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Duemilaventi Novecento

Duemilaventi Novecento

 Un altro mondo

Nel Duemilaventi è finito il Novecento. C’ho pensato ieri sera sul divano, guardavo Novecento di Bernardo Bertolucci con mio figlio che ha diciassette anni. All’inizio della quarantena mi ha chiesto una lista di film: li ha visti uno al giorno. Ieri sera, quando Attila uccide il bambino, si gira e mi dice: «vabbè, ma neanche fossero il diavolo e la strega cattiva. Ma possibile così cattivi? Ma possibile così cretini?» Io l’ho ammesso: «sì, hai ragione, è un po’ esagerato. Ma è un film di un altro mondo». «Quale mondo? Dimmi quando è finito quell’altro mondo» mi ha chiesto. «Basta» ho risposto, «che poi mica lo finiamo più».

Un altro dire

Il film è continuato, ma io non l’ho più guardato. «Quale mondo? Dimmi quando è finito quell’altro mondo». A sinistra, sulla libreria ho visto Hobsbawm, troppo facile, mille volte ho detto «secolo breve» a scuola. Sulla destra mio figlio ha continuato a cercare una posizione sul divano, il film l’annoiava. Ho pensato: conta di più lui, mio figlio. Lui più di Hobsbawm, più dei libri, ha per me più risposte. Eh sì che in questi tre mesi è fiorito, porta domande, cerca i film, i romanzi no («sono troppo poco, vanno lenti, vanno letti»), legge il giornale sul pc. Ecco, il giornale, ora mi ricordo. Ho iniziato con il pensare che in questi tre mesi è morto e risorto il giornale. Perché tutti siamo tornati a leggere il giornale, a interrogare il giornale, ad aspettare il giornale, ma su uno schermo. I giornali oramai morti da almeno dieci anni, nel Duemilaventi hanno iniziato a rincassare con gli abbonamenti online. Nel Duemilaventi sono morti i giornali, quelli che hanno fatto il Novecento. Sono morti di carta, perché sono rinati di rete. Risorti con la pelle dei social, delle parole della gente. Il Duemilaventi è stato un altro dire.

Un altro stare

Continuo a sentire vicino mio figlio, mi deve risposte con le sue domande. Si gira, non capisce i personaggi, «chi sono i fascisti, chi sono i comunisti». Come la destra storica e la sinistra storica, come l’Impero e la Repubblica, come i buoni, come i cattivi: e chi li conosce. Il partito, ecco, la politica. A ottobre mio figlio avrà diciotto anni, prima o poi voterà, non sa la destra e la sinistra, la tessera, la sede. Eppure mio figlio discute, chiede, mi incalza: «apri il link su WhatsApp, me l’hanno girato, dimmi che ne pensi» m’avrà detto mille volte in questi giorni. Ha continuato a stare con gli altri, anche da casa, sul suo schermo c’erano gli altri, per lui anche così esistono gli altri. Per me no, è mancata la gente. Riguardo sulla destra e vedo Hobsbawm: sono mancate le masse. Divento e penso retorico. Ecco, le masse. Continuo col dirmi che nel Duemilaventi per la prima volta non ci sono state le masse. Quelle del Novecento, dei treni, nei maggi radiosi, per andare al fronte, per tornare in paese, le lotte nei campi, poi tutti inquadrati, da piazza Venezia, all’8 settembre, il 25 di aprile, il 18 di aprile, da Taranto a Torino, nel ’68 e nel ’77, addosso alla Renault 4 rossa, con i quarantamila, dalla guerra del Golfo, da Capaci, strascicati fino all’11 settembre, fino ai primi di febbraio Duemilaventi, per strada. Il corpo della gente c’è sempre stato nel Novecento, poi da marzo Duemilaventi, per la prima volta, non c’è più stato. Nel Duemilaventi si è interrotto lo stare.

Un altro accadere

Ma Novecento è lungo, ancora non finisce, «quanto dura ancora, domani ho scuola, mi collego alle otto, mi interrogano». «E chi è il matto che ti interroga?» Per la prima volta è sparita anche la scuola. Quando ha chiuso, il primo giorno a marzo ho detto a cena: «è una cosa strana». E ci siamo sentiti stranieri. Penso che proprio oggi ho fatto una lezione a distanza, ho raccontato del Sentiero, la scintilla che l’ha tracciato, come l’ha raccontata Calvino nel 1964: «La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle mense del popolo, ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie». Ho chiesto ai simulacri di quei ragazzi se quando torneranno a vedersi racconteranno, che cosa si racconteranno. Perché erano muti, erano neri, non li vedevo. «Non possiamo raccontare niente, perché non è successo niente» una ragazza, da qualche parte del buio dello schermo: così m’ha risposto. Nel Duemilaventi si è sospeso più dell’educare, si è sospeso un accadere.

Quella generazione

Mi avvicino a mio figlio. Sento il suo corpo, lo sento vivo, lo sento pronto, mio figlio nato nel 2002. Due passi in qua oltre il mio Novecento. Ora è sua la storia, è il suo momento e vederlo crescere mi fa stare contento. Sono suo padre, mio padre è lontano, mio padre che del Novecento è stato padrone, classe 1940, la storia è stata sua, a me è rimasto questo divano troppo grande da scalare. Ecco, mio padre, la sua generazione, quella prima, quella dopo, i padroni del Novecento. Nel Duemilaventi è successo anche questo: la malattia in tre mesi se li è portati via. Mi ha irretito quando l’ho letto, qualcuno l’ha scritto: un generazione, due, forse tre (i figli degli Ateniesi disse Pasolini), quelli nati nei Quaranta, nei Cinquanta, aggrediti e processati nelle rianimazioni. Soli. Il Novecento è stato loro, mio figlio non li conosce, hanno negato pure i funerali. La fila dei camion dei funerali. La Tienanmen dei funerali. Nessun quarantenne s’è messo davanti con la busta in mano, con un ghigno represso li ha lasciati sfilare. La pandemia ha fatto quello che loro non hanno saputo fare: ha ucciso i padri. Li hanno portati via di notte, nel Duemilaventi, i padri del Novecento.

Questo silenzio

«È finito Novecento» mi ha detto mio figlio, me l’ha detto mio figlio, «però mi è piaciuto, domani che guardiamo?». «Non lo so» gli ho risposto «sto pensando a cosa farti vedere, non so più cosa potremmo vedere». «Non dovevamo vedere Lamerica, quello sugli immigrati?» «Fa parte del passato pure quello ormai, non ti pare il passato quando parlavamo degli sbarchi?» gli ho risposto. «È vero, questi tre mesi sono stati lunghi, non mi ricordo più nulla» ha sorriso mio figlio «domani ci penseremo a che guardare». Nel Duemilaventi è finito il Novecento, Millenovecentoventi, Millenovecento, ora sì che sono cento anni. Il vezzo dei numeri tondi. Vado a letto per addormentarmi: per la prima volta tutto quello che in questi tre mesi è stato anche a me sembra che non ci sia mai stato.

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