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diretto da Romano Luperini

Frati, preti, suore del Decameron. Il presente, i temi, il libro

Premessa prima

I processi di attualizzazione solitamente praticati a scuola rendono la letteratura un repertorio di temi che in maniera sincronica sono disponibili all’uso molto spesso disinvolto, quando non indiscriminato, dell’analogia. Il risultato è in genere un eterno presente in cui si aggirano esseri umani che mutano soltanto foggia dei loro abiti e qualche volta aspetti marginali come lingua, religione, cibo, leggi, economia, secolo, latitudine… Rispetto al tematismo selvaggio ad usum delphini altra cosa sono i fenomeni di lunga durata delle Annales, la persistenza di elementi legati alla mentalità in fasi di cambiamento tecnologico ed economico, o gli archetipi junghiani. Non si contesta affatto che esistano in letteratura temi, motivi e topoi. Si propone, piuttosto, di non appiattire attraverso la letteratura il passato e il futuro sul presente. La profondità del tempo, la storia, è un elemento conoscitivo che non può essere trascurato, se non ci si vuole smarrire. Se il lontano non è distinguibile dal vicino (e viceversa) si ottiene un effetto allucinatorio forse affascinante, ma certamente distorsivo della realtà e disorientante per l’esperienza conoscitiva. Una simile deformazione si dimostra utile nel testo letterario, ed è stata realizzata per l’assunzione della sintassi e della retorica onirica, per la costruzione di effetti stranianti, realistici o fantastici, in epoche e culture riconoscibili. Del resto, vicino e lontano sono elementi spaziali prima e oltre che temporali: la spazializzazione del tempo ci è utile per afferrare fisicamente ciò che proverbialmente fugge. Perciò ha ragione Benjamin: «Il vero metodo per renderci presenti le cose è rappresentarle nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). È questo il caso anche delle grandi cose del passato. Non siamo noi a trasferirci in loro, ma loro ad entrare nella nostra vita.» (I «passages» di Parigi). E l’unico modo che il genere umano ha escogitato per consentire a ciò che è lontano nel tempo di essere vicino nello spazio è il libro.

Boccaccio era pienamente consapevole delle straordinarie capacità di dislocazione offerte dal libro, infatti, nel Filocolo,Biancifiore dice a Florio

Tu te n’andrai a Montoro col vero corpo, e io misera rimarrò seguendoti sempre con la mente; né mai in alcuna parte sanza me sarai, […] disiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta, che stare nella mia forma da te lontana.

Il desiderio di metamorfosi di Biancifiore fa pensare ad Ovidio, il quale – uomo in esilio – in realtà desidera anch’egli «esse liber» (Tristia) per potere andare a Roma, a lui vietata. Quando il vero corpo non può condividere uno spazio con l’altro, il libro diventa la forma che assume chi lo ha scritto: così Boccaccio, per stare vicino alle donne, scrive«il libro chiamato Decameron, cognominato Prencipe Galeotto», e così è presente anche a noi. Ma non basta: il suo libro entra in dialogo con altri libri, scritti nel passato, che diventano presenti nel nuovo spazio. Boccaccio è assolutamente consapevole dell’esistenza della galassia letteraria fatta di scrittori, che sono libri, da consultare amorosamente, da tenere in mano, da evocare e citare.

Premessa seconda

I processi di banalizzazione del complesso, operanti in larga misura da qualche decennio a questa parte, sono evidentemente modalità vincenti nel contemporaneo sistema di comunicazione globale. Dunque, anche la scuola italiana, che vive questo tempo dominato da tali tendenze, e governato dai medesimi poteri economici e politici, subisce nei propri assetti e nel suo ruolo sociale lo stesso processo di banalizzazione. Coloro che intendono riformarla, per ragioni di riduzione della spesa, sono infatti ‘esperti’ che non hanno mai varcato – da insegnanti – la soglia di un’aula scolastica, e che non sono affatto interessati a conoscerne la realtà. Tuttavia, credo che piuttosto che subire questo nostro tempo, lamentando l’invasione dei media e dei social, chi fa il mestiere di insegnare potrebbe costituire un argine alla semplificazione dominante, difendendo le ragioni di ciò che è articolato e complicato. Gli insegnanti, cioè, dovrebbero difendere la loro funzione di intellettuali, che avvicinano i giovani a ciò che è difficile. È evidente, nei fatti, che la demonizzazione del difficile è andata di pari passo con la svalutazione della scuola statale democratica: ovviamente gli insegnanti non servono in un mondo in cui tutto è semplice, ed il massimo che si chiede è essere addestrati a far funzionare qualcosa e se stessi, come nota Miguel Benasayag (Funzionare o esistere?).

