di penetrazione di esse. Non vuole soltanto documentare ciò che si vede, ma smascherare ciò che è celato – per pudore, per ipocrisia, per timore, per orgoglio, per opportunismo cinico – sotto uno strato tangibile di rassegnazione, consuetudine, menzogna. S’inventa così uno stile del tutto peculiare, che è, insieme, esagitato e lucidissimo, malinconico e acre. A volte tornano in mente certe atmosfere di Verga o Tozzi (per esempio, quelle de Il canarino del n.15 o de La casa venduta); altre, invece, Ortese sembra anticipare postura e movenze che saranno della prosa migliore di tanti narratori delle periferie. Qui si ricorda almeno l’incipit de La città è venduta: la scrittrice percorre Milano in taxi, dal Parco a Corso Buenos Aires, passando per San Babila. Milano è nobile, ricca, splendida (gli aggettivi sono tutti di Ortese); è lusso, calma, maestà e bellezza (cfr. pp.81-82); ma poi, come se tutta questa magnificenza s’incanalasse in un imbuto senza scampo, la scrittrice scende «davanti a una casa di Corso Buenos Aires»:
Qui è tutto vecchio, corroso, con effetti allucinanti. Per le scale, per i gradini neri e rotti, foglie di cavolo e una grossa zampa di gallina, gialla come il sole, che devo spingere in là col piede. Una balconata cadente gira tutto intorno al primo piano, come un corridoio scoperto, e vi si affacciano alcune porte e finestre munite di sbarre, espressione di una rovina e una solitudine che ha qualcosa di fiabesco. Anche qui ho abitato, in quella stanza in fondo. (p.82)
È il silenzio assordante di Milano.
[1] A. Baldi, La metropoli matrigna: “Silenzio a Milano” di Anna Maria Ortese, in “Studi Novecenteschi”, XXVII, n. 59, giugno 2000, p. 187.
[1] C. Marabini, Scrittrici: la generazione del secondo Novecento, in Scrittrici, giornaliste. Da Matilde Serao a Susanna Tamaro, Marsilio 2001, p.49.
[2] cfr. S. Petrignani, Le signore della scrittura, La Tartaruga 2022, p.113.
[1] L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori 2002, p.226
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Sulla Ortese merita attenzione una testimonianza folgorante che si deve ad una fonte di cui mi piace non riferire l’identità: “Anna Maria Ortese, figuretta riservata, sempre vestita di nero, i capelli stretti da una fascia nera sopra il bel viso, passava silenziosamente i giorni alla Casa della cultura perché non aveva una vera casa. In uno dei primi reportage sull’Urss che le aveva chiesto un settimanale aveva scritto d’una immensa povertà e solitudine, che suonavano come una sterminata colpa. Era Ortese, era la sua assonanza con il dolore dei miseri, ma mi esasperò perché non dubitai che fosse vero. La investii: non hai capito la fatica, l’isolamento di quel paese; perché non scrivi anche che tutti hanno un lavoro, tutti hanno la scuola, tutti hanno gli ospedali? E non vedi che è sotto attacco? Il nostro era un rapporto quotidiano, discreto – non chiedeva mai nulla – e le feci male. il giorno dopo venne a casa mia con un assurdo mazzo di fiori e come aprii la porta non riuscì ad articolare parola, ci abbracciammo piangendo”.