Il Medioevo di Tonino Guerra e Luigi Malerba
Di Salvatore Ritrovato è appena uscito il volume Antieroi e uomini liberi. Quattro passi fra Medioevo e letteratura, (Quodlibet, collana “Elements”, Macerata 2021). Pubblichiamo qui con alcuni tagli e per gentile concessione dell’autore e dell’editore il capitolo Antidotum desperationis. Il Medioevo di Guerra e Malerba, pp. 37-46.
Temo di non sbagliare dicendo che della saga di Millemosche, inventata e scritta da Tonino Guerra e Luigi Malerba, si stia quasi perdendo memoria. I suoi sette volumi, pubblicati da Bompiani fra il giugno 1969 e l’ottobre 1974, ben rilegati in copertina rigida onde permettere al lettore una fruizione attenta non solo del testo ma anche delle splendide illustrazioni di Adriano Zannino, sembrano essere irreperibili da anni, come se essi appartenessero a una zona in ombra nell’opera dei suoi autori. Neanche il suo rilancio nella collana “Narratori moderni per la scuola”, in due comodi tomi dal memorabile titolo Storie dell’anno mille, con un numero ridotto di illustrazioni, presso lo stesso Bompiani, usciti nel 1973 e nel 1974, e ripubblicati in seconda edizione nel 1981, è servito a molto, se non a lasciare forse nel cuore di qualche studente di quegli anni il ricordo di questa curiosa epopea post-medievale. Non credo che, a questa sfortuna, abbia contribuito il fatto che il racconto letterario non sia nato prima di quello ideato e scritto nel 1969 a quattro mani, per il film-sceneggiato della Rai dal titolo Storie dell’anno mille, regia di Franco Indovina (con un ragguardevole cast: Franco Parenti, Carmelo Bene, Giancarlo Dettori, Folco Lulli ecc.). Sia Guerra sia Malerba avevano saputo ottimamente combinare, fino a quel momento, la loro vocazione letteraria con il mestiere di sceneggiatori firmando alcuni importanti lavori. Il testo, terminato nel 1969, arriverà sul piccolo schermo solo nel 1973, programmato fra il 18 gennaio e il 15 febbraio, per un totale di sei puntate di complessive 5 ore e mezza, senza riscuotere molto successo; intanto aveva già visto una riduzione cinematografica nel 1971, Tre nel mille, di 99 minuti. Allo stato attuale della documentazione d’archivio, ancora in via di esplorazione e catalogazione, è prematuro domandarsi se sia nato prima il soggetto cinematografico o l’idea di una stesura narrativa, dei sette brevi romanzi di Millemosche. Sicuramente, quando la stesura della sceneggiatura per la televisione era già pronta, nel 1969, il ciclo dei romanzi non era ancora terminato (1969-1973); e non è difficile rilevare come le due modalità discorsive, cioè della scrittura per il cinema e della scrittura letteraria, restino affatto distinte, come dimostrano alcuni episodi in cui il regista adopera sapientemente il montaggio alternato per mettere in scena episodi concomitanti, aumentando in tal modo il fattore suspense nello spettatore, là dove nel romanzo la narrazione si sviluppa in maniera lineare.
Epopea, ho detto, ma dovrei dire anti-epopea, perché sia la visione televisiva dei pochi che ancora la ricordano, sia, per quanto mi riguarda, l’impatto di quella lettura scolastica proponevano un Medioevo secondo un basso-corporeo bachtiniano […], ancorché Bachtin fosse ancora poco noto in Italia. È un Medioevo che ha come protagonisti un cavaliere senza cavallo, il sopracitato Millemosche (Fortunato nel film, che rievoca il protagonista del primo romanzo di Tonino Guerra, La storia di Fortunato, 1952) e due mentecatti, Pannocchia e Carestia, sciocchi, sempre affamati, bestemmiatori, perseguitati dalla famigerata dea sbendata detta sfiga. Non credo però che la saga di Millemosche sia stata escogitata per incantare un pubblico di pigri spettatori serotini, o di adolescenti con smania di avventure: l’idea di proporla agli studenti è venuta in seguito, e in tale ottica l’edizione scolastica rivela un taglio nella parte di Millemosche innamorato, con la censura senza appello delle pp. 25-32 e 47-72, in cui il cavaliere incontra la bella Menegota, e i tre disquisiscono sulle virtù delle donne.
