Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

Con la pubblicazione dei Poems (1941-2020) Gallery Press ha di recente messo a disposizione dei lettori l’intera opera del poeta irlandese Derek Mahon, comprensiva delle raccolte del nuovo millennio, come Harbour Lights (2005). Nel 2021 inoltre è uscita postuma la sorprendente Washing Up, definita da John Banville, “ultima splendida messe”. Poems è un vero e proprio Collected, che il poeta ha fatto in tempo a curare apportando, come era suo costume, revisioni e tagli. È da quest’ultima pubblicazione, attenendoci alle revisioni dell’autore, che proponiamo nella traduzione di Giovanni Pillonca alcuni componimenti sperando così di offrire un’idea della statura del poeta e di quanto prezioso sia il suo lascito. Il traduttore ha inoltre redatto, per il nostro blog, una nota introduttiva utile a orientare la lettura dei testi di Derek Mahon.


Di Giovanni Pillonca

È uscito pochi mesi fa l’ultimo collected di Derek Mahon – The Poems (1961- 2020), Gallery Press, 2021 – una selezione, accompagnata da revisioni, che il poeta è riuscito a portare a termine qualche settimana prima della morte, avvenuta a ottobre del 2020. Il libro comprende, quindi, anche l’inaspettata,“trionfale fioritura”, secondo Paul Batchelor, delle raccolte del nuovo millennio da Harbour Lights (2005), al postumo Washing Up (2020), definito da John Banville, “ultima splendida messe”.

Derek Mahon è una delle tre “corone” della poesia irlandese del secondo Novecento, le altre due essendo rappresentate da Séamus Heaney (scomparso nel 2013) e Michael Longley, di cui si segnala, in italiano, Angel Hill, (a cura di Paolo Febbraro, Elliot 2021). Poeti formatisi nell’Ulster del secondo dopoguerra, legati sin dagli esordi da una profonda amicizia e principali artefici di una stagione straordinaria della storia culturale d’Irlanda. Figure di massimo rilievo, è opportuno rimarcarlo, anche nel più ampio scenario della poesia di lingua inglese.

Derek Mahon, è l’autore della poesia più recitata e ritrasmessa in Irlanda durante la pandemia, “Everything is going to be all right”. La si menziona perché si tratta di un componimento che offre un’originale e illuminante via di accesso alla complessa e variegata arte del poeta e alla profonda ironia e autoironia da cui tale arte risulta segnata. La poesia nasceva, infatti, come ha messo in rilievo Paul Muldoon,[1] quale amara constatazione della brutta piega presa dagli eventi, divenuti incontrollabili, delle uncivil wars dell’Ulster, allora in pieno corso.

Muldoon ricostruisce, da un lato, la situazione in cui versava l’Ulster e lo stesso Mahon all’epoca della composizione della poesia – 1977 – e, dall’altro, l’inverosimile precedente cui Mahon si ispirò e non solo per il titolo. Writer-in-residence all’Università dell’Ulster a Coleraine, egli stava allora cercando di liberarsi da una grave forma di alcolismo, mentre nella provincia era in pieno corso la campagna dell’IRA e con essa uccisioni (295 nel ’76 e 111 nel ’77) e attentati cui rispondevano con altrettanta ferocia le squadre lealiste. Non si capirebbero dunque quei versi “Ci saranno morti, ci saranno morti/ ma non c’è bisogno di parlarne ora” se non collocandoli nella temperie in cui nascevano. Quell’invito alla speranza, poi, contenuto nel titolo e nel verso finale – “Tutto andrà bene” – non è altro che la citazione del ritornello di una canzone di Bob Marley, “Three little birds” uscita proprio in quell’anno nell’album Exodus. Come ricorda Muldoon, Marley scrisse la canzone dopo essere scampato a un attentato in Giamaica. Questo doppio riferimento, alle morti in casa e a quella tentata nei confronti di Marley, conferma, secondo Muldoon, che “per quanto comprensibile sia il nostro desiderio di una poesia che produca ciò che potremmo definire un “punch corroborante”, tale desiderio tradisce un fraintendimento della funzione dell’arte e, soprattutto, una profonda incapacità di riconoscerne l’ironia.” Ironia nel suo senso antico, letterale del termine, antifrastico: non tutto andrà bene, insomma e, sulle morti, bisognerà di necessità tornare.

