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diretto da Romano Luperini

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Perché leggere Il turno di Luigi Pirandello

 Giovane d’oro, sì sì, giovane d’oro, Pepè Alletto! – Il Ravì si sarebbe guardato bene dal negarlo; ma quanto a concedergli la mano di Stellina, no via: non voleva che se ne parlasse neanche per ischerzo.

– Ragioniamo!

Gli sarebbe piaciuto maritare la figlia col consenso popolare, come diceva: e andava in giro per la città, fermando amici e conoscenti per averne un parere. Tutti però, sentendo il nome del marito che intendeva dare alla figliuola, strabiliavano, trasecolavano:

– Don Diego Alcozèr?

Il Ravì frenava a stento un moto di stizza, si provava a sorridere e ripeteva, protendendo le mani:

– Aspettate… Ragioniamo!

Ma che ragionare! Alcuni finanche gli domandavano se lo dicesse proprio sul serio:

– Don Diego Alcozèr?

E sbruffavano una risata.

Da costoro il Ravì si allontanava indignato dicendo:

– Scusate tanto, credevo che foste persone ragionevoli.

Perché lui, veramente, ci ragionava su quel partito, ci ragionava con la più profonda convinzione che fosse una fortuna per la figliola. E s’era intestato a persuaderne anche gli altri, quelli almeno che gli permettevano di sfogare l’esasperazione crescente di giorno in giorno. (L. Pirandello, Tutti i romanzi, Newton, 1994; pag. 129)

L’inizio folgorante della vicenda pone il lettore di fronte alla profonda «convinzione» di un padre che pensa al benessere della figlia, ma che, dopo una vita di onesto lavoro, non può maritarla secondo i propri e i di lei desideri.

 Dunque? Dunque bisogna sposare un vecchio, vi dico, se il vecchio è ricco. Di giovani poi, volendo, alla morte del vecchio, ce n’è quanti se ne vuole.

Che c’era da ridere? Parlava da senno, lui! Perché:

– Ragioniamo…

L’assurdità del progetto paterno risponde ad una logica di tipo economico, portata alle estreme conseguenze, e il personaggio, nel suo invito a ragionare, sottolinea la ragione del profitto, che giustifica tutto, anche il cinismo della speculazione e del prestito ad interesse della figlia per ottenere un capitale. Il tempo – non più di Dio, tramontato il medioevo – è il tempo del mercante-usuraio, del borghese che fa affari anche (o sempre?) sulla morte. Il guadagno illuminato dalla ragione diventa ragionevole e tutto diventa accettabile in una stringente catena causalistica: data una premessa ne consegue un effetto, tanto più quando l’effetto economico del profitto borghese – realizzato da un indubitabile buon affare, declinato al femminile come buon matrimonio – sia garantito dall’inderogabile necessità della natura che stabilisce la morte dei vecchi. Leggi naturali e leggi economiche, che erano state il baluardo della narrazione naturalistica e veristica, vengono da Pirandello sconvolte con l’intrusione del caso che manda a monte i piani assennati del padre. All’alba del Novecento (il romanzo esce a Catania per Giannotta nel 1902) la necessità si sgretola sotto i colpi della probabilità: e nel reale comincia a rendersi visibile – agli occhi più acuti degli scrittori di maggior talento – l’accadimento meno probabile. Pirandello comincia a smontare le certezze positivistiche ridendo.

Perché il bozzetto diventa deformazione espressionista

Marcantonio Ravì, bonaccione grasso e grosso, col volto sanguigno tutto raso e un palmo di giogaja sotto il mento, con le gambe che parevan tozze sotto il pancione e che nel camminare andavano in qua e in là faticosamente, sembrava fatto apposta per compensar don Diego fino fino, piccoletto, che gli arrancava accanto con lesti brevi passetti da pernice, tenendo il cappello in mano o sul pomo del bastoncino, come se si compiacesse di mostrar quell’unica e sola ciocca di capelli, ben cresciuta e bagnata in un’acqua d’incerta tinta (quasi color di rosa), la quale rigirata, distribuita chi sa con quanto studio, gli nascondeva il cranio alla meglio. (pagg. 130-1)

I due soci in affari dimostrano nel loro aspetto l’appartenenza a due mondi, più che a due età anagrafiche: il presente greve dell’espansione borghese, il lieve passato nel suo tramonto:

