Un desiderio assoluto di bene – su Kolja di Giulia Corsalini
Non so bene che cosa preparare per l’arrivo dei bambini. Ho controllato nei cassetti se ci sono lenzuola singole per il letto a castello e matrimoniali, per cambiare quelle del letto dove dormo io. Staranno qui due giorni e una notte, ogni fine settimana, per tutto il tempo che saranno ospiti dell’istituto, due mesi, mi pare. Mia moglie al telefono non mi ha spiegato altro. Non so ancora come ci distribuiremo, ma è probabile che lei dorma con le due bambine, e io con il ragazzino nella camera più piccola; o magari i tre fratelli vorranno dormire insieme e allora lei starà con me, nel letto a castello, uno sotto, l’altro sopra. Sarebbe singolare, dopo tanto tempo, sentire il suo respiro e osservare la sua sagoma nell’oscurità, il gesto di scoprirsi, sfilare il pigiama, allacciarsi il reggiseno girandomi le spalle. Nei mesi precedenti il nostro matrimonio, quando mi capitava di dormire lontano e solo, immaginavo ogni volta di dividere la camera con lei; adesso, che intravedo i letti scoperti – e tutto arieggia nelle piccole camere per vincere l’odore dell’umidità e del chiuso, e arriva la brezza marina, stamattina fresca e asciutta come la luce del sole – è un po’ lo stesso: è una nostalgia d’intimità, di “camera in comune”, che da anni avverto pensando a lei, assoluta e indipendente dalle altre implicazioni di una condizione coniugale, o anche solo amorosa.
***
Fra Marche e Ucraina, andata e ritorno
All’inizio dell’estate, mentre l’Italia si leccava le ferite della prima ondata del coronavirus, usciva per Nottetempo il secondo romanzo della scrittrice recanatese Giulia Corsalini: Kolja. Una storia familiare. Il libro, di cui abbiamo appena letto le prime righe, arriva due anni dopo l’esordio, fortunatissimo, con La lettrice di Čechov (pubblicato sempre da Nottetempo, vincitore di diversi premi: Mondello, SuperMondello, Gli Asini, Bergamo). Come nel primo romanzo, in Kolja lo sguardo di Corsalini si rivolge verso est, e in particolare verso l’Ucraina. Così le colline marchigiane da un lato, e i vasti sfondi ucraini dall’altro, diventano i due poli entro i quali si sviluppano storie profonde e delicate, raccontate con empatia e sobrietà, di esseri umani che scoprono, e imparano ad accettare, la bellezza e lo strazio dello stare al mondo.
La lettrice di Čechov era una badante ucraina amante degli studi letterari che, arrivata a Macerata per accudire una vecchia signora, trovava il modo di non tradire la sua vocazione di studiosa. Kolja è invece uno dei tre bambini che, durante un’estate marchigiana, vengono ospitati da una coppia senza figli, di fatto separata già da due anni, che si ritrova proprio per dare un punto di riferimento, almeno provvisorio, ai tre bambini abbandonati, venuti in Italia dal loro internat non lontano da Chernobyl per una “vacanza di risanamento”.
La possibilità di una famiglia
Il sottotitolo di questo secondo romanzo, Una storia familiare, è antifrastico, perché quello che il lettore si trova di fronte è il fallimento di un progetto di famiglia, il fantasma di una coppia amorosa disfatta dalle fragilità dei due protagonisti: Marcello, professore che ha perso il senso stesso dei suoi studi letterari, e Natalia, che voleva farsi scrittrice ma ha fallito per sconforto e sfiducia. Il naufragio delle ambizioni personali ha travolto il progetto comune, e l’irresolutezza esistenziale è diventata paura di mettere al mondo figli. Capita però, fuori tempo massimo, l’occasione di ospitare questi tre bambini, la piccola Katja, il fragile Kolja, e poi Nataša, la più grande; e sarà, naturalmente, l’inizio di un’avventura. Un’avventura lieve, senza colpi di scena, fatta prevalentemente di moti interiori, di piccoli movimenti tellurici nell’animo umano; e, in questa avventura, a crescere di più saranno probabilmente i due protagonisti adulti, ineluttabilmente portati a rivedere le loro priorità e le loro prospettive dalla semplice ed essenziale presenza, nella loro vita, di tre esseri umani portatori e bisognosi di amore e «familiarità».
Assistiamo così alla fugace composizione di una famiglia possibile, fuori da ogni schema, che si raggruma intorno a Kolja e alle sue sorelle; una famiglia fragile, spaesata, dispersa nel tempo e nello spazio (i cinque protagonisti stanno insieme solo per brevi periodi, senza la possibilità di un progetto chiaro, senza certezze: una marca stilistico-tematica di tutto il libro è infatti il dubbio, l’interrogazione, a partire dal “Non so” incipitario); una famiglia costruita su una somma di ferite e di carenze, eppure – questa è la piccola ma essenziale magia del romanzo – che sentiamo vera e unica. Necessaria. Così come è necessario, per Marcello, voce narrante del libro, far reagire i fatti imprevisti che lo coinvolgono con la memoria della sua infanzia felice vissuta con i genitori e il fratello, rievocata in frammenti di balenante verità e bellezza, per certi versi «più veri del vero», scaglie di un «povero paradiso» che brillano come i riflessi del sole sul mare Adriatico, fondale vivido di tante pagine del libro.
Un insperato desiderio di bene
Come l’idea stessa di famiglia, tutto nella prosa di Corsalini, e nella voce di Marcello, è problematico e interrogante; quell’inesorabile grumo di dolore e amore in cui consiste la vita è offerto al lettore con il pudore di chi sa che sta toccando materiali fragilissimi, ma anche con la determinazione di chi conosce per prova che la condizione umana non ammette belletti retorici. Ne viene, a tratti, la sensazione di una «disperazione senza sgomento» di sapore caproniano e, prima ancora, leopardiano (e Leopardi, mai citato espressamente, è l’autore su cui lavora Marcello; e di Leopardi, in particolare del periodo disperato del silenzio poetico fra 1824 e 1828, è stata acutissima studiosa Corsalini). Si veda, per un esempio fra tanti, la calma spietatezza con cui Natalia esamina la condizione sua e di Marcello (corsivo mio):
Purtroppo siamo in trappola, tu e io, ognuno a suo modo. Non so a che altro pensare se non a una malattia, una disfunzione, un meccanismo inceppato, è fin troppo chiaro che l’uomo è fatto per gli altri e dunque qualcosa in noi si è rotto. Abbiamo passato la vita dedicandoci agli studi letterari. È questo? Abbiamo perso da tempo la fede di chi ci ha preceduti e non abbiamo ideali. È questo? Non lo so. Ed è anche abbastanza inutile parlarne.
È inutile parlarne, ma non è inutile raccontare la storia di come questa malattia dell’animo si possa anche curare, forse guarire. E nei romanzi di Corsalini, finora, la cura passa sempre per due strade: l’accettazione delle leggi di «questo universo inesorabile», in primo luogo; e poi l’incontro con l’altro, un incontro che necessita sempre anche di una dislocazione mentale e geografica. Questa volta si tratterà del viaggio di due anime ferite fin dentro un’Ucraina segnata dalla guerra civile, alla ricerca dello scomparso Kolja; un viaggio che offrirà l’occasione, terapeutica sia per i personaggi sia per il lettore, di provare ancora, inaspettatamente, «un desiderio assoluto di bene».
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