Dividere e organizzare. Riflessioni sull’assunzione e sulla carriera dei docenti
Il decreto sulle nuove norme di reclutamento e di progressione stipendiale dei docenti viaggia veloce, grazie alle modalità tipiche del governo in carica: progetti calati dall’alto, senza consultare seriamente le categorie professionali interessate; indifferenza rispetto alle obiezioni di associazioni e sindacati non schierati a favore delle “innovazioni”; confronto assente o ridotto al minimo nelle sedi istituzionali.
Poiché però le norme ipotizzate impatterebbero con intensità notevole sulla qualità della vita delle persone che insegnano e della comunità scolastica, è importante discuterne con franchezza e senza preconcetti. A questo scopo, propongo alcune considerazioni preliminari, a metà fra la reazione istintiva e il ragionamento.
Orgoglio e pregiudizi
Sono considerazioni dettate dall’affermazione di un senso di orgoglio personale e di categoria, da una parte; dall’altra, esprimono la volontà di contrastare un quadro di pregiudizi che viziano in partenza l’impianto di questo decreto.
L’orgoglio intellettuale e professionale deriva dalla consapevolezza di essere ormai da molti anni sia formatore che formato: non saprei infatti elencare il numero di corsi, sperimentazioni, progetti ai quali ho preso parte con entusiasmo e profitto, talvolta con il ruolo di studente, altre volte con quello di insegnante. Non saprei enumerare volti e voci di colleghe e colleghi colti e preparati che ho incontrato, in entrambi i ruoli. Né il valore vitale che per me rivestono le esperienze vissute nella sezione didattica della mia associazione disciplinare (l’Associazione Degli Italianisti), o in luoghi di cultura e ricerca come la redazione di questo blog. Voglio dire, in poche parole, che la parola “formazione” la vivo, come migliaia di colleghe e colleghi, ogni singolo istante di ogni singolo giorno del percorso culturale e umano nella scuola: lungi da me, quindi, ogni ripugnanza all’idea di dare forma più precisa e strutturata a questo percorso, soprattutto pensando ai giovani insegnanti.
Tuttavia, proprio la profondità dell’esperienza spinge a diffidare di elefantiaci progetti teorici: in essi tutto sembra perfetto e definito se lo si guarda da vicino, nelle singole parti che li compongono. Ma se si indirizza lo sguardo ai principi che ispirano l’azione legislativa emergono invece pregiudizi, semplificazioni concettuali e tesi ideologiche affermate come verità indiscutibili. Alcune, in particolare, permeano nel profondo il testo del decreto e le avvisaglie del dibattito che potrebbe seguirne l’iter parlamentare. La prima “verità” è che il passato sia vecchio e stantio e che chi, in qualche modo o misura, ne difende aspetti significativi sia un conservatore ottuso: il testo è letteralmente pervaso dalla retorica dell’innovazione, sempre associata a valori di apertura, positività, miglioramento. A chi lo legge, si chiede implicitamente di aderire a una visione in cui la chiusura, il negativo e il peggio appartengono a un passato da superare. La seconda “verità” è che la chiave di volta del cambiamento sia l’organizzazione del sistema, non la cultura o la sensibilità di chi lo abita. La terza, evidente in alcune reazioni piccate alle prime critiche, è che chi si oppone lo faccia in nome di non meglio identificati interessi corporativi, per difendere i supposti vantaggi che deriverebbero dal mantenimento di un modello in cui la formazione è un’opportunità, non vincolata a un progressivo avanzamento nell’organizzazione.
Organizzare e premiare
Mi sembra importante soffermarsi prima di tutto sulla seconda “verità”: che al centro del rinnovamento debba essere posta l’organizzazione del sistema.
