Aurea mediocritas
Chiedo l’aiuto di Walter Siti, per parlare un poco di me.
Mi chiamo Luisa Mirone, come tutti gli insegnanti. Campionessa di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa. Come ogni insegnante, indosso già la maglietta con su scritto Original mentre scrivo questo pezzo dedicato al mio mestiere, e sorrido della contraddizione, perché so che attingerò al più vieto repertorio dell’insegnante-medio; e non me ne vergogno. Non voglio essere originale, voglio essere come tutti, come tutti gli insegnanti che volevano fare questo mestiere.
Io – in verità – non lo volevo fare; e anche questo come molti, se non come tutti. Ma poi mi ci sono trovata e adesso non saprei pensarmi diversamente. Quello che so, quello che studio, quello che mi piace, che mi capita o che mi impongo di leggere, di ascoltare, di vedere, mi pare che acquisti un senso reale, pieno, compiuto (latinamente perfectum) solo quando entro in aula e ne parlo ai miei allievi, e i miei allievi mi rispondono, e poi mi chiedono. Non pensavo che fosse così, insegnare, quando l’insegnante non la volevo fare. E invece è così; sarebbe così, se solo me lo lasciassero fare. Ma evidentemente sarebbe troppo paradiso.
Diciotto ore settimanali, tre mesi di vacanza, i pomeriggi liberi…
Si sa. Se aggiungiamo anche i profitti in nero delle lezioni private, si completa il profilo della categoria parassitaria, pelandrona e privilegiata, che si lamenta anziché ringraziare lo stato e i contribuenti che ancora le elargiscono denaro pubblico invece di destinarlo altrove. Noi insegnanti abbiamo rinunciato anche a esibire il consueto e inascoltato cahier de doléances: e lo studio per le lezioni? e le verifiche, da preparare e da correggere? e le riunioni? e i compiti e gli impegni cresciuti esponenzialmente con l’avvicendarsi di ministri e riforme, o semplicemente con lo scorrere del tempo, le nuove consapevolezze della pedagogia, l’adeguamento al dettato europeo? (etc.); abbiamo lasciato che lo facesse Floris per noi. E davvero io sono così stanca di tanta millantata ignoranza, che ho raggiunto il nirvana dei docenti: la gente pensi pure ciò che le pare, io sono felice d’insegnare e mi dispiace per quelli che sono tristi e non capiscono che la mia felicità non è fatta di tre mesi di vacanza; che lavoro un numero imprecisato di ore settimanali; che i pomeriggi li trascorro a studiare, a leggere, a cercare; ad “aggiornarmi”. Anche se guadagno poco, anche se non faccio carriera e anche se ho la credibilità sociale di un bradipo.
La cacciata dall’eden
Ma pure da questo eden segretissimo e inappetibile, privo com’è delle seduzioni di un premio metafisico, o più modestamente di premi in natura o in denaro, pure da questo spazio ostinatamente presidiato sotto il baluardo malinconico eppure evergreen del sapere aude, pure da questa ultima oasi protetta mi sento oggi cacciata via a forza. Che io sappia o non sappia quello che per concorso sono stata chiamata a insegnare, che io mi aggiorni, che io studi, che io sia disposta – per farlo – a dedicarvi (più o meno silenziosamente, lo ammetto, a secondo del livello di stress) il doppio delle ore settimanali che figurano sul mio contratto, è diventato lentamente ma inesorabilmente insignificante a definire il mio profilo professionale.
In principio (insegno ormai da oltre venticinque anni) non è stato senza mia responsabilità: entrare nelle aule unicamente armata del mio sapere – vero o presunto – e della pretesa che – nudo e crudo – potesse, dovesse interessare i miei allievi, mi sembrò colpa vergognosa e inammissibile e tentai di emendarmene come fui capace di fare, sprovvista (com’ero) – a venticinque anni, e laureata da due – di formazione all’insegnamento. Nella convinzione di dover espiare il peccato originale di un disciplinarismo becero e antiquato, mi piegai docilmente (o quasi) a corsi e dettami non sempre – e via via sempre meno – inerenti la mia formazione letteraria, impartiti da MIUR, USR, Provveditorato e altre imperative entità; e successivamente, col passare degli anni, mi offrii di integrare “l’offerta formativa”, progettando e gestendo (con retribuzioni forfettarie) attività pomeridiane per gli studenti, e perfino di ricoprire qualche incarico fra quelli ritenuti strumentali a far la scuola migliore… Ma non era il cuore, non era il cuore: la scuola voleva un’altra prova del mio cieco amore.
Un’altra prova del mio cieco amore
Ed eccola qui, la prova: oggi la scuola, realmente divenuta “di massa”, mi chiede, chiede agli insegnanti (nei toni esigenti/intransigenti della donna pietra di De André) di ricucire le smagliature di un sistema di istruzione che, rispondendo alle sollecitazioni storiche, sociali, economiche, si è dilatato a dismisura senza che si sia pensato, preventivamente, di dotarlo di quelle strutture e di quelle figure professionali che potessero sostenere il cambiamento; e anche (quel che è peggio) senza interrogarsi sui contenuti reali del cambiamento. Si è abbattuta sulla scuola un’enorme mole di lavoro burocratico, amministrativo, pratico che né i dirigenti scolastici, né le segreterie, né le “figure strumentali”, né il personale ATA sono nelle condizioni non già di esaurire, ma di gestire nel quotidiano, limitati i finanziamenti e sottodimensionati gli organici rispetto all’entità del lavoro. Pertanto (e non credo di fare dell’autobiografismo spicciolo) non solo mi si chiede (ma questa è storia recentissima) di presenziare (fuori dal mio orario di servizio) a incontri che dovrebbero istruirmi su un esame di stato le cui regole sono mutate in corso d’anno scolastico, ma di redigere circolari, di immettere sulla piattaforma cifre relative alle attività di (ex) alternanza scuola-lavoro, ai percorsi di cittadinanza e costituzione, ai corsi sulla sicurezza, di curare l’archiviazione dei progetti secondo gli standard “di qualità”, di curare le schede di adozione dei libri di testo badando a non superare il tetto di spesa e a non sbagliare i codici, di provvedere alla compilazione delle richieste di rimborso per quegli studenti che malauguratamente abbiamo osato far partecipare a un corso o abbiano avuto la tracotanza di vincere un premio da ritirarsi fuori sede… e molto altro ancora.