Ebbene, leggere Boccaccio, con la sua sintassi latina e il suo lessico trecentesco multiregionale, è difficile. Questa difficoltà, che rende preziosa la conoscenza di un testo originale, deve essere sperimentata, non abolita. Gli insegnanti devono guidare gli studenti nell’esperienza della comprensione, che conduce alla gratificazione della conoscenza. Molto spesso non lo fanno e non lo hanno fatto giustificando i processi di semplificazione e banalizzazione dello studio e assumendo il tema come scorciatoia per l’attualizzazione. Inoltre, per ragioni di tempo, peraltro sacrosante, e per inerzia, umanamente comprensibile, gli insegnanti tendono a fare quello che si è sempre fatto. Così, però, quello che si perde è la metamorfosi dell’autore in libro e la sua vicinanza reale nel nostro spazio.

Si parte da una novella

Partendo da una novella, qui di seguito proporrò l’attraversamento del libro Galeotto seguendo un percorso a spirale che intende fondere novella, cornice e supercornice nell’unità, appunto, del libro. Il tema interno del Decameron, che intendo seguire, è l’ipocrisia dei chierici. Campione emblematico ne è Frate Alberto da Imola, protagonista della seconda novella della Quarta Giornata. Pampinea intende «dimostrare quanta e quale sia la ipocresia de’ religiosi». Perciò favella di «uno uomo di scelerata vita e di corrotta», Berto della Massa, autore di così tante «vituperose opere molto dagli imolesi conosciute», da decidere di trasmutarsi «a Vinegia d’ogni bruttura ricevitrice» «e quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio adoperare». Si fa «frate minore», prende il nome di frate Alberto da Imola e «oltre a ciò» si fa «prete».  E così, in un solo personaggio, sono morsi, contemporaneamente, il clero regolare e quello secolare, i quali, secondo Pampinea, partecipano dei medesimi vizi. Certo, frate Alberto incontra «una giovane donna bamba e sciocca», «bergola», «che […] sentìa dello scemo», «donna mestola», «Donna zucca al vento», «Madonna Baderla», «donna pocofila», una, insomma «che poco sale aveva in zucca», ma frate Alberto è «ladrone», «ruffiano», «falsario», «omicida», uno spregevole ipocrita che «nascosamente» mette in opera quelli che rimangono indiscutibilmente vizi. Se «il lupo si era fatto pastore», spetta al gregge smascherarlo, come accade alla fine della novella, quando, «in su la piazza di San Marco», davanti a «gente senza fine», frate Alberto, «unto di mele e empiuto di sopra di penna matta», con «una catena in gola», legato «ad una colonna» «in luogo rilevato e alto», tormentato da «mosche e’ tafàni», è infine «incontanente da tutti conosciuto». La rabbia delle pecorelle è feroce. La fine ingloriosa, incarcerato dai «suoi frati», «dopo misera vita si crede che egli morisse», sottolinea lo sdegnoso distacco di Pampinea dal suo personaggio. Eppure la novella è piacevole, la trovata di Frate Alberto di fingere il proprio corpo temporaneamente posseduto dall’agnolo Gabriello per poter possedere madonna Lisetta, nella sua spudoratezza, è di un’audacia geniale. «Filostrato, udita la fine del novellar di Pampinea, sovra se stesso alquanto stette e poi disse verso di lei: – Un poco di buono e che mi piacque fu nella fine della vostra novella; ma troppo più vi fu innanzi a quella da ridere, il che avrei voluto che stato non vi fosse […]». Il malinconico Filostrato riprende, certo, Pampinea per coerenza alla sua personalità di personaggio e, in quanto re, al tema lacrimevole della giornata. Ma Boccaccio, attraverso lui, vuole richiamare il lettore. Si ride con frate Alberto, che «molte volte la notte volò senza ali, di che [Lisetta] forte si chiamò per contenta», si può indugiare sul vigore di «frate Alberto bello uomo del corpo e robusto» e l’avvenenza di Lisetta «che era fresca e morbida», si sorride del marito che non è all’altezza di arcangiolesche giaciture, ma non bisogna dimenticare che stiamo assistendo all’accoppiamento di un malfattore e di una scema. Un malfattore che raggiunge il suo scopo attraverso una «fama di santità» addirittura «troppo maggior che mai non fu di san Francesco ad Ascesi». Se maledetti ipocriti sono creduti santi, la responsabilità è degli uomini che credono alle apparenze: frate Alberto «quando celebrava, se da molti veduto era, piagneva la passione del Salvatore, sì come colui al quale poco costavano le lagrime quando le volea.» Sa «li viniziani adescare» «colle sue prediche e le sue lagrime» e così acquista potere e ricchezza: «quasi d’ogni testamento che vi si faceva era fedecommessario e depositario, e guardatore di denari di molti, confessore e consigliatore della maggior parte degli uomini e delle donne […]». Pampinea ci mette in guardia, sta a noi cogliere l’exemplum. La malvagia natura di Berto non è modificabile, è soltanto colorita da un saio, il travestimento è però evidente: la trasformazione di Berto in Alberto è solo una figura etimologica.

