Letteratura: sfida al caos (fuori e dentro di noi)
Provincia di Vicenza, 2 marzo 2020. Sono le 9.28: è quasi tutto pronto per l’avvio della lezione. Una rapida occhiata agli appunti sulla scrivania, un altrettanto rapido controllo dello stato di connessione. Sì, siamo pronti. Considerato che ogni aspetto tecnico risulta a posto, condivido in piattaforma la password per accedere alla diretta streaming. I miei allievi mi seguiranno così. Sono una seconda liceo scientifico, nativi digitali, simili a tanti altri studenti d’Italia: in tempi normali molti di loro non attendono forse altro che la campanella della ricreazione per poter finalmente rispondere al moroso, alla morosa o… a genitori troppo apprensivi che li tempestano di messaggi ad ogni ora. Per poter, insomma, posare gli occhi su quello schermo che, come una calamita, cattura i loro sguardi, catalizza i loro sogni, le loro vite. Ma oggi non è una giornata normale. Oggi anche la lezione di Italiano si terrà attraverso uno schermo. Oggi e per un’altra settimana ancora.
Pronto a fare l’appello, osservo i miei studenti connettersi, scruto a lato dello schermo le finestre che in una frazione di secondo mi catapultano nelle loro case: chi è in camera, chi in soggiorno, chi in cucina. Fa davvero uno strano effetto vedersi così anziché nei pochi metri quadrati della nostra aula. È piuttosto stretta per una classe di ventiquattro adolescenti, la luce non sempre entra nelle giuste proporzioni, spesso anzi abbaglia chi sta in ultima fila, l’aria poi, specie dopo un compito, vi ristagna irrespirabile quanto i miasmi di un viottolo medievale. Oggi però ci sembra di rimpiangerla. Per fortuna è solo un istante, per quanto intenso: poi la sorpresa della novità prende il sopravvento. Mentre gli ultimi si aggiungono (anche qui c’è chi è perennemente in ritardo) incontro gli sguardi dei miei studenti. Chiedo come va e un coro di voci, sovrapposte ma non indistinte, irrompe dalle casse del portatile. Poi, silenzio. Ora sono loro, i miei studenti, ad aspettare una mia parola: solo allora avrà inizio la lezione. Sono imbarazzato, lo confesso: mi sembra di essere tornato al mio primo giorno in cattedra. Chiamo le persone per nome, le saluto. Un paio di studenti mancano all’appello; mi avevano del resto avvisato di avere problemi di connessione. Una piccola ingiustizia della rete che doveva essere per tutti giusta.
Infine si comincia. Do gli avvisi tecnici: chiedo che spengano i microfoni e che pongano le eventuali domande con la chat a destra sullo schermo. Un ultimo brivido prima di partire davvero. Sono i miei studenti quelli che ho davanti, non amici dall’altra parte del mondo che chiamo per sentire come stanno. Io un insegnante che tenta di spiegare Manzoni. Oggi, così.
Per la seconda settimana noi del Veneto siamo costretti a casa dal Covid19, un esserino che fa paura solo a guardarlo e che ha gettato il nostro paese in un’emergenza – non mi sembra esagerato definirla così – senza precedenti. E tuttavia, mentre la vita quotidiana sembra irrimediabilmente sconvolta qui, oggi, ora, attraverso lo schermo 35×20 del mio portatile, cercheremo di celebrare il rito quotidiano: torneremo a parlare di letteratura.
