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Forme d’amore improvviso: Almarina di Valeria Parrella

 Con il romanzo Almarina (Einaudi, 2019) Valeria Parrella sembra reclamare la possibilità di vedere riconosciute “forme d’amore improvviso” come quello che scocca in Elisabetta Martorano per una giovane detenuta conosciuta nel carcere minorile di Nisida, dove la donna insegna.

Nel prologo del romanzo – cinque pagine che tracciano la parabola esistenziale e spazio-temporale di tutta la vicenda –  è espressa, in nuce, la spinta che anima le protagoniste rispetto a una vita che le convenzioni sociali e burocratiche vorrebbero già predeterminata: dalla trafila prevista per l’adozione o l’affido al diritto di cittadinanza; dagli stati di famiglia ai casellari giudiziari; dai regolamenti carcerari agli stati civili.

L’io narrante, Elisabetta, è rimasta vedova a cinquant’anni e vive una condizione di solitudine che, secondo il senso comune e le normative, dovrebbe precluderle la possibilità di crescere un figlio. Invece, a tre anni di distanza dalla perdita del marito, si reca presso il Tribunale dei Minori per chiedere in affido Almarina. Per quest’ultima, del resto, le consuetudini procedurali vorrebbero che, a fine pena, venisse indirizzata a una comunità come quella di don Valentino. Invece un rapporto imprevisto –  a metà tra il materno e il sororale – rivendica il diritto di essere vissuto e rispettato:

Voi che giudicate siete disposti a credere ai colpi di fulmine, ma altre forme d’amore improvviso vi mettono in sospetto. Volete che l’amore proceda per gradi, vorreste intravederne un percorso lineare, guardare, morbosi, tutto.  […] Io mi sono legata a Almarina così, mentre guardavamo il mare, e le ho raccontato che mio marito era un gran nuotatore (V. Parrella, Almarina, Torino, Einaudi, 2019, p. 57).

Elisabetta e Almarina, in linea con altre protagoniste già tratteggiate da Parrella (basti pensare al romanzo Lo spazio bianco), scelgono lo scarto rispetto alla norma, trasformano una svolta imprevista e dolorosa in cambiamento audace:

Elisabetta lo fa dopo aver rimesso insieme tanto i ricordi del suo matrimonio con Antonio (“Credo che il matrimonio sia cominciato così: che mischiammo i libri”), quanto quelli dei tre anni trascorsi a elaborare il lutto per un marito molto amato (“Da tre anni vado in giro con il passaporto invece che con la carta d’identità, perché sul passaporto non c’è scritto lo stato civile”). Almarina, dal canto suo, accetta la proposta di Elisabetta senza false promesse: in lei c’è l’aspirazione a un futuro tutto da inventare, il sogno lontano di vendere profumi (“lei ogni tanto dalla panchina indicava verso il muro di cinta, con le garitte e il filo spinato, perché laggiù in quel punto, ormai, lampeggiava l’insegna della profumeria. ALMARINA”); del passato le resta il desiderio di ritrovare notizie del fratello Arban, arrivato in Italia con lei ma dal quale è stata separata.

In entrambe c’è un gran vuoto da colmare: per Elisabetta una vedovanza prematura, mentre il corpo ancora reclama il desiderio di piacere e di amare; per Almarina un passato di abusi familiari e un reato di cui si tace la natura.

Nessuna delle due ha qualcosa da perdere in questa scommessa sul domani; viceversa sono pronte a viverla in pienezza fin dal primo permesso in cui la ragazza viene affidata alla donna:

E la porto al bar, e tutti la guardano e ci guardano, e io sono il suo garante nel mondo: ma non perché mi sono impegnata a riportarla in carcere tra settantadue ore: bensì perché la faccio servire e riverire seduta al tavolino, prendiamo due cassatine, cameriere, e due bei caffè. Perché l’oro di Napoli ci aspetta per stordirci dentro il suo Natale. Io e Almarina festeggiamo nel modo tracotante e grasso che si usa qui: esageriamo, mangiamo, beviamo, spendiamo senza pentirci mai, perché la retta è fatta di infiniti punti e in questo punto qua ci siamo noi (p. 82)

