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diretto da Romano Luperini

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Nello specchio (deformato) della scuola: economia della conoscenza, autonomia e Costituzione. Sul libro del nuovo ministro all’istruzione /2

 La prima parte di questo saggio è uscita l’altroieri.

Fuori dalla retorica: che cosa succede davvero quando l’istruzione viene piegata ai fini economici

Le istituzioni della governance globale dell’istruzione promettono tutte, sempre, sviluppo, efficienza, giustizia. C’è chi ha provato a mettere alla prova le loro affermazioni nel campo delle politiche scolastiche. Antonio Cobalti ha percorso tutta la letteratura a disposizione ed è giunto a conclusioni – espresse cautamente ma non meno inequivocabili – sulla distanza che separa queste affermazioni dalla realtà.[i]

Da alcuni decenni ormai possiamo parlare di una «educazione multilaterale»: non sono più gli stati a decidere le proprie politiche scolastiche, ma quegli organismi che, dietro il paravento del carattere intergovernativo e internazionalista, limitano di fatto il controllo democratico dei popoli: «che sia o meno un’esagerazione, la globalizzazione contribuisce chiaramente a limitare la democrazia, un sistema che ha difficoltà ad affermarsi fuori dai confini nazionali» (Crouch, p. 45). In questa espropriazione sovranazionale e tecnocratica della politica democratica, spiace doverlo dire, l’Unione europea non fa eccezione. Spiace perché so quanto sia rischioso affermarlo in anni di populismo xenofobo e nazionalista. Ma il populismo, con buona pace di Bianchi, nasce soprattutto dallo svuotamento di democrazia sostanziale di cui l’Unione europea è diventata motore ed emblema, non soltanto dal mancato sviluppo economico.[ii]

Vediamo alcuni dei risultati raccolti da Cobalti. Nel corso degli anni ‘90, il Wto tentò un assalto all’istruzione, non riuscito. Attraverso gli accordi commerciali sui servizi, Gats, si cercò di commercializzare, fra gli altri, quel servizio particolare che è l’educazione. I «servizi d’istruzione» avrebbero infatti aperto un campo di guadagno enorme, entrando in concorrenza con l’istruzione pubblica: questi servizi includono la formazione propriamente intesa, ma anche i test di competenze linguistiche e i programmi di valutazione della qualità delle scuole. Questi accordi non sono però stati sottoscritti da molti paesi, compresa l’Unione europea. In questo caso, insomma, la politica è riuscita a frenare l’annessionismo imperialistico dell’economia. Ma è importante notare che ciò è dipeso dall’azione di quei sindacati che la governance globale dell’istruzione vorrebbe ridurre all’angolo (cfr. infra). L’art. 133 del trattato di Nizza sulla politica commerciale comunitaria (2001) escludeva i servizi all’istruzione dalla commercializzazione. Ma nella stesura della Costituzione europea la clausola di esclusione era stata cancellata e solo un’azione lobbistica da parte di un insieme di organizzazioni di insegnanti era riuscita parzialmente a reintrodurla (Cobalti, p. 179).

Ma il caso più istruttivo ai fini della nostra analisi del libro di Bianchi è la Banca mondiale. Quest’ultima è di fatto il primo investitore in istruzione, ma «i [suoi] prestiti […] sono collegati alle idee della banca sull’istruzione, specialmente su come l’istruzione si collega allo sviluppo e alla riduzione della povertà» (P. W. Jones, in Cobalti, 197, corsivo originale). Vale la pena osservare come queste idee siano cambiate nel tempo e perché.

Un documento del 1995, Priorities and Strategies for Education, proponeva sei riforme chiave, che oggi non dovrebbero risultare particolarmente esotiche alle nostre orecchie: 1) maggiore attenzione all’istruzione; 2) ricorso a tecniche econometriche per misurarne il rendimento; 3) sviluppo di abilità generali come linguaggio, matematica, comunicazioni e di atteggiamenti necessari sul posto di lavoro («assente ogni riferimento a materie come storia, letteratura ed arti»); 4) attenzione all’equità intesa come uguaglianza di opportunità educative; 5) coinvolgimento delle famiglie; 6) autonomia delle istituzioni scolastiche e universitarie (Cobalti, pp. 225-226).

