Arboreto salvatico: lo sguardo “ecocritico” di Mario Rigoni Stern
Tra i Cultural Studies si è affermata recentemente l’eco-critica o ecologia letteraria, volta a indagare le trasformazioni e le implicazioni del legame uomo-ambiente in letteratura: dalla seconda metà del XIX secolo, infatti, “il tema acquista una specifica fisionomia, destinata a precisarsi ulteriormente in età contemporanea, per l’urgenza delle stesse questioni ambientali” e per la messa in discussione del paradigma antropocentrico. (N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2017, p. 13)
Tuttavia ci sono scrittori e poeti – basti pensare a alcuni passi delle opere di Carlo Emilio Gadda, di Primo Levi e di Andrea Zanzotto – che hanno anticipato uno “sguardo ecocritico” sul mondo mostrando come l’identità dell’uomo si definisca, si sostanzi, si strutturi proprio grazie al rapporto con la natura, in una relazione reciprocamente necessaria, stratificata nello spazio e nel tempo, ricca di implicazioni ambientali, antropologiche e culturali: insomma “ecologica”, nel senso più ampio del termine.
Questo atteggiamento appare evidente anche in alcune raccolte di racconti di Mario Rigoni Stern, ambientati nell’altipiano dei Sette comuni, fin dalle zone paratestuali. Nel 1980, lo scrittore di Asiago pubblica Uomini, boschi, api: il titolo associa tre esempi di specie viventi la cui sopravvivenza dipende da relazioni precise e da una reciproca osmosi; in effetti, nel linguaggio comune, i rapporti tra i singoli individui che le costituiscono si definiscono rispettivamente società, ecosistema, comunità. L’uomo, dunque, vive nel pieno rispetto della natura quando vi agisce in sinergia: l’esempio massimo di questo felice connubio è rappresentato dal bosco. Per Rigoni Stern, infatti, il bosco ideale non è quello lasciato alla crescita spontanea e disordinata, quanto piuttosto quello “coltivato” dalla mano dell’uomo:
Si sa che la migliore foresta, la più utile all’uomo sotto ogni aspetto, non è la foresta vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e coltivata. Lo dicono da tempo l’esperienza e gli studiosi che tutta la vita hanno dedicato al bosco; e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna appunto tagliare o agevolare lo sviluppo. La foresta ci deve dare legname da opera e da carta, legna per riscaldarci. E anche alberi di natale per ricordare il ritorno del Sole e la nascita di Cristo. (M. Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Torino, Einaudi, 1991, p.14)
Le pagine di Arboreto salvatico (1991) – originale personal essay – sono particolarmente esaustive a indagare un Rigoni Stern “ecocritico”: fin da quelle introduttive, infatti, lo scrittore usa l’espressione “coltivare boschi” che solo in apparenza ha il sapore di un ossimoro, mentre esprime la convinzione profonda che la relazione tra uomo e ambiente si stratifichi nel tempo e abbisogni del costante, rispettoso intervento dell’umano sul naturale. Anzi, laddove questo venga a mancare, si registra inevitabilmente un mutamento nell’equilibrio dell’habitat, come si può leggere nelle pagine dedicate al pino montano:
La mancata utilizzazione da parte dell’uomo di questa specie di pino, fenomeno che si è verificato in questi ultimi cinquant’anni, ha portato un notevole cambiamento non solo del paesaggio ma anche negli habitat della selvaggina, e oggi non è raro trovare a quote insolite famiglie di caprioli mentre, per mancanza di pascolo a loro confacente, si sono fatti più rari i galli di monte e le pernici bianche. (Ivi, pp. 21-22)
Il modo, insomma, in cui Rigoni Stern delinea il suo arboreto prevede una forma di “addomesticamento” del selvatico, come scrive Sara Lucchetta nel suo saggio sullo scrittore veneto (se ne può leggere un estratto qui :
Gli alberi […] sono elementi che facilmente portano con sé significati che vanno al di là delle loro caratteristiche morfologiche e delle loro funzioni biologiche. Quali elementi narrativi, sono per lo scrittore parti di sistemi più complessi, frammenti in grado di illuminare situazioni e scambi. […] stanno in equilibrio tra valore produttivo e valore non produttivo (S. Lucchetta, Dalla Baita al Ciliegio. La montagna nella narrativa di Mario Rigoni Stern, Milano-Udine, Mimesis, 2020, p. 44)
Arboreto salvatico si presenta, dunque, come un catalogo di venti piante in cui mito, credenze religiose e popolari, conoscenze scientifiche, testimonianze storiche, descrizioni paesaggistiche si stratificano e si intrecciano ai ricordi personali.
