Su La poesia in prosa in Italia di Claudia Crocco
Ad aprile è uscito, pubblicato da Carocci, La poesia in prosa in Italia (Dal Novecento a oggi), di Claudia Crocco, un libro denso e dettagliato che ripercorre le tappe più significative di una nuova forma letteraria («e non un genere letterario a sé stante»), «esistita in modo eclettico e intermittente» (p. 46), non particolarmente indagata perché non presenta i caratteri formali della poesia (gli studi teorici, numerosi nel XX secolo, appartengono principalmente all’area anglofona, francese e slava), nata in Francia nella seconda metà dell’Ottocento con Spleen de Paris di Baudelaire, ed emersa in Italia nel Novecento «all’interno di una costellazione di testi più ampia (quella della scrittura breve di ispirazione modernista), in parte appartenente al genere poesia, in parte alla narrativa e alla saggistica» (p. 47). L’obiettivo (raggiunto) non è solo quello di una ricostruzione storica, ma anche di definire le caratteristiche strutturali di un nuovo linguaggio, sperimentale, innovativo, capace di «mettere in mettere in evidenza la precarietà delle definizioni di poesia finora formulate» e di rivelare, dunque, il principio fondativo della sua stessa origine: «la poesia in prosa esiste come autocontestazione della poesia» (citazione tratta da un’intervista a letture.org), ma anche del romanzo.
«Cosa fa sì che un testo in prosa sia considerato poetico?». Confini e obiettivi
Il punto dipartenza del saggio sta nella consapevolezza che è necessario ridefinire il concetto di poesia, dato che questa non può essere banalmente «identificata con l’andare a capo, dunque con l’incolonnamento del verso» (Leopardi già nello Zibaldone contesta questa posizione che definisce «forza dell’assuefazione all’idea di convenienza» che niente ha a che vedere con la «sostanza della poesia, né del suo linguaggio e modo», confessando in una lettera a Monaldo che, per quanto riguarda le Operette morali, l’intenzione è «di far poesia in prosa […], e però seguire ora una mitologia ed ora un’altra, ad arbitrio; come si fa in versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ec.», in Crocco p. 17). Le cose sono cambiate, soprattutto negli ultimi due secoli, ed è chiaro, leggendo l’ultima edizione di La metrica italiana di Beltrami, per cui «versificazione è un concetto tecnico, che riguarda i tipi di discorso dotati di certe caratteristiche formali, mentre “poesia” è un concetto estetico, sentito come diverso da quello di versificazione fin dalle più antiche teorie estetiche che hanno avuto importanza nella cultura occidentale» (Beltrami, 2011, p.13, in Crocco, p. 16). Dunque, cosa definisce la poesia, dato che il verso non è più indispensabile, e non è più un criterio significativo? A questo punto, cosa distingue una poesia in prosa dalla pagina di un racconto breve? Il dubbio nasce, soprattutto, anche considerando la varietà di interpretazioni che è possibile notare nelle antologie dagli anni Settanta in poi:
Scorrendo l’indice di The Prose Poem: An International Anthology (Benedikt, 1976) – una delle poche antologie di poesia internazionale, risalente agli anni Settanta – , si notano due cose interessanti. La prima è che non compare nessun testo di letteratura italiana, nonostante la poesia in prosa, nell’anno in cui viene allestita l’antologia, fosse già diffusa in Italia. La seconda è che vi sono incluse pagine di libri che in italiano sono stati pubblicati in collane di prosa: ad esempio alcuni frammenti di Kafka e certi racconti di Cortazar. Anche leggendo le antologie italiane, d’altronde, si nota qualcosa di simile. In Capitoli, ad esempio, si trovano sia testi che siamo abituati a leggere in antologie di poesie (La notte di Campana) sia brani di narratori (Tozzi, Gadda, Savinio, Valli, Malaparte). Esiste anche il fenomeno inverso: passando al XXI secolo, nell’antologia di Cortellessa sulla prosa italiana, La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999- 2014) (L’Orma, 2014), si trovano testi di Bortolotti, che pubblica prose in collane di poesia ed è stato antologizzato anche in un’antologia di poesia, Poeti italiani degli anni Zero. Gli esordienti del primo decennio, a cura di Vincenzo Ostuni (Ponte Sisto, 2011). Queste differenze nel trattamento della prosa […] pongono il problema dei confini del nostro corpus.
