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Alfonsina: la fatica e l’ebbrezza della strada. Sul nuovo romanzo di Simona Baldelli

                                                                                                         A Luciano

È uscito pochi giorni prima dell’avvio del 104^ Giro d’Italia l’ultimo libro di Simona Baldelli, Alfonsina e la strada (Sellerio), dedicato alla ciclista che nel 1924 partecipò a questa competizione, allora soltanto alla sua dodicesima edizione: dunque non sarà casuale se, sul caratteristico sfondo blu della collana  “Il contesto”, spiccano in rosa – colore della maglia del capo classifica, usato per riprendere quello della Gazzetta dello Sport, fondatrice del Giro -gli elementi paratestuali, la fascetta e, contornata dallo stesso colore, una foto d’epoca di Alfonsina in bicicletta.

Il romanzo prende avvio e si conclude nell’arco di un’unica giornata del 1959 quando Alfonsina, all’alba di una domenica mattina, inforca la sua Guzzi 500 per andare a vedere la Tre Valli Varesine e, a sera, fa ritorno a casa. Nell’incipit la protagonista è una donna ancora vitale, nonostante abbia quasi sett’anni; tuttavia non se la sente più di pedalare per coprire la distanza tra Milano e i luoghi della corsa dove immagina di poter rincontrare gli amici di un tempo, tra i quali Fausto Coppi, un Campionissimo ormai al tramonto, “dalla faccia scavata e la fronte larga”. La donna si prepara con calma, accarezzando con gli occhi dalla finestra la luna, verso la quale è stata lanciata l’omonima sonda: nel suo sguardo semplice e curioso si intuisce l’ambiziosa meta che ormai attende l’uomo, la conquista dello spazio. Subito, allora, il pensiero di Alfonsina va alla sfida che lei stessa aveva messo in campo trentacinque anni prima:

[…] il tragitto dalla terra alla luna era di una lunghezza spropositata e non era riuscita a calcolarlo. Per non parlare della fatica necessaria. Madonna santa, addirittura sulla luna. E pensare che a lei era sembrata una cosa immensa passare il valico del Macerone. Buttò un’ultima occhiata alla palla sbilenca e si staccò dalla finestra. C’era tanto da fare prima di partire, non poteva sprecare tempo a fissare il cielo. (S. Baldelli, Alfonsina e la strada, Palermo, Sellerio, 2021, p.13)

Fin dalle prime pagine compare una delle parole chiave del romanzo, fatica: siamo agli albori del ciclismo, quando le corse si svolgevano su strade non asfaltate, tra frequenti forature – a cui spesso i ciclisti facevano fronte con ago e filo – e disagi di ogni tipo:

La fatica. La fatica.

Nessuno ci pensa, alla fatica. Ci sono occhi solo per medaglie e titoli; o le fantasie sui soldi guadagnati, sempre troppo pochi, che vanno via in un lampo. Si discute di applausi, titoli sui giornali, ma si dimentica la fatica. (Ivi, p.11)

Eppure fin dal primo capitolo è evidente che per Alfonsina la bicicletta equivale anche alla scoperta dell’ebbrezza: è il padre a portare a casa un “biciclo” sgangherato, poco più che un rottame cigolante, con il quale spera di spostarsi per trovare più facilmente lavoro e impone un diktat assoluto: nessuno, in famiglia, è autorizzato a usare la sua bicicletta. Ma per Alfonsina la tentazione e l’attrazione sono così forti da spingerla a uscire appena annotta per provarla:

Afferrò il manubrio e spinse a rotta di collo fino all’inizio di una dolce discesa. Fece un salto e slanciò la gamba destra. Era a cavallo! La strada era in pendenza e non aveva bisogno di pedalare, poteva badare a come muovere il corpo senza perdere l’equilibrio. […] La luna scintillava serena, i chiù cantavano sommessi, l’aria le andava incontro con un fruscio e carezzava la pelle. (Ivi, p. 32)

La vicenda, in effetti, si svolge proprio all’insegna dell’inscindibile binomio “fatica e ebbrezza”: da quando, poco più che bambina, vive l’emozione della corsa su un mezzo considerato, al tempo, scandaloso per le donne, non rinuncerà più allo sforzo di spingerlo su strade impervie e dissestate perché il senso di libertà che ne trae è insuperabile; per questo farà di tutto per affermarsi come “corridora” in un mondo ancora pieno di pregiudizi dove viene sbrigativamente giudicata “matta, vacca, logia”.