Così il tasso “era dedicato alle Furie e agli dei dell’Averno; lo troviamo ancora come pianta ornamentale dei cimiteri”, l’impacco delle sue foglie viene ritenuto un ottimo antidoto contro il morso delle vipere e, secondo lo scrittore, coadiuva la muta del piumaggio dei merli che, grazie agli arilli della pianta di cui si nutrono, da marroni diventano neri.
Quest’ultima osservazione sui merli, permette di ricordare il ruolo fondamentale che lo scrittore assegna agli uccelli – altra presenza frequente nei suoi racconti – nell’opera preziosa di rigenerazione degli ecosistemi boschivi. In Alboreto salvatico i tordi e le cesene, ghiotti dei frutti del frassino ne distribuiscono i semi proprio nei boschi dove passano la notte. Il ciliegio selvatico evidenzia fin dal nome botanico – Prunus avium – la sua relazione con gli uccelli:
È stato denominato avium perché quasi tutti gli uccelli sono ghiotti delle sue drupe e anche perché è da loro che viene disseminato su larghe aree: il nòcciolo che ingeriscono con la polpa viene espulso con le feci e cade ai piedi degli alberi dove gli uccelli vanno ad appollaiarsi per dormire la notte o per digerire. (Ivi, p. 101)
Quanto l’uomo si serva degli alberi appare evidente in ogni capitolo: i larici, piante che circondano l’abitazione di Rigoni Stern, sono da sempre impiegati nella costruzione di case e capanne, di architravi e “scandole”; largo e savio uso ne ha fatto la Serenissima Repubblica, regolandone lo sfruttamento tramite un apposito magistrato:
Nell’acqua è immarcescibile e, oltre a costruire le navi, i Veneziani, sopra i pali di larice, hanno edificato chiese e palazzi. Venezia, però, aveva anche regolato con leggi severissime lo sfruttamento delle foreste e a questo scopo, nei primi anni del Cinquecento, aveva nominato uno specifico magistrato. (p. 5-6)
Della betulla, scrive l’autore, da giovane “non capivo la bellezza” e rimpiange che i giovani dell’altipiano abbiano persa l’usanza, a maggio, di porre dei rami appena sbocciati davanti alle porte delle proprie innamorate. E mentre conserva gelosamente – cimelio di gioventù – gli sci ricavati da questo albero snello, Rigoni Stern ne ricorda di passaggio l’uso pragmatico che ne ha visto fare in Russia: “bicchieri, vasi, mestoli, tazze, cucchiai e quelle bellissime scatole laccate e mirabilmente dipinte dai famosi grandi artigiani di Palach” (Ivi, p. 49)
Anche il ciliegio, con i frutti gustosi di cui ancora è ghiotto, suscita in Rigoni Stern ricordi della lontana steppa che l’ha visto sergente: “che senso di primavera hanno saputo donarmi [le ciliegie] in quel gelo fossile quando le bollivo nell’acqua di neve!” (Ivi, p. 100)
Il sapore salvifico delle ciliegie ritrovate in mezzo alla neve sembra offrire la chiave di lettura, preannunciata nel titolo stesso della raccolta, atta a attraversare le pagine di questo “catalogo arboreo”. L’aggettivo “salvatico” infatti non è una semplice ripresa del termine in uso nell’italiano antico quando rimandava a un bosco “silvaticus”, ossia rigoglioso, ricoperto di selve quale può essere quello dell’altipiano che l’autore ben conosce. Più suggestiva appare, piuttosto, l’idea che il termine abbia a che fare con l’etimologia di “salus”, salvezza. Se il bosco che Rigoni Stern ritiene migliore fin dalle prime pagine del libro è quello coltivato dall’uomo, allora quest’ultimo può davvero farne un arboreto “salvatico” nel senso “che salva”, insieme agli alberi, anche se stesso.
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