Il filo rosso

L’intervento diretto dell’Autore, all’inizio della Quarta Giornata, ribadisce che amare le donne significa agire secondo Natura, dunque non può essere peccato, e non è questo il peccato dei frati. Nella quarta novella della Prima Giornata, narrata da Dioneo, l’incipit sottolinea la falsa opinione degli uomini: «Fu in Lunigiana […] un monistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane […]». In quel luogo di santità, la regola aurea del si fa, ma non si dice viene declinata dall’abate come «peccato celato è mezzo perdonato», se «nol saprà persona mai». L’abate, «vecchio», è l’ipocrita disarmato dalla «malizia» del giovane, che scampa alla meritata punizione, inducendo il suo superiore alla medesima colpa (con l’unica variatio, forse, della posizione amatoria). Il quieto vivere è garantito dalla cameratesca condivisione maschile: «impostogli di ciò che veduto aveva silenzio». La fama di santità è salva perchè «niuna persona se n’accorse». Ma si «dee credere» che «poi più volte», i due «facesser tornare» «la giovinetta assai bella» «in sul letticello». San Benedetto non aveva certo pensato che così potesse essere interpretato il suo et labora. E si può anche morire se si lavora troppo, come accade (nell’ultima novella, narrata da Dioneo, della Settima Giornata) al senese Tingoccio, il quale «trovando […] nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravvenne», finchè «trapassò di questa vita». Ma la sua morte non è vana, perchè fa sapere all’amico Meuccio che giacere con la comare, fino a scorticarsi, non è peccato. Incontriamo un altro monaco lavoratore, nella terza novella di questa Settima Giornata, la quale, ambientata a Siena, è in dichiarata connessione, grazie al luogo e alla comare, e grazie al riferimento esplicito che ne fa il novellatore Dioneo, alla decima (quella di Tingoccio). Dobbiamo, dunque, leggere la novella consapevoli e sicuri che, per Boccaccio, amare le donne non è il peccato dei frati. Quella che è continuamente morsa è la loro volontà di apparire santi, la loro ipocrita colpevolizzazione dei laici, meno peccatori di loro, non essendo stretti da brucianti e volontari vincoli. Elissa racconta «che in Siena fu già un giovane assai leggiadro e d’orrevole famiglia», Rinaldo, che per parlare «senza sospetto» con «una sua vicina […] assai bella», di cui è «sommamente» innamorato, «accontatosi col marito di lei», ne diviene compare. Ma non ottiene ciò che desidera «quantunque […] non dispiacesse alla donna». Poco dopo, non si sa per quale ragione, «Rinaldo si fece frate». Per un po’ mette da parte l’amore per la comare e «altre sue vanità», ma poi, «senza lasciar l’abito, se le riprese», riabbracciando la sua consueta vita da «leggiadretto», fondata sull’apparire. A questo punto, Elissa pronuncia una vera e propria invettiva contro tutti i frati: «Ma che dico io di frate Rinaldo nostro di cui parliamo? Quali son quegli che così non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo!» E via di seguito, fino a ricordare la povertà di San Domenico e San Francesco, che non avevano «quattro cappe per uno». Del resto, frate Rinaldo la sua cappa non vede l’ora di togliersela: «– Madonna, qualora io avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate.» Appunto, un uomo come gli altri, non un santo. Chi dice di esserlo o chi fa credere di esserlo è un fratacchione. Come quell’abate benedettino, indefesso lavoratore anch’egli, di cui parla Lauretta nell’ottava novella della Terza Giornata. Gran dissimulatore: «in ogni cosa era santissimo fuor che nell’opera delle femine; e questo sapeva sì cautamente fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma nè suspicava, perchè santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa» e inesausto consolatore della moglie di Ferondo, «uomo materiale e grosso», «mentecatto» e «geloso», al quale è fatto credere di trovarsi in Purgatorio, dopo essere morto, mentre per dieci mesi l’abate si gode la di lui moglie. Salvo poi risuscitarlo, quando la donna rimane incinta, per fare in tempo a dare il nome di Benedetto al figlio dell’abate, in onore del santo fondatore dell’ordine a cui egli appartiene. Vicende, quelle apparenti – morte e resurrezione – che «acrebbero senza fine la fama della santità dello abate» e così «la donna contenta», «quando acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava». Rispetto ai lavoratori, appaiono peggiori i mendicanti, i frati minori, rappresentanti della malvagia ipocresia de’ religiosi, come, nella Prima Giornata, recita la rubrica della sesta novella, narrata da Emilia. Qui «un frate minore inquisitore», «santissimo», piuttosto che a san Francesco, si dimostra «divoto di San Giovanni Boccadoro», della cui «grascia» si vuole «ugner le mani (la quale molto giova alle infermità delle pestilenziose avarizie de’ chierici, e spezialmente de’ frati minori, che denari non osan toccare)». La «brodaiola ipocresia» viene confusa, suscitando il riso tra gli astanti,«con un bel detto» dalla vittima, «buono uomo», per quanto «assai più ricco di denari che di senno». «La viziosa e lorda vita dei chierici» è ulteriormente condannata da Filostrato, novellatore successivo ad Emilia, il quale osserva, prima di iniziare il suo racconto, che però è fin troppo facile «il ferire un segno che mai non si muti» (un bersaglio immobile). L’ «ipocrita carità de’ frati, che quello danno a’ poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via» è «di cattività fermo segno», perciò è facile «mordere», «riprendere» la fratesca avidità.  Ma come abbiamo visto accadere con frate Alberto, anche i minori non disdegnano il lavoro, quando ne hanno l’opportunità, specie se possono contemporaneamente prendersi gioco del marito gonzo. Lo era Ferondo, che credeva di essere morto e di trovarsi in purgatorio, lo è frate Puccio, terziario, «bizzocco di quegli di san Francesco», che, «faccendo penitenzia sè credette mettere in paradiso», mentre don Felice, «conventuale di san Brancazio», «giovane e bello», «d’aguto ingegno e di profonda scienza», sazia «a letto»  le troppo «lunghe diete» della moglie (quarta novella della Terza Giornata).