Il libro può essere ascritto al genere ibrido della biofiction, ossia a “una finzione narrativa, generalmente in prosa, incentrata sulla vita di una persona reale seguita nel suo intero sviluppo oppure ridotta a pochi momenti significativi” (R. Castellana). Infatti, mentre ricostruisce fedelmente la biografia dell’unica donna che ha preso parte a quella che resta la più prestigiosa competizione ciclistica del nostro paese, l’autrice ne restituisce “il mondo possibile” grazie a una serie di dispositivi romanzeschi: ne inventa parole e pensieri, grazie all’onniscienza psichica; ne disloca  gesti e  azioni in una dimensione realistica, pur rompendo l’ordine cronologico degli eventi; sorprende il lettore con la presenza silente ma insistita dei morticini e della famiglia imperiale dei Romanov che, di notte, si assiepano attorno alla protagonista, attendendo di poter vivere “per procura” le avventure che lei stessa affronta:

Alfonsina aveva promesso a lei [la zarina n.d.r.], alle figlie d’alabastro, al piccolo zarevic con la pelle frangibile, allo zar con la barba rossiccia e lo sguardo timido, e ancor prima alle piccole anime di Fossamarcia, di portarli sulla canna della bicicletta, perché vedessero che per tutti c’era una possibilità di bellezza. (Ivi, p. 272)

Quest’ultimo espediente narrativo, ossia la presenza di esseri fantasmatici che accompagnano le vicende dei suoi protagonisti, caratterizza la scrittura di Baldelli fin dal romanzo d’esordio, Evelina e le fate (2013, Giunti) e ritorna, come una sorta di variazione sul tema, a ogni prova narrativa, incrinandone felicemente l’impianto realistico.

Il romanzo, suddiviso in nove capitoli titolati, costringe il lettore a frequenti andirivieni temporali non privi di addentellati con il contesto storico: il viaggio a San Pietroburgo del 1909, con una rappresentanza italiana di ciclisti, la porta a esibirsi davanti allo Zar; tra il 1912 e il ’14 si sposta in una Parigi sfavillante dove diventa una vedette dei velodromi; nel ‘24, infine, durante la partecipazione al Giro, l’uccisione di Matteotti le evita lo sgradito incontro col Duce. Queste schegge di storia contribuiscono a rendere più vivido tanto il ritratto della protagonista quanto quello dei comprimari, tra i quali meritano una menzione Armando Cougnet, organizzatore del Giro d’Italia e suo sostenitore, e Luigi Gilardi, uno dei colleghi che per primo “osa” manifestarle la stima rispetto ai maliziosi e offensivi giudizi di altri.

Se il Giro d’Italia, avvenimento non solo sportivo ma popolare e mitopoetico del primo novecento, è per eccellenza un mito maschile, il romanzo di Alfonsina è anche la narrazione di un confronto fra i sessi. La protagonista sa portare con fatica e ebbrezza nel cuore stesso di questo mito la sua sfida di donna anche grazie al sostegno incondizionato di Luigi Strada, il giovane “dal sorriso tenero e folle” che diventerà suo marito e del quale Alfonsina manterrà il cognome anche dopo le seconde nozze. È lui, infatti, anima creaturale e visionaria, il primo a credere nella possibilità che possa diventare “la regina della pedivella” e a regalarle la sua prima vera bicicletta, una Maino nera e lucida ricordandole – vero e proprio leit-motiv del romanzo –: “come sei bella sulla bicicletta, non scendere mai.”

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