E, tuttavia, a conferma che il processo di interpretazione non si arresta mai, la ricostruzione di Muldoon sembrerebbe indirettamente e anticipatamente sconfessata dal poeta stesso che, in conversazione con Eamon Grennan all’inizio degli anni ’90, sosteneva: “ogni poesia (…) possiede la nozione, pertinente alla sfera religiosa, dell’arte come consolazione, la convinzione che “tutto andrà bene”.

Si cita l’intervista con Grennan anche perché Mahon vi offre una sua rarissima e per questo preziosa definizione di una delle funzioni cardinali della poesia. Egli lo fa rifiutando la famosa affermazione di Auden, il quale nell’elegia in morte di Yeats aveva dichiarato: “La poesia non fa accadere nulla” (“Poetry makes nothing happen”). Secondo Mahon, invece, la poesia ha la fondamentale funzione di “educare l’immaginazione”, favorendo in tal modo il miglioramento della qualità della cultura e portando le persone a interagire meglio”. Mahon si dichiara, in questo, vicino a Shelley proprio dove il poeta inglese afferma: “L’immaginazione è il grande strumento della morale (…) la poesia contribuisce a questo scopo agendo sopra questa causa”. “La poesia – aggiunge Mahon – come in generale l’arte, educa l’immaginazione, la alimenta e rafforza, a tal punto da accrescere, anche se in modo infinitesimale, la quantità di bene e saggezza presente nel mondo”. Perché si possa parlare di poesia, come si legge in “Working Conditions”, è necessario che i versi contribuiscano /per un urlo o per un sussurro al totale della saggezza” del mondo.

Sempre Paul Muldoon, commentando la scomparsa del collega e amico, ci offre altri elementi essenziali per la comprensione della poesia di Mahon. Scrive Muldoon: “Derek Mahon è stato l’improbabile poeta laureato della classe operaia protestante di Nord Belfast, le cui esistenze egli seppe rappresentare con la precisione e l’intensità dei pittori olandesi.” È importante sottolineare la provenienza di Mahon, la classe operaia protestante di Belfast. Unica città dell’Irlanda toccata dalla Rivoluzione industriale, Belfast si presenta come un luogo in profonda dissonanza con il quadro pastorale che si associa in automatico all’Irlanda. Mahon stesso, lamentando la mancata inclusione dei quartieri operai e dei cantieri navali di Belfast, teneva a ribadire che essi facevano parte a pieno titolo dell’immaginario irlandese. Nei cantieri navali aveva lavorato il padre mentre la madre era stata impiegata nell’altro polo industriale della città, l’industria tessile. Quanto alla precisione e all’intensità, citate da Muldoon, esse sono tratti distintivi dell’arte di Mahon, maestro nell’elaborare versi contrassegnati da una loro impeccabile eleganza e complessità formali, diremmo yeatsiane – W.B. Yeats è il poeta all’origine della vocazione di Mahon – all’altezza delle questioni e dei pensieri che li innervavano e a cui davano espressione artistica.

 Il riferimento ai pittori olandesi rimanda a una delle poesie più note del poeta, “Cortili di Delft”, che sarebbe errato ridurre a una, per quanto raffinata, ecfrasi della famosa serie di dipinti di Pieter De Hooch dedicata ai cortili delle case di Delft. La poesia è, infatti, una meditazione sulla storia e in particolare sugli intricati fili che legano l’Olanda del Seicento alla storia dell’Ulster, anche a quella del Novecento con le conseguenti ricadute sui destini e percorsi individuali nel qui e ora. Quei cortili, quelle case, posseggono un’immanenza e un rapporto con la formazione del poeta e con la comunità di appartenenza, la classe operaia protestante di Belfast appunto, perché l’Olanda di De Hooch è il paese da cui sarebbe venuto Guglielmo d’Orange, che sconfiggendo Giacomo II nella battaglia del Boyne nel 1690, a una trentina d’anni dalla composizione del quadro, segnerà per più di tre secoli la conferma del dominio inglese e protestante sulla cattolica Irlanda. È per questa ragione che con improvvisa distorsione temporale, ma con innegabile necessità artistica, nella strofa finale il quadro e i suoi ambienti secenteschi si fondono con gli interni operai di Nord Belfast del secondo dopogerra, in cui è cresciuto il poeta, collocando quei quartieri e quella realtà non soltanto nell’immaginario irlandese ma in quello della sanguinosa storia europea:

Vissi lì da ragazzo e conosco il barbaglio / Del carbone nella rimessa, la luce tremolante / Del tardo pomeriggio che dà forma al tavolo d’abete,/Il soffitto cullato in un cucchiaio lucente./ Devo essere lì, nascosto in una stanza,/ un bimbo strambo con l’estro dei versi, / mentre i compagni caparbi sognano fuoco e spade/ sull’arido veldt e tra i ginestroni inzuppati di pioggia.

