Nostalgia dell’apocalisse: il prevedibile Reality di Giuseppe Genna
Il livello del discorso pubblico nella lunga fase di emergenza sanitaria tuttora in corso è stato sin da subito intollerabilmente basso. Non solo il mondo politico e quello giornalistico, da cui ormai è forse ingenuo attendersi qualcosa di buono, si esprimono attraverso un numero limitato di parole d’ordine e frasi fatte, perlopiù improntate a semplicismo e moralismo, ma anche da parte degli intellettuali sono rare le manifestazioni di quella capacità di analisi che sarebbe indispensabile per provare a leggere la realtà nei momenti difficili.
Colpisce in particolare la frequenza con la quale si è parlato, e incredibilmente si parla ancora, di un’inevitabile mutazione antropologica (la versione più corriva è costituita dai numerosi articoli in cui si elencano le cose che non faremo più, e che invece ovviamente si continuano a fare, come gli autori saprebbero se solo alzassero gli occhi dal tablet per guardare fuori dalla finestra). Sembra davvero che i Promessi sposi, così spesso citati all’inizio dell’epidemia, non siano stati letti da quasi nessuno: altrimenti ci saremmo risparmiati di sentire le molte previsioni assurde, come quelle sulla paura che non avrebbe permesso a tutti, per anni, di uscire per strada normalmente, e non avremmo dovuto ascoltare una formuletta come ne usciremo migliori (pronunciata negli stessi giorni in cui imperversavano i delatori da balcone, manifestazione ultima di quel bisogno di trovare capri espiatori che ha accompagnato tutte le innumerevoli calamità nei millenni).
Forse una spiegazione della difficoltà di trovare una misura nell’interpretare in modo razionale ciò che sta succedendo si può cercare nella disabitudine al trauma delle molte generazioni che hanno sperimentato solo la vita in tempo di pace (nel nostro angolo di mondo, naturalmente): le grottesche associazioni con le pestilenze sono possibili solo per chi tende a rimuovere il basso stato e frale della condizione umana, e si culla in un’autoipnotica illusione di immortalità, rimanendo poi esterrefatto di fronte alle prove dell’infondatezza di quel sogno.
Diverso e ancora più gravemente distorsivo è l’osceno paragone con la guerra, che comporta inevitabilmente una serie di corollari inquietanti (la vittoria contro il nemico è un fine superiore, che impone di mettere da parte qualsiasi altra istanza della vita personale e associata; chi avanza qualche dubbio sulla validità di un determinato provvedimento è un disfattista o un disertore; e così via).
Si può sperare che un contributo di conoscenza venga dagli scrittori, i quali ˗ nei modi obliqui propri della letteratura ˗ spesso sono in grado di far vedere molti aspetti della vita sociale e delle dinamiche psicologiche con efficacia e nitidezza maggiori di quelle raggiunte dai saggi specialistici. Non è ciò che accade col primo libro dedicato al tema da un narratore italiano, Reality di Giuseppe Genna (Rizzoli), il quale non si rivela neppure lontanamente all’altezza delle aspettative. Si tratta comunque di un testo interessante da analizzare, perché i limiti che lo affliggono sono dovuti ad una serie di scelte sbagliate che non vanno interpretate come incidenti di percorso, ma rispondono ad una precisa idea di letteratura purtroppo oggi ben viva. Genna è infatti da sempre un tipico rappresentante di quelle scritture dell’enfasi che negli ultimi vent’anni si sono molto diffuse, trovando anche il sostegno di parte della critica.
Analizzando questo genere di prosa, appare con particolare evidenza come nei testi letterari lo stile non sia un accessorio, ma costituisca un modo di esprimere una determinata visione del mondo, ciò che vale tanto in positivo quanto, come nella fattispecie, in negativo. Il tratto distintivo di Genna è la dismisura: era altamente prevedibile che in un libro sulla pandemia l’autore non potesse rinunciarvi. Ecco, per far solo un esempio, come viene evocato l’inizio dell’emergenza: «tra poche ore, quando l’epidemia sarà evidente e debordante e l’abisso risulterà pieno e la tenebra interiore ricongiunta con la profonda oscurità del tutto» (p. 84; non casuale l’uso di abisso, una parola-bandiera dello stile dell’enfasi).