Non ho potuto fare a meno di riflettere, in questi giorni di forzato ritiro, sul mio ruolo di insegnante e su quello delle cose che mi trovo ad insegnare, letteratura per lo più. A cosa serve la letteratura? È una domanda che periodicamente sentiamo risuonare, interrogativo centrale di una vexata quaestio che dalle lettere arriva spesso ad abbracciare l’intero arco dei saperi umanistici. Non voglio entrare nel merito di quella che considero, per fortuna assieme a altri ben più titolati di me, una falsa domanda, o una domanda volutamente mal posta, ma riflettere un istante sul senso del fare letteratura, dell’insegnarla in particolare, mi sembra necessario. Tanto più oggi. Perché sono i nostri studenti che spesso ci interrogano, ci pongono questa domanda sul senso profondo del nostro ostinato resistere attorno ad autori morti e sepolti, a figure retoriche dai nomi che ai loro orecchi suonano esotici e lontani quanto le imprese di Eracle, a frasi che a volte necessitano di un quarto d’ora per essere spiegate, a testi che a distanza di decenni, secoli o addirittura millenni non smettono di interrogarci, di stimolare, più che le risposte facili, le domande, la ricerca di senso, la ricerca…
Accanto alla scienza, nella fattispecie la medicina, tornata improvvisamente alla ribalta e forse ascoltata con maggiore attenzione anche dagli strenui difensori dell’informazione “fai da te” tramite la rete, nelle ultime settimane abbiamo sentito più di una voce alzarsi per citare opere della grande letteratura. In rete e sulla carta stampata abbiamo assistito ad un generoso germogliare di riletture, citazioni, riferimenti ad alcuni grandi classici: dal Decameron di Boccaccio ai Promessi sposi di Manzoni, dal Tucidide che rappresenta la peste di Atene alla medesima pestilenza dipinta magistralmente da Lucrezio al termine dell’incompiuto suo capolavoro, il De rerum natura. Ma basterà anche solo una rapida ricognizione nei principali rivenditori di libri online per scoprire che due dei titoli più venduti in questi giorni sono Cecità di Josè Saramago, romanzo incentrato su una misteriosa epidemia che rende ciechi quanti ne sono colpiti, e, a distanza di settantatré anni dalla pubblicazione, La peste di Camus, storia che si snoda in una Orano prostrata, in pieno Novecento, dalla morte nera. Come spiegare dunque questo rinnovato interesse verso testi (letterari) che affrontano temi legati ad un quotidiano divenuto emergenza?
Penso che una possibile risposta, al di là di facili letture mediatiche, si celi nello sguardo dei miei studenti di questa mattina: non mi riferisco tanto alla curiosità di trovarsi davanti ad un nuovo modo di fare lezione, no, quella è passata presto; penso piuttosto alla trepidazione dei loro sguardi, alla ricerca di senso di fronte ad una quotidianità turbata bruscamente da un nemico sconosciuto, invisibile, che ci ha gettati di fronte alla nostra fragilità. E di fronte a questa fragilità sorge spontanea la domanda di senso a cui accennavo prima. La letteratura, luogo del possibile, spazio libero dell’immaginario e, al contempo, «campo di istruzione dell’immaginario» (così Mario Barenghi in un bell’articolo apparso su “Doppiozero” il 13 giugno 2017), lungi dall’offrire risposte definitive, tuttavia va incontro a questa profonda domanda, la accoglie e in qualche modo la indirizza. Un buon libro, un classico, ci parla perché, anzitutto, ci ascolta. Chiunque ha confidenza con la letteratura sa che è così. Non a caso nell’articolo citato prosegue Barenghi: «Attraverso una prassi di simulazione socialmente condivisa (diversa quindi dalla fantasticheria individuale) il lettore ha la possibilità di ampliare la propria esperienza esistenziale complessiva: di chiarirla e di arricchirla, di articolarla ed estenderla, acquisendo così nuovi strumenti per far fronte alle sfide della vita reale».
E allora cosa possiamo offrire noi insegnanti, di letteratura in particolare, di fronte a questa richiesta, tanto più pressante quanto formulata in un momento di generale incertezza, di paura spesso incontrollata se non, addirittura, di panico collettivo? Anzitutto, la nostra presenza. Discreta, silenziosa, ma, per quanto possibile, ferma. Con la nostra presenza, ciò che facciamo, che siamo, proponendoci come guide per i nostri studenti, in un quotidiano sempre più complesso e intricato. Come? Proprio con il lavoro sui testi, con i testi.
Per entrare nello specifico di queste settimane, direi non soltanto offrendo l’esempio dei testi letterari che possiamo associare per (prudente, mi auguro) analogia ai tempi odierni. Talora questo può anzi diventare un limite o un rischio, perché il Veneto o la Lombardia di oggi non sono tout court la Firenze di Boccaccio o la Milano del Manzoni. Piuttosto, direi, alla confusione di un mondo impaurito, disorientato, urlante, tendente a chiudersi a riccio, possiamo contrapporre, sottovoce, con il tono delle storie raccontate un tempo davanti al focolare, la forza dell’immaginazione, della creazione, della scoperta che ogni buon lettore ricerca quando si accosta ad un testo. Dobbiamo, in una parola, creare buoni lettori, oggi più che mai. Prima che per ogni altro scopo strumentale, per rispondere ad una domanda che viene dai nostri studenti. Al caos, fuori e dentro di noi, possiamo (dobbiamo) lanciare ancora una volta la sfida non tanto dell’ordine, parola ambigua, a tratti addirittura sinistra, quanto dell’equilibrio rappresentato dalla ragione. E la letteratura può aiutarci in questo. Può davvero, in tal senso, servirci.
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