Basta un termine, quel veldt dell’ultimo verso, afrikaans per campo, a evocare direttamente il Sudafrica dei Boeri e i disastri del colonialismo (risale al 1652 la fondazione della colonia del Capo da parte delle Compagnia Olandese delle Indie Orientali) , processo in piena espansione ai tempi di De Hooch. Disastri segnati anche dalla Riforma protestante (i Boeri si vantavano di tenere in una mano il fucile e nell’altra la Bibbia), in cui si riconoscono gli Unionisti e i Lealisti dell’Ulster. La deriva coloniale era direttamente evocata nell’ultima strofa che il poeta decise di tagliare e mai più inserire nelle successive versioni incluse nelle varie edizioni di Selected e Collected. In essa si prefigurava lo spargersi “come olio ed inchiostro/ della luce pallida di quella città provinciale/ sull’ancora imprecisa tela/ del mondo alla parete / punendo la natura nel nome di Dio.”

Le poesie che Mahon dedica ai dipinti e alle fotografie oltre che nascere da un suo proprio e deciso interesse artistico, sono occasioni di meditazione, operazione questa che, come nella poeta più amata, Elizabeth Bishop, si basa sulla pratica dell’osservazione attenta di quanto ci circonda – dagli interni domestici al mondo naturale, ai familiari, agli amici – e in particolare sull’ attenzione prestata a quelli che Mahon definisce i fenomeni muti. Da questa pratica, nascono pensieri e versi, anzi questi ultimi, i versi, non si danno senza il continuo esercizio della riflessione. Essa può avere origine nei luoghi più improbabili: la cucina della nonna (“Sestina”) o la costa e l’oceano della Nuova Scozia (“At the Fishhouses”) per la Bishop, per citare due dei suoi componimenti più noti, o per Mahon, il quadro del già citato Courtyards in Delft, o il capanno abbandonato di “A Disused Shed in Co. Wexford”), come recita il titolo della poesia più celebrata di Mahon, secondo John Banville “la poesia più bella scritta in Irlanda dalla morte di Yeats”.

Per reggere questa sfida, chi scrive versi deve possedere una padronanza assoluta dello strumento espressivo dal punto di vista formale e stilistico, sostenere e superare la resistenza del mezzo, come avviene con gradualità inavvertibile nei componimenti più riusciti, in cui si supera la soglia tra il visibile degli oggetti descritti e la percezione della realtà misteriosa e inconoscibile di cui questi oggetti sono portatori o evocatori. È il momento in cui si rileva tutto il dolore e l’angoscia racchiusi ad esempio nell’interno domestico della bambina e della nonna, nella “Sestina” della Bishop, o, per Mahon, quello in cui i visitatori irrompono nel capanno abbandonato illuminando le anime perdute e dimenticate dalla storia.

Oltre che della tradizione letteraria di lingua inglese, e di quanto gli arrivava in traduzione soprattutto nel periodo di formazione (da Cavafis a Seferis, da Basho a Li Po), Mahon era un profondo conoscitore del patrimonio culturale e artistico europeo, a partire dagli amati autori francesi (da Montaigne a Jaccottet, di cui pubblicò un Selected in inglese) e con una non superficiale conoscenza della poesia italiana e non solo di quella del Novecento: il suo Roman Script (che come tutte le poesie citate è contenuto in questi Poems) si apre con una citazione da La religione del mio tempo di Pasolini  (“Nei rifiuti del mondo nasce un mondo nuovo”) cui sono dedicate tre sezioni del poemetto che si chiude sorprendentemente con la riscrittura di un sonetto di Metastasio. In Adaptations (2013), troviamo versioni da Ariosto, Michelangelo e Luzi. Invitato a leggere i suoi versi e le sue traduzioni dall’italiano all’Istituto di cultura di Dublino nel 1986, Mahon scelse uno stralcio da Le ceneri di Gramsci (poi incluso nei Collected del 1999 e ora in Adaptations) e poesie di Pavese, Montale e Fortini.