Così, ahimè, s’era ridotto uno dei più irresistibili conquistatori di dame in crinolino del tempo di Ferdinando II delle Due Sicilia: cavaliere compitissimo, spadaccino, ballerino. Né i suoi meriti si restringevano solo qui, nel campo, com’egli diceva, di Venere e di Marte: don Diego parlava il latino speditamente, sapeva a memoria Catullo e la maggior parte delle odi di Orazio […] (pag. 131)

Don Diego, che parla «speditamente» in lingua morta, è il relitto di un mondo scomparso. In lui non c’è l’interesse economico, in nome dell’epicureismo oraziano, persegue uno scandaloso piacere: «Aveva goduto tutta la vita e voleva fino all’ultimo godere». Per questo, coerentemente, non gli importa essere oggetto di scherno o avere in capo corna smisurate che sente crescere fino al cielo, come lui dice. Personaggio tipicamente pirandelliano, con la sua ciocca bagnata in un’acqua d’incerta tinta, sembra essere l’antecedente maschile della celeberrima «vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca» del saggio sull’Umorismo: mentre quella era «tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili», questo indossa «abiti che parevano incignati allora allora» e, invece, «i più recenti contavano per lo meno vent’anni». Entrambi hanno a che fare con un coniuge più giovane: la vecchia signora è umoristica, suscita pietà, nel momento in cui sulla sua condizione si riflette, don Diego Alcozèr è comico, perché Pirandello non ha voluto sviluppare le pieghe umoristiche che il personaggio avrebbe potuto avere: vecchio, solo, ossessionato dalla paura degli spiriti delle sue precedenti mogli che gli fanno capolino dalla porta della stanza da letto, che rassettano la casa, che litigano tra di loro per la supremazia, che rompono i piatti, o che passeggiano per le stanze. Per tenere lontani i paurosi spettri di quattro mogli che si aggirano per casa nella notte, il vedovo, amante della compagnia dei giovani, accetta di buon grado il quinto matrimonio con Stellina, per poi convolare in seste nozze con Tina Mèndola, che era stata la più feroce e scalmanata critica del matrimonio organizzato da Marcantonio Ravì. È l’intervento dell’impetuoso avvocato Ciro Coppa, rimasto  vedovo della sorella di Pepè Alletto, a realizzare, in nome della legge, l’annullamento del matrimonio Alcozèr-Ravì, per poi sposare la riconoscente-intimidita Stellina. Pepè Alletto, che credeva che fosse giunto il suo momento, si deve perciò adattare ad aspettare ancora il suo turno. Finché il caso farà la sua apparizione finale: Ciro Coppa muore. Ma la conclusione non conclude, come la vita

Bisogna aver occhio a tutto, nella vita, ed anche a questo… (pag. 178)

L’ultima frase sembra rimandare a qualcos’altro rispetto alla vicenda fin qui narrata: i tre puntini, però, escludono che esista una fine. Il romanzo rimane aperto. Forse non è ancora arrivato il turno di Pepè.

Perché i nomi sono una trappola

Pirandello sceglie i nomi dei suoi personaggi per stabilire una serie di linee di significato, che, a volte, confermano le attese del lettore: Marcantonio, per esempio, ben si attaglia ad un uomo grande e grosso, oppure donna Bettina è il nome adatto ad una «Povera santa vecchina». Don Diego, nobile e ricco, invece, ha lo stesso nome del nobile e povero fratello di Bianca Trao, il quale, nel Mastro-don Gesualdo, cerca invano di combinare un matrimonio riparatore. Nel medesimo romanzo verghiano incontriamo il barone Mèndola, che ha lo stesso cognome della sesta moglie di don Diego. Pirandello, cioè, sembra ammiccare al lettore, che nelle intemperanze interessate di Tina Mèndola può riconoscere alcuni tratti della sorella di Gesualdo, Speranza. Ma nel giovane in turno il nome è in cortocircuito. Pepè Alletto ha risonanze letterarie: fa venire in mente Papè Satàn, papè Satàn aleppe pronunciato da Pluto nel VII dell’Inferno dove sono gli avari e prodighi, gli iracondi e gli accidiosi, e dove si parla di Fortuna. Il personaggio pirandelliano una qual certa brama di ricchezza certamente ce l’ha, e, oltre ad essere figlio di uno scialacquatore e cognato di un iracondo, sembra essere accidioso in chiave modernista: cioè inetto. Mentre la Fortuna provvidenziale di Dante, in Pirandello si laicizza come bizzarria del caso. Alletto può essere, inoltre, l’indicazione prosaica del luogo adeguato ad un accidioso-inetto (a-letto); oppure si legherebbe  in antitesi al personaggio rimandando ad Aletto, una delle Erinni o Furie che dir si voglia. Pepè, con il suo suono di trombetta, risulta invece semplicemente ridicolo.