Se c’è infatti un aspetto delle norme proposte che viene messo in assoluto rilievo è la serie di organismi e procedure che lo renderebbero effettivo. Il primato dell’organizzazione sistemica si concretizza in nuove istituzioni e gruppi di potere, o nella ridefinizione dei compiti di figure esistenti: la Scuola di Alta Formazione, con il relativo Direttivo e i Comitati (i cui ruoli apicali saranno rivestiti da persone scelte con amplissima discrezionalità, da parte del Ministero); gli organismi universitari e interuniversitari, cui si affida il compito di attuare i principi alla base della norma; le figure intermedie cui, nelle singole scuole, è affidato il compito di organizzare le attività legate alla promozione e alla valutazione dei percorsi di formazione; i comitati di valutazione, cui spetteranno compiti di consulenza all’atto di immissione in ruolo (l’anno di prova si conclude con un non meglio definito test somministrato dal dirigente) e di giudizio, quando con scadenza almeno triennale si valuterà, attraverso l’immancabile test, la qualità degli apprendimenti dei docenti, già misurata con verifiche intermedie annuali. Fra gli indicatori privilegiati, in questo percorso di continue verifiche e certificazioni delle competenze del docente in servizio, occuperanno una posizione privilegiata gli esiti dei suoi studenti, monitorati costantemente.
L’esperienza degli ultimi quindici anni insegna quale prezzo si deve pagare a questo primato burocratico, che di volta in volta si ripropone identico sotto le mentite spoglie di riforme grandi o piccole: il progressivo spostamento dell’attenzione della comunità e di buona parte dei singoli che la costituiscono dagli interrogativi e dai problemi culturali posti dalle discipline di insegnamento ai dubbi e alle questioni organizzative poste dalle nuove modalità, strutture, tecniche e formati introdotti dalla legge. La prima conseguenza dell’approvazione di queste norme sarebbe dunque il rafforzamento di una logica già molto diffusa nelle scuole, che considera centrali le domande su come fare le cose, non quelle su che cosa fare o perché farlo. E che impegna, con frequenza costante, i singoli docenti e le istituzioni, a redigere, valutare integrare e rivedere Piani e Offerte formative.
Le conseguenze di queste logiche – è sempre l’esperienza ad insegnarcelo – sono sempre le stesse: incremento della competizione e del conflitto all’interno della comunità scolastica; crescita esponenziale dell’individualismo e dell’isolamento, soprattutto delle persone più sensibili; impoverimento culturale nell’insegnamento delle materie scolastiche.
Una domanda su organizzazione, tecnologia, sapere
La prima lettura del testo, ostico e scritto male, come ogni norma italiana che si rispetti, pone due domande.
La prima ha natura epistemologica e culturale: è accettabile che si marginalizzino temi, argomenti e problemi posti dalle materie di studio in modo così sfacciato?
Piuttosto evidente già negli articoli della proposta sul reclutamento dei docenti, la marginalità dei saperi disciplinari si palesa nell’Allegato A, che fissa i contenuti minimi, l’articolazione e i vincoli dei percorsi di formazione e di progressione stipendiale. Vi si considerano infatti quasi esclusivamente competenze organizzative, metodologiche, tecnologiche e pedagogiche. Quando si elencano (alla lettera c) i dieci ambiti tematici al cui interno si potrà scegliere di indirizzare ciascun segmento delle proprie attività formative, le discipline compaiono fugacemente al primo posto (come “approfondimento dei contenuti specifici” di ciascuna materia), per essere poi sommerse da un mare magnum di “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei”, teoria e pratica della governance della scuola, “leadership educativa”, formazione di ”staff e figure di sistema”, “strategie di orientamento formativo e lavorativo”, “introduzione ai profili applicativi al sistema nazionale di valutazione”, “tecniche della didattica digitale”.
L’ultimo punto – l’innovazione tecnologica nell’insegnamento/ apprendimento – ricorre con insistenza ossessiva in tutte le pagine del documento; dai suoi estensori, le tecniche del digitale sono evidentemente considerate sinonimo di miglioramento e crescita. Non si tengono in alcun conto non solo le critiche avanzate da molti dopo l’esperienza della didattica digitale (più o meno integrata), ma soprattutto il fatto che gran parte del percorso formativo che si realizza nelle scuole è costituito da esperienze che poco hanno a che fare con la strumentazione a disposizione di chi insegna e di chi impara: la cura, la relazione umana, l’efficacia della comunicazione e dello scambio di informazioni e emozioni. Nulla di tutto questo, in un documento in cui lingua (inglese) e tecnologia sono sinonimi di comunicazione e efficienza.