Di conseguenza, Crocco afferma:
Non essendo possibile affidarci solo alle differenze formali -, partiremo da una distinzione pratica: ci sono testi scritti “a partire dalla poesia”, che talvolta assumono l’aspetto della prosa, e altri scritti “a partire dalla prosa”, che cercano di imitare la poesia. In questo libro ci occuperemo di prose scritte a partire dalla poesia: per destinazione editoriale, per tipo di pubblico, e per allusione o il confronto indiretto con il centro di questo genere letterario, cioè la lirica (p.18).
La poesia in prosa di inizio novecento: cinque casi esemplari
L’orientamento seguito tende a costruire una struttura rigorosa che, mentre presenta un ventaglio ampio di possibilità, identifica certi elementi di coerenza, dal punto di vista diacronico ed ermeneutico:
Cercheremo di dare una visione complessiva del fenomeno in Italia, ricostruendo l’origine e rintracciando gli elementi di continuità strutturale in un arco di tempo abbastanza ampio […]. Non ci soffermeremo sui periodi e sugli autori nei quali la poesia in prosa compare soltanto in modo episodico, ma non indica una discontinuità né apre una nuova fase poetica. Per questo motivo non si parlerà delle prose di Montale, né di quelle di Orelli o Caproni. Analogamente, non approfondiremo il fenomeno della prosa d’arte né quello della prosa rondista. La prosa d’arte, infatti, nasce in modo autonomo, e in un contesto più propriamente prosastico: la poeticità dei testi inclusi in questa categoria si gioca soprattutto sul piano formale, e comporta una fissità della struttura. Nelle poesie in prosa che considereremo, invece, la forma è un territorio più mobile, nel quale non ci sono regole prestabilite e non si creano modelli di stile […]. La ricostruzione diacronica sarà confrontata di continuo con l’analisi di alcuni testi esemplari (p.20).
I poeti scelti e analizzati si allontanano dalla forma tradizionale di versificazione proprio nei momenti di ridefinizione dei generi letterari, come accade, all’inizio del Novecento, nel «terremoto psichico» (Magris) della rivoluzione modernista che vede «sfaldarsi l’integrità del soggetto gnoseologico e linguistico», e sfuggono sia al genere della narrativa sia a quello della poetic diction, «cioè dalla grammatica codificata della lingua letteraria, separata dall’uso comune», distanziandosi dalla «specializzazione della poesia in lirica» (p. 39). A fare la differenza, sono «cinque casi esemplari», le cui opere, e la forma in cui sono scritte, non sono state analizzate in dettaglio dalla critica modernista, ma che, come afferma Crocco, veicolano «problemi tipici del modernismo italiano ed europeo» (p.40). Dino Campana, Giovanni Boine, Piero Jahier, Clemente Rebora e Camillo Sbarbaro, dunque, pure nella loro diversità, insieme «attraversano una crisi al tempo stesso epistemologica, estetica e morale» e, nonostante presentino dei punti di contatto con le avanguardie di inizio secolo, non rinunciano tuttavia «alla possibilità della rappresentazione, o alla presenza di un soggetto, per quanto indebolito e scisso» (p.53), distinguendosi per alcuni tratti fondamentali: la «polemica contro il romanzo, per la nascita del verso libero», per una sorta di «ribellione al modello poetico dominante» (p. 20) e, soprattutto, per «l’ibridazione dei generi letterari o artistici diversi» (narrativa, saggistica e poesia), Questo ultimo elemento è particolarmente significativo e «può riguardare i contenuti e le strutture (narrazione, argomentazione, mimesi, trattamento della dimensione temporale) o le forme (lunghezza, organizzazione e ricerca di un ritmo, rapporto con il macrotesto e allusione a una dimensione iconica del testo ecc.» p. 19).