In questo progetto, una delle componenti del sistema scolastico da aggirare e scardinare erano gli insegnanti e le loro organizzazioni. La Banca mondiale suggeriva un sistema decentrato per limitare al minimo il potere di sindacati centralizzati, che «possono sovvertire l’istruzione e in certi casi portare alla paralisi politica» (Cobalti, p. 125). Anche il ricorso a «strumenti di valutazione delle scuola (messe a punto da varie organizzazioni internazionali tra cui Banca mondiale, Unesco e Ocse)» può essere usato « in funzione di lotta alle organizzazioni degli insegnanti e alle loro resistenze al cambiamento» (p. 205).

Nel 1995 siamo in piena fase espansiva dell’egemonia neoliberale e l’aggressività è esplicita. Successivamente la strategia diventa più suadente. Nella versione del 1999 del documento «ciò che colpisce immediatamente è il cambiamento di linguaggio […]: la retorica economica è abbandonata quasi completamente in favore di un linguaggio di cura, attento a sentimenti ed emozioni. […] Scopo dell’istruzione è un’economia più produttiva, la coesione sociale, la partecipazione alla società e in ultima analisi una popolazione più sana e felice» (Cobalti, p. 227).

La Banca mondiale si proponeva anche di diventare una «banca della conoscenza»: oltre che finanziamenti per lo sviluppo e l’istruzione, avrebbe dovuto fornire dati a tutti i paesi, essendo in grado di raccoglierne di più precisi e ampi di quanto ciascuno di essi non potesse fare per conto proprio. Troviamo qui la radice storica di quel fenomeno oggi assai diffuso anche in campo scolastico, per il quale massicce campagne di rilevazione degli apprendimenti sembrano essere diventate l’unica fonte di conoscenza valida, di fronte a cui il sapere incapsulato nei contesti dei docenti scompare. Questa governance attraverso i dati è particolarmente insidiosa perché è abile nel presentarsi come scientificamente neutrale e politicamente super partes.

Il libro di Bianchi abbonda di questo tipo di rilevazioni, con le quali si dimostrano fenomeni (dolorosi), ampiamente noti, come l’abbandono scolastico, le disparità negli apprendimenti tra aree geografiche del paese, ecc… Ma è il progetto politico entro il quale si leggono quei dati a fare la differenza: se il quadro di valori è quello del capitale umano, è difficile ricavarne deduzioni non economicistiche. Per Bianchi la scuola italiana deve ricorrere ai risultati nelle prove Invalsi per migliorarsi: ciascun istituto autonomo dimostrerà così il proprio senso di responsabilità.

Nel caso della Banca mondiale, che tipo di sviluppo ha garantito questa svolta verso la «conoscenza» e l’empowerment dei popoli? Nella letteratura citata da Cobalti c’è chi osserva che è fin troppo evidente che si confondesse «la conoscenza col “consenso egemonico […] tra certe élite di esperti appartenenti a burocrazie esperte dominanti, fortemente spinte da interessi politici e con la dominanza dei valori cognitivi di discipline dominanti” [Lera St. Clair]» (Cobalti, p. 209). Inoltre, usare un «nuovo linguaggio di inclusione, trasparenza, partnership e partecipazione della società civile non porta necessariamente ad uno spostamento importante nella politica delle operazioni della banca» (P. W. Jones, in Cobalti, p. 213). Ma, per avvicinarci allo specifico del libro che stiamo analizzando, una economia della conoscenza – nel duplice senso di un’economia fondata sulla conoscenza data dai numeri e di istruzione fondata sullo sviluppo delle skills – ha garantito maggiore giustizia sociale?