Quanto sopra per affermare che l’achievement di Mahon, così come risalta dalla lettura dei versi contenuti in questi Poems, opera di sessanta anni di produzione poetica e saggistica di valore assoluto, si colloca con decisione all’interno di una tradizione letteraria altissima andando ad occupare un posto di primo piano sia nel canone della poesia irlandese contemporanea sia in quello transnazionale della poesia in lingua inglese.


[1] Il saggio di Muldoon è contenuto in Autumn Skies,uscito sempre per Gallery Press in contemporanea ai Poems. Pensato per celebrare l’ottantesimo compleanno del poeta è divenuto in seguito “garland” postuma di amici e colleghi (tra i quali, oltre a Muldoon, John Banville e Colm Toibin).

A Disused Shed in Co. Wexford
Let them not forget us, the weak souls among the asphodels –
Seferis, Mythistorema
(for J. G. Farrell)
.
Un capanno abbandonato nella contea di Wexford
Che non ci dimentichino, siamo le anime deboli tra gli asfodeli – Seferis, Mythistorema
(per J.G.Farrell)
.
Even now there are places where a thought might grow —
Peruvian mines, worked out and abandoned
To a slow clock of condensation,
An echo trapped for ever, and a flutter
Of wildflowers in the lift-shaft,
Indian compounds where the wind dances
And a door bangs with diminished confidence,
Lime crevices behind rippling rain barrels,
Dog corners for bone burials;
And in a disused shed in Co. Wexford,
.
Ci sono luoghi proprio ora  in cui forse vive un pensiero –
miniere in Perù svuotate e abbandonate
al ritmo lento della condensazione,
un’eco ingabbiata per sempre, e un fremito
di fiori selvatici nel pozzo del montacarichi,
contrade in India dove il vento danza
e una porta sbatte con sminuita baldanza,
crepe verdognole dietro fusti d’acqua increspata
angoli dove i cani sotterrano ossi;
ed in un capanno abbandonato nella contea di Wexford,
.
Deep in the grounds of a burnt-out hotel,
Among the bathtubs and the washbasins
A thousand mushrooms crowd to a keyhole.
This is the one star in their firmament
Or frames a star within a star.
What should they do there but desire?
So many days beyond the rhododendrons
With the world waltzing in its bowl of cloud,
They have learnt patience and silence
Listening to the rooks querulous in the high wood.
.
in fondo al parco di un albergo in cenere
tra vasche da bagno e  lavandini,
un migliaio di funghi circonda il buco d’una serratura.
E’ l’unica stella nel loro firmamento
o incornicia una stella entro una stella.
Che altro gli resta se non il desiderio?
Un’ infinità di giorni aldilà dei rododendri
con il valzer del mondo nella sua coppa di nubi,
hanno appreso il silenzio e la pazienza
ascoltando i corvi queruli nel bosco.
.
They have been waiting for us in a foetor
Of vegetable sweat since civil war days,
Since the gravel-crunching, interminable departure
Of the expropriated mycologist.
He never came back, and light since then
Is a keyhole rusting gently after rain.
Spiders have spun, flies dusted to mildew
And once a day, perhaps, they have heard something —
A trickle of masonry, a shout from the blue
Or a lorry changing gear at the end of the lane.
.
Ci aspettavano dalla guerra civile
in un fetore di sudore vegetale,
dal calpestio sulla ghiaia alla partenza
interminabile dello spossessato micologo.
Non è mai tornato, e da allora la luce
è una toppa che si ossida lenta dopo la pioggia.
Ragni hanno tessuto, mosche sono ammuffite in  polvere
e forse una volta al giorno hanno udito qualcosa –
lo sfaldarsi dei muri, un grido dall’azzurro
o un camion  cambiare marcia in fondo al vicolo.
.
There have been deaths, the pale flesh flaking
Into the earth that nourished it;
And nightmares, born of these and the grim
Dominion of stale air and rank moisture.
Those nearest the door grow strong —
‘Elbow room! Elbow room!’
The rest, dim in a twilight of crumbling
Utensils and broken pitchers, groaning
For their deliverance, have been so long
Expectant that there is left only the posture.
.
Morti ci sono state, fiocchi di carne spenta
nella terra che li nutriva;  e incubi
per questo e il dominio cupo
dell’aria guasta, dell’umidore rancido.
quelli presso la porta si rafforzano –
“Fate largo! Fate largo!”
Gli altri, indistinti, in un crepuscolo
di attrezzi fatiscenti e di brocche rotte, gemendo
per essere salvati, hanno atteso così a lungo
che ne è rimasta soltanto la postura.
A half century, without visitors, in the dark —
Poor preparation for the cracking lock
And creak of hinges; magi, moonmen,
Powdery prisoners of the old regime,
Web-throated, stalked like triffids, racked by drought
And insomnia, only the ghost of a scream
At the flash-bulb firing-squad we wake them with
Shows there is life yet in their feverish forms.
Grown beyond nature now, soft food for worms,
They lift frail heads in gravity and good faith.
 