Non mi occuperò di frate Cipolla, questuante dell’ordine di sant’Antonio (ordine, peraltro, condannato da Gregorio IX nel 1240), celeberrimo per la fantasmagorica e spericolata arte oratoria, ma bisognerà, pure, fare un cenno, prima di concludere, alle boccacesche suore e ai preti frateschi.

Protagonista di «un amorazzo contadino», che bene si destreggia tra «tabarro», «mortaio» e «pestello», è il prete di Varlungo (seconda novella dell’Ottava Giornata), il quale è utile al nostro discorso per quanto dice, in premessa, il narratore Panfilo. La «novelletta» è «contro a coloro li quali continuamente n’offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a’ preti», banditori di una crociata «sopra le nostre mogli», che vogliono «metter sotto», cosa che «i secolari cattivelli non possono a loro fare». La chiave di lettura è esplicita: i religiosi, in quanto uomini, non sono diversi dai laici, i quali, quasi sempre, risultano da loro offesi. Il «frutto» da «cogliere» dalla novella è, perciò, come «a’ preti non sia sempre ogni cosa da credere». Lo dimostra la decima novella della Nona Giornata, la cui protagonista, comar Gemmata, con la sua mancanza di discrezione e di moderazione, ribadisce che credere a ciò che dicono i preti non sortisce alcun benefico e prodigioso effetto. La propria condizione di indigenza non può essere modificata. Nessun incantamento può garantire la metamorfosi. Il  povero, ignorante e superstizioso, se «grossetto» non si emanciperà mai dal suo stato. Al massimo può provocare il risveglio del «piuolo col quale egli [donno Gianni, il prete mercatante incantatore] piantava gli uomini». Stupida lei che gli offre il «solco», secondo la usuale metafora agricola. Stupido lui, il marito gonzo, a «sollicitar» il prete, il quale, in verità, «s’ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza», ma infine cede alla tentazione.