La descrizione della Milano dello scorso marzo si nutre anche di facili e ricorrenti richiami alla peste raccontata da Manzoni. Ma non è abbastanza; in una delle pagine iniziali si mira subito più in alto: «la catastrofe futura è mutata nell’apocalisse del presente» (p. 12); e successivamente: «la tragedia bergamasca, un’apocalisse di rilevanza mondiale» (p. 162). Apocalisse non è l’unica parola che sarebbe stato molto più saggio evitare: «La febbre arde i corpi. È un olocausto» (p. 32). Uno scrittore dovrebbe essere in grado di esercitare una qualche forma di autocontrollo lessicale: pubblicare un libro è diverso da postare un commento su un social network.
L’autore dichiara apertamente di offrire non una cronaca né una riflessione, ma qualcosa di diverso: «mi guardo bene dal riportare con fedeltà quanto ho scrutato, perché nella cronaca non c’è mai la verità e solo distorcendo si dà corpo a una febbre che è vera testimonianza» (p. 23). In che cosa consista tale testimonianza non è chiarissimo; dall’esplicitazione delle idee letterarie che stanno alla base dell’operazione si capisce solo che scrivere è un atto estremo: «Il principio osceno di chi subisce la carcerazione della scrittura è questo dire che fra poco vola via il principio vitale, manca pochissimo, il corpo dopo suonerà sordo, il destino è tutto lì, ogni mito, ogni favola, ogni esorcismo» (p. 33); «Bisogna penetrare questo tempo, stringendone la giugulare, succhiandone il sangue amaro e cattivo, bisogna mostrare i corpi con una disperazione inusitata e lasciar brillare parole antiche, inventarne di nuove: lo scrittore è al vostro servizio, o spettri!» (pp. 53-54). L’ipervalutazione del proprio ruolo di scrittore può arrivare, incredibilmente, fino l’impudica autoidentificazione coi profeti biblici (e insieme con Dante): «Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi» (p. 132).
Un tratto tipico della psicologia di molti intellettuali di oggi è la nostalgia per esperienze che non si sono provate. Non sorprende allora che alla prima occasione utile si voglia convincersi di essere finalmente davanti a qualcosa di simile alle grandi tragedie del passato; l’autore in effetti lo dice chiaramente: «Questa è la nostra epica contemporanea, non ne avevamo nessuna e pensavamo di viverla, ma era falso» (p. 217).
Gli estimatori di Genna lo definiscono di solito visionario; l’etichetta, obiettivamente inflazionata, si ritrova spesso usata anche per altri adepti dell’enfasi (come ad esempio Antonio Moresco). In realtà, non servono raffinati strumenti di stilistica per accorgersi che la pretesa visionarietà consiste in pochi facili meccanismi ripetuti ad libitum: basta una lettura appena un po’ smaliziata. Prima ancora di cominciare a leggere Reality, si sarebbe potuto scommettere sulla presenza di alcuni fenomeni, di cui ci si può limitare a dar conto molto schematicamente.
1) È evidente il compiacimento per le descrizioni del disfacimento o della cancellazione violenta del corpo, umano o animale, condotte spingendo volentieri sul pedale del ripugnante: «parevano conigli tremuli, immobilizzati nella notte dai fari dell’auto che li investe e lascia i loro corpicini sull’asfalto, vescicole color bronzo e violaceo esposte all’aria, schizzi di sangue ossigenato che non desta preoccupazione in chi passa e schiaccia di nuovo il piccolo cadavere arruffato» (p. 23); «risponde come un neonato vecchio, artiglia il dito, le unghie lunghe, ingiallite, le dita catramate di chi fu un fumatore […]. Per intubarlo gli hanno tolto la protesi dentaria, il volto gli è collassato dentro» (pp. 33-34); «la sete di aria nella fibra vecchia, si cerca di restare come si può, attaccati al corpo magro, alla pelle cartonata pallida» (p. 104).