Del resto, il contesto culturale e politico che fa da sfondo a questa proposta è definito chiaramente al comma 3 del primo articolo, quando il legislatore afferma di voler creare un “sistema integrato, coerente con le finalità di innovazione del lavoro pubblico e coesione sociale, volto a metodologie didattiche innovative e a competenze linguistiche e digitali”.
In quest’ambito rientra, ad esempio, la contestata scelta di affidare la prima fortissima selezione, nei recenti concorsi di abilitazione all’insegnamento, a prove con quiz a risposta multipla. Alla base di essa, l’idea che tutto ciò che è computer based sia di per sé oggettivo e equo, più di quanto non lo sarebbero correzioni affidate a temibili soggetti umani; naturalmente, che le domande siano scritte da esseri umani (spesso, piuttosto male) o che i temi siano in larga misura estranei alla preparazione disciplinare, non sono considerate obiezioni degne di nota. Come non è considerata rilevante la clamorosa contraddizione fra le modalità di selezione e l’obiettivo della selezione stessa: il ricorso a quesiti nozionistici e logiche di pura convergenza cognitiva, per scegliere i migliori docenti di una scuola che dovrebbe superare ogni possibile nozionismo e preparare a un mondo che premia la divergenza intellettuale e la soggettività critica.
Una domanda sulla libertà
Una seconda domanda posta dalla lettura è etica: fino a che punto noi insegnanti saremo disposti a renderci complici di questo attacco frontale alla nostra comunità, pur così sgangherata e indebolita da anni di frustrazioni e privazioni di diverso genere?
Con la scaltrezza divisiva tipica dei tecnocrati, infatti, il disegno legislativo propone come gesto di libertà e di inclusione la scelta di rinunciare a difendere diritti condivisi: dà per acquisita un’opportunità di distinguersi come singolo individuo, in cambio della rinuncia a rivendicare una comune dignità per la categoria, professionale e ideale, alla quale si appartiene. Non a caso, quindi, i riferimenti alla contrattazione nazionale sono provvisori e in forma sospensiva: la formula magica è “nelle more dell’adeguamento del contratto”. Così, nelle more dell’adeguamento del contratto, la falange dei nuovi docenti (costretta a farlo da subito) e quella dei migliori docenti in servizio, che sceglierà di formarsi, comincerà intanto ad avere un orario settimanale di 20 ore (nelle bozze precedenti erano 24), 2 delle quali retribuite in modo forfettario ricorrendo al fondo per il miglioramento dell’offerta formativa. In cambio, però, di un deciso incremento nel punteggio ai fini della graduatoria interna, dei trasferimenti, della mobilità professionale. Impossibile non vedere, dietro questi congegni, un attacco diretto alle organizzazioni sindacali e all’istituto giuridico della contrattazione nazionale, sistematicamente eluso e ignorato dagli ultimi governi.
La domanda etica nasce anche dal clamoroso fiorire del mercato della formazione. Basta affacciarsi su un qualsiasi social per verificare la frequenza e l’intensità con cui chi insegna si vede rivolte offerte speciali di acquisto. Si tratta in genere di pacchetti formativi che rispondono esattamente alle logiche sin qui esaminate: poco o niente sui contenuti disciplinari, tutto o quasi su organizzazione, metodi, tecniche, didattica aumentata, mentoring, coaching. Di quest’offerta, il decreto sacralizza mediante l’obbligo esteso a tutti i docenti l’uso delle tecnologie digitali, la cui padronanza è considerata requisito indispensabile per insegnare.
Colpisce inoltre la velocità con cui il mercato si adegua alle proposte legislative, che si tratti delle soft skills, del numero di CFU indispensabili per sostenere un concorso o dei punti necessari a scalare la graduatoria interna: una simile sincronia fa pensare che i disegni di legge non siano frutto di ascolto, riflessione e confronto trasparente con chi ogni giorno vive e lavora nelle scuole, ma della ricezione di idee elaborate in luoghi diversi, che gli attuali vertici istituzionali considerano, per motivi politici-economici e non culturali, validi a prescindere.
Contro queste logiche e questi interessi, per la scuola della Costituzione, bisognerà lottare.
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Grazie all’estensore di questa critica serrata. Lottare, è il verbo. Lo dovrebbero capire anche i sindacati di base e non.