Essi rifuggono dal concetto di «trama» che sembra loro «una sovrastruttura imposta alla vita», e dall’idea che il «mondo» sia una «successione ordinata di cose, di pensieri, di oggetti, di azioni con conclusioni finali» (G. Boine, Un ignoto, 1971, p. 473, in Crocco p. 54), volte a celare, la ricerca spasmodica di un significato e, dunque, l’élan vital. Raccontano, invece, la propria interiorità, «senza servirsi dello schermo costituito dall’intreccio e dai personaggi inventati», e si affidano all’ autobiografia, un’autobiografia intesa nel senso moderno del termine, «vicina al modello dell’artista da giovane rintracciabile in contemporanei esempi europei» che, attraverso la memoria, garantisce «un legame eticamente saldo con il passato». La narrazione della propria nudità, del proprio «travaglio spirituale» (Luperini, in Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura contemporanea, p. 199) viene, quindi, ibridata con la lirica, il genere deputato alla confessione autobiografica, e si costruisce attraverso alcune strategie di scrittura: «scissione del soggetto, mitobiografia, reificazione e autoriflessività», che possono intrecciarsi e convivere all’interno di un’opera. Questa sperimentazione si traduce – prendo in prestito le parole di Contini per Campana, che Crocco cita a p. 95 – in una «visività», ossia «nell’associazione irrazionale di immagini apparentemente slegate, e nelle connessioni simboliche che suggeriscono», e tende a fare coincidere «le unità formali con unità visuali», creando, così, da una parte, «blocchi testuali non interrotti dall’andare a capo obbedendo a leggi esterne, come accade nella poesia in versi; dall’altro, il flusso sintattico viene interrotto artificialmente proprio inserendo alcuni a capo (mentali, vicini alla sintassi del verso libero)» (p. 92), come si può notare in molti Trucioli, ma anche nei frammenti di Boine e di Jahier. In questo modo è possibile raggiungere due effetti: «frammentarietà e compattezza» (p. 93).
Giampiero Neri: un maestro in ombra
Quanto al CAP. 3, l’unico monografico, è motivato da due ragioni: innanzitutto Giampiero Neri è il primo autore del secondo Novecento per il quale la poesia in prosa non è solo una scelta formale, bensì il principio fondativo di una poetica; considerarne in dettaglio le opere, inoltre, permette di notare sia gli elementi di continuità con la poesia del suo secolo, sia il ruolo di archetipo per molti autori successivi. Neri è stato visto spesso come un caso isolato e marginale nella poesia del Novecento, ma in una storia della poesia in prosa italiana assume un ruolo da protagonista, incomprensibile senza nominare le esperienze poetiche che lo precedono e fondamentale per quelle che seguono (p. 21).
Un intero capitolo del libro è dedicato alla svolta poetica di Giampiero Neri che, a distanza di circa sessanta anni dalla rivoluzione modernista, riesce a sviluppare le caratteristiche già presenti nelle opere di Campana, Boine, Sbarbaro, Jahier e Rebora, ampliandone le possibilità, soprattutto in direzione del saggio e della riflessione, dando vita a una delle sperimentazioni più originali (e di difficile definizione, anche a causa della «compresenza, all’interno della sua opera, di logiche del discorso letterario diverse: autobiografia lirica, narrazione breve, aforisma, riflessione morale», p. 138) del secondo Novecento. Nonostante negli anni Settanta circolino soprattutto i nomi di Cosimo Ortesta, Cesare Greppi, Tiziano Rossi e Carlo Bordini, l’opera di Neri sembra avere rappresentato, più che quella degli altri, «un archetipo per la poesia in prosa italiana successiva» (tuttavia, le ascendenze sono piuttosto diverse se si pensa che Neri è quello che ha prestato più attenzione al modernismo inglese (Pound), al poème en prose francese (Rimbaud), alla tradizione della poesia in prosa italiana (Campana) e alle novità del Gruppo 63»). Le parole-chiave, costitutive della poesia di Neri, sono, dunque, le stesse incontrate in precedenza: ibridazione, autobiografia, impersonalità, «l’introduzione di maschere che esprimono aspetti irrisolti o contraddittori dell’autore, la partecipazione straniata della prima persona» (148-149), la frammentarietà di informazioni e di dettagli essenziali irrelati tra di loro, uniti attraverso un operazione di montaggio, per descrivere la precarietà con cui si percepiscono l’esperienza umana e la storia. A questi elementi si aggiungono ulteriori e continui aggiornamenti di identità, le influenze della filosofia morale e storia naturale, che «non sono solo fonti di ispirazione lirica, ma interferiscono con la struttura delle poesie in prosa, talvolta più simili ad aforismi o a frammenti filosofici che non a liriche» (p. 149). Ed, ancora, la poesia in prosa di Neri si nutre di occasioni più recenti: l’école du regard francese, soprattutto nella sua espressione cinematografica, come nel cinema di Resnais, Truffaut e Robbe Grillet, da cui derivano l’impersonalità e l’apparente digressione. Tutto nel tentativo urgente di creare una nuova poesia, non retta dalla forma tradizionale.
