Jacopone da Todi, lo scandalo del Natale
Il conflitto con l’incarnato
L’Amore esmesurato, l’Amore che firisce, l’Amore che annichilisce: l’Amore che inabissa («Iesù, speranza mia, abissame enn amore» – LXXXIX).
È questa la cifra umana sulla quale Jacopone da Todi basa la propria esperienza poetica e di mistico irrisolto in Dio. Un amore incontenibile e incontenuto, corollario diretto dei due temi sui quali si incardina la poesia di Jacopone nelle Laudi: l’evento dell’incarnazione e la passione e morte di Cristo. Se il tema della morte del figlio di Dio, e ancor più del figlio della Mater, trova nella lauda Donna de’ Paradiso l’espressione più compiuta, altrettanto importante, seppure misconosciuto, è l’affrontamento dell’incarnazione celebrata nel Natale. A fronte di laudi note che trattano direttamente il tema come la citata Amore de caritate, è possibile rintracciare nell’intero corpus referti continui sulla natività, che esprimono tutti lo sconcerto per il mistero di un assoluto che si innesta nella storia umana ma che osano anche il conflitto del dubbio e della domanda.
L’amore esmesurante, ineffabile, folle.
Il paradosso dell’infinito che si cala nel finito, nella forma più umile, è anzitutto per Jacopone fonte continua di stupore («Lo celo sì abbandona e per terra sì anda; / ennante sé non manda ricchezza per usare. / En stalla se vòl stare, palazzo abandonato; / seco non n’à menato alcun suo servidore» – LXXXIV), reazione che come spesso accade per l’umbro confina con l’avvertimento dell’insensatezza («Ebrio par diventato o matto senza senno, / lassanno sì gran renno e sì alte ricchezze. / Ma com’è ciò scontrato, de tal mattezza senno?» – LXXXIV). Eppure, è attraverso la percezione violenta dell’evento che spariglia e spacca in due la storia dell’umanità che si origina una prima reazione peculiare nell’esperienza poetica di Jacopone: il canto dell’Amore esmesurato. Porsi a fronte del mistero dell’assoluto, circoscritto nel tempo e nello spazio dell’incarnazione, genera per Jacopone tale inevitabile stato dell’anima ma anche dei sensi. Nei momenti di grazia in cui questa contemplazione esperienziale è permessa, è concessa, è acquistata, la poesia prorompe in quello iubelo de core che cancella il mondo e unisce il mistico e poeta all’amore divino («O iubelo del core, che fai cantar d’amore!» – IX). È una condizione privilegiata, ma che un passo dopo genera conflitto, fino a una frattura tra il contemplante e le sue capacità d’espressione prima, con il resto del mondo poi. Nel primo caso la separazione si declina nella percezione iacoponica del sentimento dell’ineffabilità, del non poter dire (Quanno iubel se scalda, sì fa l’omo cantare; / e la lengua barbaglia e non sa che parlare» – IX). Nel secondo caso, lo iato che patisce il poeta è quello con il mondo e il suo giudizio: un innamorato di Dio, al cospetto dell’ amore incarnato che genera esmesuranza, non può che apparire al resto del mondo come un folle di Dio («Chi non ha costumanza te reputa ’mpazzito, / vedenno esvalïanza com’om ch’è desvanito» – IX). È uno status questo doloroso ma inevitabile per chi vuole accedere al sommo bene: «Chi pro Cristo ne va pazzo, a la gente sì par matto; / chi non à provato el fatto, par che sia for de la via» (IX).
Il primo scandalo dell’incarnazione, del Natale è dunque per Jacopone il paradosso dell’infinito che si cala nel finito: genera esmesuranza d’amore, può o erompere nello iubelo che rischia la paralisi dell’ineffabilità o lo stigma della follia da parte del giudizio del mondo.