Al di là di questi dettagli, qual è l’istanza della saga? Credo che, per comprenderla, sia importante guardare a una tradizione in cui immaginario letterario e cinematografico collaborano ad un esperimento artistico mai prima tentato, nel tentativo di leggere un’epoca storica come emblematica della condizione umana, da un lato rovesciando, in tacita polemica, l’accomodante immagine tràdita dal romanticismo di un Medioevo matrice di tracimante orgoglio nazionale, in direzione di una più complessa visione culturale, dall’altra lasciando riemergere il dato incontrovertibile dei bisogni più vili ed elementari dell’uomo, a cominciare dalla sua fame atavica, condita da ferina ferocia e ordinaria prevaricazione, così come prescrive una vicenda priva di ogni sovrasenso. Ma proprio nella visione di un’epoca venata da quotidiana follia, Tonino Guerra e Luigi Malerba intuiscono l’originaria freschezza del Medioevo, la sua necessaria “anti-modernità” (che però è solo apparente), componendo, in un affresco avventuroso che vede al centro del racconto tre personaggi disperati, cioè letteralmente senza speranza, le diverse sollecitazioni che diramano sia dall’albero ormai spoglio del poema eroicomico pulciano, passando – via Ruzante – per la preistoria del romanzo europeo, tra i sempre-affamati personaggi della saga rabelaisiana e i sublimi digiuni del Quijote, fino alla ricca produzione narrativa picaresca, sia dall’arbusto intricato di quella letteratura popolare che prova a far sua una visione del vivere, anzi del sopravvivere, in cui prende forma un paradossale formulario di saggezza quotidiana, avallata da triadi comiche, come quella di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, che torna, ribaltando la gerarchia parentale in un’anarchia amicale, simile alla terna protagonista del Morgante (Morgante, Margutte e Astarotte) del Pulci, nella triade composta da Millemosche, Pannocchia e Carestia.
Ma abbiamo detto che c’è anche del cinema in questa vicenda che si snoda in un generico alto Medioevo (come provano alcuni riferimenti a Longobardi e Saraceni), sbocconcellato come un fumetto (con i suoi papi, imperatori, cavalieri, frati, bifolchi ecc.), dove conta, più della ricerca di gloria personale o di riconoscimento sociale (riservata ai nobili personaggi dei romanzi cavallereschi, da Chrétien de Troyes in poi), il bisogno di mettere qualcosa nello stomaco. Si tratta dunque di un Medioevo che smarrisce la strada che porta al Sacro Graal, ma ritrova un sentimento vivo del corpo, fra trasgressione gigionesca, scurrile, perfino cinica irrisione. […]
Ma non va neanche dimenticato un curioso antefatto: nel 1955 esce un film indipendente dalla grande e media produzione cinematografica del tempo, che ebbe poco riscontro, forse perché, in anticipo sui tempi, parlava di un Medioevo in chiave anti-eroica (e anti-militarista), Donne e soldati, del 1955, regia di Antonio Marchi e dello stesso Luigi Malerba, il quale firma la sceneggiatura insieme con il poeta, suo conterraneo, Attilio Bertolucci. Il film narra il presunto assedio di un paese ai piedi dell’Appennino emiliano, conteso nel 1423, «così come è stato ricavato dalle memorie di due combattenti delle opposte fazioni» (annunciano le prime sequenze), fra i mercenari teutonici, che indossano elmi con il caratteristico sperone riferibile alla Grande Guerra, e assediati indigeni che si difendono alla bell’e meglio. Spicca però, tra i riferimenti all’attualità, un senso dell’umorismo che si libera nel momento in cui tocca prendere decisioni di strategia militare […] e stabilire le modalità di assedio […]. Quando, terminate anche le scorte personali del castellano, questi si determina a fare una sortita improvvisa contro gli assedianti, concionando i suoi armigeri con un discorso molto persuasivo («Miei soldati e cavalieri, è giunto il momento che non c’è più niente da mangiare… Neanche una crosta di formaggio! Ma anche la fame può essere un’arma, piomberemo sui nemici come dei lupi affamati, e alla fine faremo un banchetto…»), ormai il campo nemico è diventato una tranquilla campagna che i soldati, già provetti contadini, hanno messo a coltura, con l’aiuto clandestino delle donne del castello, in attesa della bella stagione. Nel tener fede al registro anti-eroico della narrazione, saltano le teste del comandante e del castellano che in duello cadono nella fossa degli escrementi, e si realizza il modesto sogno dei giovani che possono coronare il loro amore, con i parenti festanti. Un passaggio importante è alla fine del film: una delle ragazze si lamenta con il suo soldato che a guerra conclusa la abbandonerà per tornarsene a casa, ma questi risponde che ha imparato a coltivare la terra, e ha deciso di restare con lei, da lei. Un messaggio chiaro, di impronta antimilitarista, apertamente pacifista (del 1955 è Tu non uccidere di Don Primo Mazzolari, ormai da tempo in rotta di collisione con le gerarchie ecclesiastiche per le sue prese di posizione a favore dell’obiezione di coscienza e contro l’ideologia della guerra), che punta ai valori fondamentali della vita (l’amore, il lavoro) e al riscatto dalle ingiustizie e dalle divisioni sociali.
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