La rinascita della poesia in prosa nel XXI secolo
Il quarto capitolo è dedicato al periodo che va dal 1992 in poi, ed è costruito in modo analogo al secondo, dando spazio «a pochi autori esemplari, case studies a tutti gli effetti, piuttosto che presentare una carrellata di nomi» (p.21).
Sono gli anni in cui la poesia in prosa è tornata ad avere una certa popolarità, nella sua declinazione più avanguardista, grazie soprattutto alle opere dei poeti riunite in Prosa in prosa («prima antologia militante a proporre un dibattito sulla poesia in prosa come forma letteraria, ma non fa riferimento alle esperienze italiane precedenti, […]; la poesia come espressione della propria soggettività, formalizzata rifacendosi a una tradizione metrica e stilistica, è un fenomeno superato» p.170) che hanno contribuito a insistere sull’esigenza di ridefinire un filone di sviluppo diverso della lirica del Novecento, soprattutto tramite interventi critici su riviste online e confronti e dibattitti sui social network; ma anche grazie a GAMM (sul sito si legge: «non è una rivista né un editore. _ dà ospitalità alla ricerca, tutto qui. _ bassa fedeltà, bassa risoluzione, frammenti, installazione, non performance, non spettacolo»), a Nazione Indiana, e a slowforward su cui, «tra il 2006-2009, vengono pubblicati testi, saggi critici e traduzioni, fotografie, e-book che propongono e discutono, con grande determinazione e con spregiudicata apertura, nuove sperimentazioni di poesia in prosa» (p. 171). Se questi gruppi continuano a fare la parte del leone, a rimanere meno visibili sono stati altri tipi di poesia in prosa, allo stesso modo interessanti che provengono da esperienze diverse da quelle precedentemente citate, e che rimandano ai modelli della tradizione modernista occidentale, «sperimentati dalla poesia del secondo Novecento – a partire dalla generazione postmontaliana (qui Crocco riprende Frasca (2014) e Scaffai (2014). Tra i tanti nomi più interessanti, ci sono quelli di Antonella Anedda, Mario Benedetti, Carlo Bordini, Guido Mazzoni, e Stefano Dal Bianco, poeti per cui la prosa rappresenta un «tentativo di ammodernamento dell’io lirico», ricorrendo, ancora una volta alla «scissione, autoriflessività, alla presenza di personaggi diversi dall’io» (p.174), all’ibridazione tra generi diversi (ognuno con tempi diversi e con «diverse strategie di presentazione della voce»), sotto la spinta dell’esaurimento del linguaggio delle avanguardie. Tuttavia, rispetto al passato, l’esigenza urgente di questa poesia in prosa è quella di «uscire dal lirismo e di “«sporcarsi”» (p.222) attraverso nuove strategie che tendono a riflettere l’estraneità, la percezione frammentata della propria identità, lo straniamento da se stessi, lo spaesamento, il vuoto e, a tratti, a «mettere a fuoco parti di realtà normalmente irrilevanti che, però, portano a una provvisoria consapevolezza» (come accade per Mazzoni p. 203).
In generale, negli ultimi anni, si è creato un dibattito sempre più ampio e vivace sulla poesia in prosa, sulle possibilità estetiche della poesia nel campo letterario contemporaneo e, in generale, sulla precarietà dei confini tra i vari generi letterari, tra mille supposizioni interpretative e questioni irrisolte. Il libro di Crocco, oltre a riempire una lacuna, sta a documentare, ma anche a legittimare con autorità, una serie di esiti e di soluzioni che costituiscono una salutare rottura e, quindi, la migliore garanzia della ricchezza e della libertà della nostra tradizione lirica. La varietà di proposte e dei punti di vista dei vari autori, che si susseguono nel libro, tende a rafforzare una sensazione di polivalenza e di relatività del reale e dei modi con cui leggerlo.
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