They are begging us, you see, in their wordless way,
To do something, to speak on their behalf
Or at least not to close the door again.
Lost people of Treblinka and Pompeii!
‘Save us, save us,’ they seem to say,
‘Let the god not abandon us
Who have come so far in darkness and in pain.
We too had our lives to live.
You with your light meter and relaxed itinerary,
Let not our naive labours have been in vain!
 
Camus in Ulster
 
Deprived though we were of your climatic privileges
And raised in a northern land of rain and haze
We too knew the cherished foe, the blaze
Of headlights on a coast road, the cicadas
Chattering like watches in our sodden hedges;
Yet never imagined the plague to come,
So long had it slept there in the mind –
The police charge and the stricken home,
An old blues number playing to the plague wind
 
Everything is Going to be All Right
 
How should I not be glad to contemplate
the clouds clearing beyond the dormer window
 and a high tide reflected on the ceiling
There will be dying, there will be dying,
but there is no need to go into that.
The poems flow from the hand unbidden
and the hidden source is the watchful heart.
The sun rises in spite of everything
and the far cities are beautiful and bright.
I lie here in a riot of sunlight
watching the day break and the clouds flying.
Everything is going to be all right.
Mezzo secolo al buio, senza visite –
del tutto impreparati allo scatto del lucchetto
al cigolio dei cardini: magi, zingari,
prigionieri polverosi del vecchio regime,
dalle gole palmate, gli steli trifidi, tormentati
dalla sete e l’insonnia, solo l’ombra d’un grido
mostra al lampo da plotone d’esecuzione con cui
li risvegliamo che ancora c’è vita in quelle forme febbrili.
Cresciuti oltre misura ora, molle cibo per vermi
levano i capi gracili, austeri e in buona fede.
 
Ci supplicano, vedete, nel loro modo muto
di fare qualcosa, di intercedere per loro
o almeno di non richiudere la porta.
Gente perduta di Treblinka e Pompei!
“Salvateci, salvateci”, sembrano dire,
“Fate che il dio non ci abbandoni, noi
che siamo giunti qui nell’oscurità e nel dolore.
Avevamo anche noi una vita da vivere.
Voi, con il vostro esposimetro e il percorso piano,
non frustrate i nostri sforzi ingenui!”
 
Camus in Ulster
 
Benché fossimo sprovvisti dei tuoi privilegi climatici,
cresciuti al nord  in un paese di piogge e brume
conoscevamo anche noi il nemico prezioso, il fuoco
dei fari su una litoranea, il chiacchierio delle cicale
come sentinelle sulle siepi fradice;
ma mai avremmo immaginato la calamità incombente,
per tanto tempo in sonno nella nostra mente –
la carica della polizia, la casa scossa,
la musica di un vecchio blues nel vento della peste.
 
Andrà tutto bene
 
Perché non dovrei essere lieto di contemplare
dall’abbaino le nuvole che diradano
e l’alta marea riflessa sul soffitto?
Ci saranno morti, ci saranno morti,
ma non dobbiamo discuterne ora.
I versi scorrono liberi dalla mano,
loro fonte nascosta il cuore vigile;
il sole sorge nonostante tutto
e belle e vivaci sono le città lontane.
Disteso qui in un tripudio di luce
osservo l’alba, le nuvole in fuga.
Andrà tutto bene.

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Roberto Contu

Editore

G.B. Palumbo Editore