Il profondo nulla e un seno
Tale paradosso determina però un prezzo da pagare non solo ad extra, nei termini del non poter dire e dello stigma mondano, ma anche ad intra, nei termini del dolore personale («Amore, Amore, quanto tu me fai, / Amore, Amore, no ‘l pòzzo patere!» – LXXXIX). Il dramma iacoponico risiede nel fatto che, appena al disotto delle vette mistiche, dove tutto è quiete e luminosa contemplazione, il richiamo dell’esmesuranza genera fatica, vuoto, dolore. È la dolorosa bellezza patita da chi in Cristo incarnato ha intravisto per un attimo, un momento, uno spiraglio di quella rivelazione definitiva che mai più lascerà nella quiete («L’Amor m’à preso, non s’accio o’ e’ me sia, / que e’ faccia o dica non pòzzo sentire. / Como smarrito sì vo per la via, / spesso trangoscio per forte languire» – LXXXIX). Se in Donna de paradiso il racconto della passione termina in maniera cupamente non redenta («Che moga figlio e mate d’una morte afferrate, / trovarse abraccecate mat’e figlio impiccato! – LXX ), pure il mistero primario dell’incarnazione può arenarsi nella domanda senza risposta, che anche in questo caso viene esplicitata attraverso il punto di vista della Mater che vive il miracolo affocante di un Dio bambino che succhia dal proprio seno («Co’ non te consumavi, quanno tu li sguardavi, / che Deo ce contemplavi en quella carne velata? / Quann’isso te sogìa, l’amor con’ te facìa, / la smesuranza sia esser da te lattata?» – XXXII).
Il secondo scandalo dell’incarnazione, del Natale è dunque per Jacopone, così come per il dramma della passione, il contatto con un altro dei grandi piedistalli della propria poetica: l’alta nichiltade.
Entr’êllo ‘nfinito
Se già il salmo VIII aveva profetizzato il paradosso dei paradossi («Con la bocca dei bimbi e dei lattanti / affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, / per ridurre al silenzio nemici e ribelli») in Jacopone lo scacco dell’infinito che si cala nel finito infine non può che generare le domande urgenti dell’umano («Sì granne altezza a cusì vil bassezza! / En stalla farte stare, per amor non schifare» – LXXXVI). Eppure, proprio a questo livello, a contatto con l’inerzia e la gravità umana e del mondo, a contatto la percezione profonda dello spettro del nulla, dell’alta nichiltade, Jacopone avanza la propria proposta più originale. Giustamente è stato sottolineato (Canettieri) come l’andamento ondivago della poetica iacoponica giochi perennemente le proprie violente oscillazioni tra i due poli dell’esmesuranza e dell’alta nichiltade. In maniera decisamente moderna Jacopone sembra non trovare mai l’equilibrio di un Francesco che riesce a coinvolgere nel suo canto di lode il creato, anche nella sua espressione più misteriosa che è «sorella morte». Jacopone pare a tratti quasi soccombere a questa trazione generata dai due estremi, ma è evidente come proprio tale tensione sia la fonte sorgiva della propria poesia. Nei casi in cui assistiamo alla rottura dell’equilibrio, e il buio non prende il sopravvento, ci troviamo difronte alla affermazione di come solo e attraverso la porta stretta dell’alta nichiltade sia possibile superare la soglia dello scandalo ed entrare nell’esperienza mistica, o letteralmente, come lo stesso Jacopone afferma, nell’infinito («Alta nichiltade, tuo atto è tanto forte, / che <o>pre tutte le porte, entr’êllo ‘nfinito. / Tu cibi Veretate e nulla timi morte, / dirize cose tòrte, obscuro dai clarito» – LXXXXII). Solo e in virtù di quest’estremo grado della mistica poetica iacoponica, è giustificata la dolcezza lieve con la quale anche l’anima tempestosa del grande umbro canta al suo tempo la tenerezza del Natale. È un canto che vince la pesantezza dell’uomo ferito, lo ristora, è un canto non solo per il suo tempo, ma per ogni uomo di buona volontà, in ogni tempo, pellegrino del mondo e della vita.
Il terzo e ultimo scandalo è dunque imposto dal poeta stesso all’incarnazione stessa. Jacopone spezza la tensione tra infinito e finito, ma lo fa attraverso lo scarto che afferma che solo nel vuoto di senso, nel venerdì santo di Maria o nello squallore della stalla, il paradosso possa essere forzato: nell’intuizione di un superamento già in nuce, nell’attesa di una risposta pienamente avvertita proprio a partire dal limite umano.
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