Secondo Bonal, mentre l’istruzione è considerata dalla banca [mondiale] come uno strumento per accrescere il capitale umano e portare verso una knowledge-driven global economy, “non ci sono prove che le riforme dell’istruzione incoraggiate dalla Banca mondiale abbiano generato le condizioni necessarie per lo sviluppo dell’istruzione, mentre ci sono prove secondo cui accessi all’istruzione ed eguaglianza delle opportunità educative sono state seriamente compromesse con queste politiche (Cobalti, p. 206).

Autonomia e Costituzione

In linea con un cavallo di battaglia della sinistra riformista degli ultimi tre decenni, Bianchi insiste moltissimo sulle virtù del legame tra scuola e territorio e sulla necessità di portare a termine il percorso dell’autonomia, una parola fin dagli anni Novanta «usata più per le emozioni che suscita che per i fatti che esprime» (Galfré, p. 316).[iii] Il percorso legislativo dell’autonomia scolastica è particolarmente importante perché il suo avvio, appunto negli anni Novanta, coincide con l’imporsi delle politiche neoliberali/neoliberiste. Sono peraltro i partiti di centrosinistra, quelli della “terza via”, a insistere sulla necessità di maggiore autonomia, decentramento, sussidiarietà, deregulation e sul legame tra istruzione e competizione sul mercato globale. Nonostante le lunghe discussioni sulla differenza tra autonomia e privatizzazione, è un dato di fatto che il tema dell’autonomia sia stato affrontato proprio in quella congiuntura storica. Anche se l’argomento della “devoluzione lasciata a metà” è spesso ripetuto, mi pare che siamo oggi nelle condizioni di formulare un giudizio, a più di vent’anni di distanza dall’avvio del processo.

Cobalti ha confrontato l’ampia bibliografia a disposizione per tutto il mondo e conclude che «le migliori prestazioni dei sistemi decentrati sotto forma di più alta qualità dell’insegnamento sono state ipotizzate ma mai provate» (Cobalti, p. 126). Lo studioso, pur distinguendo decentramento/autonomia da privatizzazione – esistono sistemi privatizzati non decentrati e sistemi decentrati non privatizzati – osserva che in molti casi i due processi si sono in realtà intrecciati. Non è un caso. A spingere nella direzione di entrambe – su impulso delle istituzioni della governance globalizzata – giocavano lo screditamento dello Stato burocratizzato novecentesco – sullo sfondo, il Leviatano sovietico che cadeva a pezzi – e l’idea diffusa che la storia fosse finita con la vittoria del sistema capitalista e delle liberaldemocrazie.

Venendo all’Italia, sia una storica come Monica Galfré che una costituzionalista come Roberta Calvano hanno scritto in termini critici del mito taumaturgico dell’autonomia.[iv] Galfré ricorda un dettaglio molto interessante come il fatto che tutte le riforme proposte nel corso del Novecento (a partire da quella Gentile!) si ponessero obiettivi non molto diversi da quelli della riforma Berlinguer: una maggiore flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio.

Al di là della genericità di queste parole d’ordine, l’introduzione dell’autonomia scolastica segna effettivamente una discontinuità netta rispetto al sistema scolastico sancito dalla Costituzione e prima ancora dall’Unità, modificando nella sostanza il suo centralismo, la sua uniformità e anche il suo egualitarismo (Galfré, p. 316).

Anche Calvano, che ricostruisce il percorso dell’autonomia legge per legge, ben oltre gli anni Novanta e fino ai nostri anni, dedica molte pagine ai provvedimenti di quel decennio: «l’autonomia […] si prestava ad avere due facce, come espressione della valorizzazione delle comunità scolastiche, ma anche del decentramento e del progressivo alleggerimento dello Stato dei suoi apparati, in vista di una concezione dei servizi pubblici influenzata dai paradigmi della concorrenza, delle privatizzazioni, in definitiva del mercato» (Calvano, p. 47).