Intorno a Elisabetta e Almarina c’è una serie di personaggi minori, per la maggior parte legati al carcere: i ragazzi che lo popolano, sospesi tra un passato su cui si preferisce tacere e un futuro difficile da ripensare (degne di nota le pagine dedicate all’esercizio svolto a partire dall’epistolario di Gramsci); il direttore, “mai stato scortese, né manchevole” ma che la donna trova antipatico; il comandante, uomo capace di inventare diversivi quotidiani per i giovani carcerati. Parrella ha la capacità di delineare una rete di sottili relazioni umane con tratti essenziali e questo è uno dei pregi di questo romanzo: il comandante, ad esempio, incarna la figura del desiderio che, dopo “il giro dell’anno”, Elisabetta torna a sentire. Inconsapevolmente l’uomo ne fa riemergere la forza immaginativa grazie al ricordo di lui che, durante il funerale del marito, non l’ha abbandonata con lo sguardo:

Infine con il tempo, passato il giro dell’anno, quando mi era tornata la voglia di mangiare e di uscire per strada, una notte mi tornò pure la voglia di fare l’amore. E allora portai sotto le lenzuola quello sguardo. Il comandante, così come è davvero, con la sua realtà, non c’entrava niente: fui io che trasferii uno sguardo di compassione nell’universo dell’erotismo, che presi il giorno e lo misi nella notte, con tutte le sue contraddizioni, i giochi di potere, i ruoli che conteneva e che mi spaventavano. (Ivi, p. 28)

Parrella scrive un romanzo in cui si conferma la percezione – già individuata al suo esordio da Renato Barilli – di una “nuova napolitudine” come modo febbrile e vivo di raccontare il sud, oggi: non c’è una pagina in cui non si respiri la città, che traspare nei luoghi fisici come nella schiettezza dei pensieri di Elisabetta, che riemerge nei modi diretti dei giovanissimi detenuti del carcere, che compare perfino – fulmen in clausola – nella figura di “quelle cesse delle mie cognate”.

Lo scenario che fa da sfondo al romanzo riesce a superare il rischio del cliché: anzi c’è la bellezza struggente di un paesaggio in cui, quando appare, “lo stereotipo va avanti, si neologizza” (V. Parrella, Napoli in F. La Porta, Uno sguardo sulla città, Roma, Donzelli, 2010, p. 55). A questo proposito si veda lo scorcio che attende Elisabetta mentre sale verso Nisida:

È un sollievo da ogni cosa. […] trovarsi dopo la sbarra e prima del carcere, lasciando tutta la città sotto con le sue ansie: che sono le mie. […] E qui invece ad alzarsi in volo c’è qualche gabbiano, e uno scoglio come un pinnacolo nel punto in cui la strada svolta. Intanto c’è silenzio. Il silenzio che non si sente mai: fuori dalle rotte, lontano da qualunque strada, e mare inaccessibile tutto d’intorno, che a destra finisce dentro il Vesuvio e a sinistra dentro l’Italsider. Ma oggi è tutto spento: vulcano e acciaieria. (Ivi, pp. 15-16)

Sono i vividi dettagli del quotidiano a restituire la cifra autentica della città e dei suoi abitanti. Esemplare l’episodio in cui Elisabetta si reca nell’oreficeria dove lei e il marito acquistarono le fedi nuziali:

Gli ho teso la mano, e lui anche l’ha allungata credendo che volessi stringergliela, invece ho allargato il pugno e gli ho travasato nel palmo il mio stupore e le due fedi. […] Dev’essere stata la cenere della pira che ha imbiancato il bancone, perché lui mi ha detto: -Condoglianze, – e io: – Grazie, – e lui: Ne vogliamo fare due begli orecchini? Vengono dei bei cerchietti importanti.

E io: – Sì.

Ho detto sì con gratitudine: i commercianti della mia città danno alle cose il valore che devono avere, custodiscono il rito e capiscono chi hanno davanti meglio di quello che ci sta. Inventano formule per perpetuare morte e vita che altrimenti non valgono nulla (Ivi, p. 59-60)

È nella relazione con Almarina, in questa forma d’amore improvviso, reciproco e imprevisto, che Elisabetta può chiudere il cerchio tra la morte e la vita: indosserà le fedi nuziali, diventate orecchini, grazie alla ragazza che le terrà la mano mentre si farà forare i lobi. “L’amore non riconosce l’autorità”, ribadisce la donna a conclusione della vicenda: è dunque condensato in questa frase il fulcro di tutto il romanzo.

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