2) Si hanno continue manifestazioni di una figuralità incontrollata, che pare mossa dall’ingenua convinzione che basti trovare una similitudine o una metafora inconsueta per rivelare chissà quali verità (mentre invece si tratta di passaggi privi di senso, che possono facilmente sfociare nel ridicolo): «Un uomo […] refrattario ed essenziale come un osso di seppia appeso a filo di ferro esposto, tra un troncone di bottiglia in plastica e qualche strisca in cellophane, sulla spiaggia fradicia del mare invernale» (p. 78); «i bambini sono statue di cemento sbrecciate» (p. 222). Immancabile tra l’altro, nei libri di Genna ma anche di autori affini, il riferimento all’immaginario cosmico: «Che cos’è un vecchio? Una costellazione che va a condensare i suoi astri in un punto unico, dove si ammassa la materia e implode, per un troppo di peso e di concentrazione, sfonda lo spazio, ogni atomo collabora a questo passaggio» (p. 235; anche il verbo sfondare è parte integrante dell’armamentario tipico dell’enfasi).
3) Un ruolo fondamentale nella costruzione del discorso è svolto dalle ricorrenti frasi sentenziose, sparse nel testo al chiaro scopo di illuminare il lettore sui massimi sistemi, che risultano però del tutto prive di consistenza (anche a causa, a volte, di un uso banalizzante delle antitesi): «L’umano deve stupirci, deve non confermare il giudizio che da sempre abbiamo desunto dalla sua vicenda sul pianeta, fin troppo prevedibile» (p. 26); «Sappiamo tutto, non sappiamo niente» (p. 67); «Approdiamo a tutto, non riusciamo in nulla» (p. 68); «Morire non è nulla, non vivere è spaventoso» (p. 132); «Nessun sentimento umano riesce a essere tanto spaventoso come la gioia» (p. 186). In pratica, si tratta di una versione meno ottimista delle frasi che si leggono nei bigliettini nascosti nei biscotti della fortuna.
Alcune pagine di Reality ˗ è giusto sottolinearlo ˗ sono piuttosto riuscite, tanto da far rimpiangere che non siano più frequenti: ciò vale in particolare per i passi in cui vengono fatti parlare personaggi. Il caso più interessante è quello di un rappresentante del mondo della moda. L’efficace riproduzione di espressioni finto-creative, stereotipi e tic linguistici rende molto bene le peculiarità del tipo umano messo in scena; come sempre accade nella narrativa, quando le battute di un personaggio sono ben calibrate possono dar conto, attraverso la forma linguistica, di una determinata forma mentis. In questo specifico caso, si tratta di quella commistione di caltroneria e cinismo, superficialmente rivestiti di una patina di falsi valori (parola oggi abusatissima), propria di tanti convinti assertori dell’idea che l’intera esistenza umana sia riconducibile ai meccanismi del mercato: «E allora ho avuto quest’intuizione solidale: inviamo in dono i vestiti per abbigliare i morti […]. Voglio conoscere la storia di ogni cadavere che devo vestire. Sto cercando esperti di tanatoestetica giapponese. Voglio sorprendere e scatenare il ricordo, voglio lasciare un segno con l’ultima immagine di chi se n’è andato. Questo è un modo per essere vicini, per garantire l’apertura dei mercati e la loro trasformazione» (pp. 37-38).
La capacità di dar vita a voci credibili, peraltro, emergeva già da precedenti libri di Genna, che se si limitasse a rappresentare alcuni aspetti del mondo potrebbe essere probabilmente uno scrittore di valore. Ma la vocazione all’assoluto lo spinge a cercare di sfondare i confini della percezione, per guardare da vicino i destini ultimi dell’umanità: un programma fallimentare, che porta facilmente gli autori che lo abbracciano a pubblicare libri scritti male e privi di reali capacità conoscitive.
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