Quella che è stata chiamata la «destatalizzazione del servizio d’istruzione» intende attribuire il dovere dell’istruzione alla «scuola come comunità educante» (Calvano, pp. 50-51, corsivo mio) ed è interessante citare questo passaggio, perché è precisamente l’espressione del ministro Bianchi. Calvano rileva con amara acutezza l’ambiguità della formula, che risale a una concezione di scuola democratica e partecipativa che ha avuto il suo momento d’oro negli anni Settanta, ma che ha subito una torsione semantica profonda nell’immersione del lavacro neoliberista dei tre decenni successivi.

Elencando tutte le forme di autonomia e decentramento che sono state messe in atto, e che a suo giudizio hanno intaccato il quadro stabilito dalla Costituzione per l’istruzione, Calvano ricorda come queste azioni fossero tutte previste da un famoso articolo di Sabino Cassese:

tutti i problemi di cui oggi si discute […] si possono ricollegare alle linee di azione che in un articolo, apparso sul Foro italiano del 1990, venivano individuate come risolutive per la scuola italiana: “riconoscere che l’istruzione, in quanto servizio collettivo pubblico, può essere erogata da istituti autonomi; attribuire agli istituti scolastici non soltanto autonomia didattica, organizzativa ed amministrativa, ma anche contabile e di gestione del personale; spogliare l’apparato centrale di compiti gestionali, attribuendogli funzioni di determinazione di standards e di guidelines e funzioni di valutazione e di audit; sopprimere gli uffici provinciali e sostituirli con uffici di relais con gli istituti scolastici”» (Calvano, p. 89, la citazione da Cassese).

Ma Cassese andava ben oltre, dichiarando a chiare lettere la fine di ogni prerogativa statale nel campo dell’educazione:

col mutare dei rapporti tra Stato e società, e di quello tra scuola e Stato, ci si è andati lentamente rendendo conto del fatto che lo Stato non può essere responsabile dell’istruzione (Cassese, cit. in Calvano, p. 90).

Ma il vero punctum dell’argomentazione di Calvano sta altrove. La sovrapposizione o identificazione di istruzione, educazione e formazione per il lavoro, che va sempre più facendosi senso comune – si ricordi che la Buona scuola parlava della scuola come «avamposto del rilancio del Made in Italy» –, è anticostituzionale e sta comprimendo progressivamente gli spazi di libertà della scuola e nella scuola.

Gli interventi normativi degli ultimi decenni [sono andati sempre più] connotando il contenuto del diritto all’istruzione in ragione della ritenuta centralità della formazione professionale. Da questo punto di vista pare essere stato del tutto disatteso il disegno costituzionale che, introducendo espressamente nella distinta sede dell’art. 35, comma 2, la previsione del compito per lo Stato di curare “la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”, la poneva come compito diverso da quello dell’istruzione, disciplinato negli articoli precedenti [il 33 e 34], chiarendone così l’autonomia concettuale in relazione all’attuazione del principio lavoristico.

La chiara distinzione tra ciò che si deve apprendere nella scuola, e più ampiamente la materia dell’istruzione, rispetto alla specificità della formazione professionale è rimarcata dalla collocazione della norma richiamata nel titolo III, dedicato ai rapporti economici, sede distinta quindi rispetto alle altre norme concernenti la “Costituzione scolastica” (ovvero i principi fondamentali e i diritti sull’istruzione), tutte riunite nel titolo II, dedicato ai rapporti etico-sociali. (Calvano, pp. 25-26).