E non bisogna fidarsi neanche degli eremiti, che troppo bene sanno «rimettere il diavolo», se «per superbia levasse il capo», «in inferno» (decima novella della Terza Giornata), come scopre la «semplicissima» Alibech, la quale, servendo Dio, assiste al prodigio della «resurrezion della carne».

Ma se gli uomini non sono santi, le monache non sono femine «di pietra». Lo sa, «per lo suo avvedimento», Masetto da Lamporecchio, di cui parla Filostrato nella prima novella della Terza Giornata. Sono sempre le parole del narratore che ci forniscono la chiave di lettura, secondo le intenzioni dell’autore. Filostrato afferma che non si può pretendere dagli altri ciò di cui non si è capaci, dunque è stolto (e ipocrita) turbarsi, ascoltando «de’ feminili appetiti» delle monache, «come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso». Al contrario, suggerisce Filostrato, il delitto contro la Natura, di cui parla Boccaccio nei suoi interventi all’inizio della IV Giornata e nella Conclusione, è l’astinenza, è la coercizione verginale. Masetto è un formidabile «lavoratore della terra», nel senso decameroniano, che abbiamo imparato a riconoscere grazie ai benedettini e a Tingoccio. L’insistito poliptoto del verbo «lavorare», la presenza dell’ «orto», la fama di santità del monastero, la discrezione della badessa, il presunto miracolo, sono tutti elementi che consentono di intrecciare fitti richiami interni e di attraversare, senza distruggere, la compattezza del libro. Nella Nona Giornata, Elissa, dunque, non ha bisogno di preamboli per raccontare la seconda novella: ormai il lettore avveduto, come si pretende che sia quello del Decameron, ha inteso. Con richiami precisi alla quarta novella della Prima Giornata (e, ovviamente, non solo), qui si racconta «di un famosissimo monistero di santità e religione», di una giovane monaca che si sollazza con il suo giovane amante, di una badessa – «madonna Usimbalda» – «buona e santa donna secondo la opinione delle donne monache e di chiunque la conoscea», di ipocriti rimproveri e di minacce. Ma, infine, la badessa disarmata afferma la verità: «impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere». E chi accusa gli altri di peccare lo fa soltanto perché non ne ha la capacità o la possibilità: è invidioso.

Nella Conclusione dell’Autore, Boccaccio, con sprezzante ironia, si difende dagli ipocriti e dagli ignoranti (invidiosi entrambi) e si chiede perché si dovrebbe dire «che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de’ frati?». Boccaccio afferma, orgogliosamente, di occuparsi di ciò che è, non di ciò che dovrebbe essere.

Ma se i religiosi sono così lussuriosi, avidi, invidiosi, golosi, fraudolenti perché essere fedeli alla chiesa in cui quotidianamente sputano? Se la vita «scelerata e lorda de’ chierici» indurrebbe più facilmente un cristiano a farsi giudeo, che un giudeo a farsi cristiano, se questa è la verità (come storicamente ci è dato sapere), perché non abbandonare la fede? La risposta Boccaccio la fornisce nella seconda novella della Prima Giornata. E non è un caso che, al fonte battesimale, ad Abraam venga imposto il nome Giovanni: grazia di Dio. Ciò che dice Abraam lo scrive Giovanni.

Conclusione provvisoria

La pandemia del 2020 ha evocato la peste del 1348, probabilmente per quel principio di banalizzazione dominante di cui si diceva prima. Nulla di male se un fatto suscita ricordi scolastici e se Boccaccio è andato a braccetto con Manzoni e Camus in nome dell’analogia. Tuttavia, trattare a scuola da intellettuali i temi, per far crescere i giovani che ci sono affidati, è un compito di civiltà a cui noi insegnanti non possiamo sottrarci. Anche se non è previsto dalle Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica.

Boccaccio è attuale perché si scaglia senza paura contro l’ipocrisia, malattia molto più resistente della peste. Avere Boccaccio nel nostro spazio significa avere la capacità di ridere e di vivere anche quando sembra che tutto sia perduto. Averlo come consolatore può aiutare a credere che sia possibile una nuova società di giovani capaci di governarsi ragionevolmente. E, poi, basta aprire il libro per scoprire molte altre ragioni per cui vale la pena leggere mille e una notte il Decameron.

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