Perché questo matrimonio non s’ha da fare

La trama, come di solito accade nei romanzi e nelle commedie di Pirandello, è ricca di fatti, di dettagli, di contorsioni dei personaggi. E certe situazioni sono evidentemente ricorrenti nella produzione pirandelliana. In questo romanzo breve la vicenda si attorciglia intorno al matrimonio, tema centrale di tanta narrativa ottocentesca. Ma nel Turno non abbiamo due fidanzati, né due innamorati, soltanto due promessi sposi per volontà di Marcantonio Ravì, che, come si è messo in testa di dare la figlia a don Diego, così ha deciso che dopo l’auspicata prossima dipartita del vecchio, il beneficiario della ricchezza del defunto e della sua vedova sarebbe stato Pepè Alletto. Ma lui 

Per dir la verità non aveva mai aspirato seriamente alla mano di Stellina; né questa, per altro, aveva mai dato motivo a lui di farsi qualche illusione, più che non ne avesse dato a tant’altri giovanotti che le gironzavano attorno. La ragazza, sì, gli piaceva; ma sapeva pur troppo di non essere in condizione di prender moglie, e neanche ci pensava. (pagg. 133-4)

Come tanti personaggi che saranno costruiti poi da Brancati questo Pepè si affeziona ad un’idea, si fissa in un comportamento ripetitivo. È il prototipo del provinciale inerte, con delle vaghe aspirazioni artistiche che si potrebbero realizzare solo nella grande città e non certo in provincia, da cui tuttavia non ci si può staccare.

Viveva con la madre settantenne, che, nella sua ingenua amorevolezza, si ostinava a trattarlo come quand’aveva dieci anni. […] Lavorare non era il suo forte. Ogni mattina tre ore, per lo meno, davanti allo specchio: abitudine! Che poteva farci? Il bagno, le unghie lunghe da coltivare, poi pettinarsi, raffilarsi la barba, spazzolarsi. E quando alla fine, sul far della sera, usciva di casa, pareva un milordino. (pag. 134)

Per inerzia, esattamente all’opposto della passione romantica o dell’erotismo decadente, Pepè decide di assecondare quel progetto che lo distoglie dai suoi pensieri.

Che gli diceva intanto il Ravì? Che voleva da lui? Evidentemente quel buon uomo sospettava che tra lui e la figlia ci fosse qualche intesa, per la quale ella non volesse acconsentire al matrimonio con l’Alcolzèr. Ebbene perché non lasciarlo in quell’inganno? (pag. 134)

La verità è quella che crediamo. Ma a volte, assecondando l’inganno degli altri, finiamo col credere che sia la verità. Pepè è pronto ad essere personaggio e indossa la sua maschera: non la toglierà più.

Perché a letto si ride

In questa strana storia di non amore, domina invece la gelosia. Tutti gli uomini sono gelosi degli altri uomini e considerano le donne una loro proprietà da custodire, meglio, da tenere sotto chiave. Persino Pepè diventa geloso come si conviene ad un girgentano del secolo decimonono, e  perciò affronta, costretto dal cognato, un duello (come non farà Leone Gala nel Giuoco delle parti) e le minacce di Mauro Salvo, innamorato di Stellina.

Ma una volta sciolto il matrimonio, l’avvocato Coppa (gelosissimo) sposa Stellina, e Pepè e il Ravì si ritrovano, scontenti, a casa di don Diego, a giocare a carte. La situazione comica, sottolineata dal dialogato, raggiunge l’acme quando Pepè Alletto dorme con don Diego «lì, nello stesso letto, ove Stellina aveva dormito», afflitto più che da pensieri amorosi dai pizzicotti di don Diego.

Spesso, durante la notte, angosciato dall’insonnia, parendogli di udir qualche rumore nel silenzio della casa, svegliava Pepè.

– Non mi pizzicate, santo Dio! – gridava questi. – State tranquillo: non dormo! Per la centesima volta vi ripeto che pizzichi non ne voglio: se no, domani notte preparatevi a dormir solo. (pag. 173) 

L’unico turno che pare spetti a Pepè è quello di condividere lo stesso letto di don Diego, in attesa che il suo posto venga preso da un’altra moglie.

Un Pirandello minore rispetto alle sue prove più alte e impegnative, ma certamente anche nel Turno uno straordinario scrittore, che qui si può imparare a conoscere ed amare. Ridendo.

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