Anche relativamente al ruolo assunto dall’Unione europea nelle politiche scolastiche, il punto di vista della costituzionalista è istruttivo. La strategia di Lisbona ha imposto un «metodo aperto di coordinamento» per portare a progressiva conformazione i sistemi di istruzione. Il metodo, la cui mistificante etichetta è espressione della più pura governance, simulatrice di democrazia in sua assenza, è in realtà «una procedura intergovernativa di soft law» che presenta le proprie raccomandazioni come «”veicoli soft di influenza sovranazionale”, ma rispetto ai quali tuttavia la fissazione di “precisi parametri di riferimento” risulta molto più hard» (Calvano, pp. 95-98). Dal momento che tale metodo non passa dal Parlamento europeo, ma dalla Commissione e dal Consiglio, Calvano rileva in esso un evidente deficit di democraticità, nonostante il quale l’Unione europea, pur non avendo competenze dirette in materia di istruzione, ha potuto influenzare in maniera sistematica i sistemi scolastici degli stati membri, peraltro in seguito a un «significativo appiattimento sulle posizioni assunte dall’OCSE […], viziate da una […] visione esclusivamente mercatistica dell’istruzione, oltre che da una fiducia eccessiva nella validità dello strumento dei test PISA» (Calvano, p. 101).

Conclusioni

La concezione dell’istruzione contenuta nella nostra Costituzione

esclude ogni pretesa a ‘formare’ secondo un certo orientamento ideologico i soggetti cui essa viene impartita, tale da non influire né sulla libertà del singolo nel suo primo orientamento culturale, né a compromettere […] quel connotato di libertà che caratterizza l’insegnamento (G. Lombardi, in Calvano, p. 25).

Il rovesciamento ideologico che è avvenuto in questi anni è più profondo di quanto non siamo in grado di misurare. Se è pur vero che ogni pedagogia è militante, in quanto fondata su una propria visione del mondo e dei compiti dell’educazione, il fatto che la nostra Costituzione ponga l’istruzione entro il quadro di una neutralità ideologica è garanzia di libertà e pluralismo. Legare educazione e capitale umano non è invece un atto neutrale. Massimo Baldacci, che pure difende una concezione non produttivistica di competenza e ammette che esistano alcuni legami (alcuni) tra la sfera dell’istruzione e della produzione, ha però scritto con chiarezza che il neoliberalismo/neoliberismo ingloba in sé una vero e proprio progetto pedagogico, che intende l’uomo come capitale umano per la produzione. Ma occorre scegliere: o mercato o democrazia.[v] Questa pedagogia neoliberale è oggi tanto naturalizzata da essere in grado di presentarsi come ideologicamente neutrale, perciò in sintonia con lo spirito della Costituzione, in ragione del proprio dichiarato pragmatismo e maggior consonanza con le necessità dei tempi. Viceversa, chi difenda la gratuità e indipendenza della sfera della cultura e dell’istruzione dal mercato, è costretto nella posizione difensiva di chi viene dipinto come astratto, nostalgico e avvolto ancora dalle “scorie” del Novecento: in una parola è un “ideologizzato”.

La posta in gioco politica generale è questa definizione di neutralità e di ideologia. La posta in gioco specifica è decidere a quale campo appartenga Patrizio Bianchi: se mettere insieme Costituzione e capitale umano, capitale umano e sviluppo umano, basti per farcelo considerare alternativo al discorso del capitale o se, più semplicemente, non sia soltanto un rappresentante della sua versione meno oltranzista, più temperata, più persuasiva.

[i]     Antonio Cobalti, Globalizzazione e istruzione, Il Mulino, 2006.

[ii]     «L’Unione europea è un goffo pigmeo a paragone con gli agili giganti delle multinazionali. E comunque la sua qualità democratica, anche applicando standard minimi, è scarsa» (Crouch, pp. 37-38). «L’Unione europea sta in realtà elaborando un “mercato delle norme” a misura della mondializzazione, che è la risultanza di costrizioni tecnocratiche» (Denault, p. 143).

[iii]     Monica Galfré, Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento, Carocci, 2017.

[iv]    Di Galfré cfr. in particolare l’ultimo capitolo; Roberta Calvano, Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato, Ediesse, 2019.

[v]     Cfr. Massimo Baldacci, La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, Franco Angeli, 2019.

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