Trenta denari
Ammesso che bastasse a coprire le molte, troppe ore spese per queste mansioni, non c’è “bonus docenti” né incentivo che possa ripagare il senso di profondo tradimento che è il trauma ormai di ogni insegnante che voleva insegnare. Di questo lavoro aggiuntivo si stenta sempre più a comprendere e condividere la valenza educativa, il contenuto didattico, la ricaduta reale sulla formazione dei nostri allievi. Improntato su un’idea aziendalistica della scuola, tradisce l’idea stessa di azienda nella misura in cui non solo non motiva né conquista a un progetto forte i suoi operai, ma non produce alcun guadagno reale, capace di creare nuovi investimenti. E’ un lavoro finalizzato all’incasellamento della scuola, degli allievi, dei docenti dentro uno standard che fissa i parametri del valore tramite indicatori discutibili, che parlano il linguaggio dell’impresa senza averne le risorse, i mezzi e le finalità. In un’epoca assoggettata al dominio degli “enti valutatori”, la riflessione da farsi sarebbe ampia, articolata, e dovrebbe investire non solo la scuola. Ma ho detto che voglio attenermi alla mia mediocrità e lo farò; mi limiterò a parlare (mediocremente) dei docenti. Il docente ha perso non solo (e da tempo) la sua aura, ma la sua funzione: “bravo” è quello che scrive le circolari, che carica su piattaforma telematica i dati dell’alternanza scuola-lavoro, che non sbaglia i codici dei libri di testo, che sa destreggiarsi con le TIC, che ha seguito il corso sulla sicurezza, che raccoglie le adesioni per le visite di istruzione, che solleva – oberandosi e abnegandosi – oberate segreterie e scarseggianti collaboratori da una parte di lavoro burocratico o pratico altrimenti ingestibile, un lavoro che sottrae tempo (tanto tempo) ed energie (tante energie) allo studio e alla didattica. Ciò in nome del sacro RAV (Rapporto di Auto Valutazione), manifesto della scuola d’oggi, cinico al punto da indurre anche i meno nostalgici a rivendicare “dieci, cento, mille tazebao” contro questa logica produttivistica del tutto indifferente (per non dire ostile) a ciò che la scuola dovrebbe produrre realmente: teste ben fatte, e non teste ben pettinate o ben agghindate con cangianti cappelli.
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Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Tradimento
“il senso di profondo tradimento che è il trauma ormai di ogni insegnante che voleva insegnare” : un monumento per questa donna. E si, nella mia testa ho istintivamente cominciato a comporre decine e decine di tazebao da affiggere ai muri della mia scuola. Ma è come parlare ai sordi.
Un puzzle vuoto
Ringrazio di cuore la collega per aver dato voce ai miei pensieri in maniera così vera e piena! Immersa ore e ore in una marea di relazioni, verbali, progetti, circolari e chi più ne ha più ne metta…mi sembra di comporre un puzzle che alla fine è decorativo ma vuoto! Per fortuna alle 8.00 entro in classe.
Mi identifico
Ho letto con attenzione il tuo contributo e mi sono ritrovata punto per punto in quanto hai detto. Grazie per questa analisi cosi dettagliata.
Allucinazione
Rispondo anch’io, io che ho 33 anni, io che insegno solo da sei anni. Io che quando mi sono iscritta all’università ero convinta non di voler fare, ma di poter essere un’insegnante. Io che per tutti questi anni (per quanto pochi, pur sempre una porzione importante della mia esistenza) mi sono sentita chiedere “che lavoro fai?” ho sempre risposto “SONO un’insegnante”. Io che pensavo che il mio lavoro consistesse nell’entrare in classe e nello spiegare ciò che sapevo trasmettendo il massimo della passione che io stessa provo per le cose di cui mi occupo al punto di tediare tutti quelli che mi capitano a tiro parlandone costantemente durante le mie giornate indipendentemente dal mio lavoro.
Se avessi saputo che insegnare oggi significa svilire il significato della parola “cultura”, chissà se avrei scelto di studiare lettere classiche all’università.
Sono stufa. Sono stufa del principio che domina ormai su tutto: l’immagine. La nostra scuola è come la nostra società: una vetrina per permettere a chi ne abbia la necessità di mettersi in mostra con un guardaroba di vuoto che potrebbe indossare chiunque. Chiunque tranne chi quell’armadio vorrebbe riempirlo e non di accessori. Ogni corso di formazione che ho frequentato rispecchia bene questo concetto.
Non pensavo che insegnare significasse basarsi su schemi, schede di progettazione, principi che non hanno nulla a che fare con ciò che insegno. Schemi, semplici macchine da tortura per stritolare una cultura che già si asciuga nella quotidianitàdella gente media. Facilitazione. Perché sarebbe facile la cultura? Io non voglio semplificare ciò che per sua natura non lo è, non lo voglio banalizzare. Questo significa mentire. Oggi in cattedra servono mentitori seriali: io mi vergogno di dover condividere il mio tempo al lavoro con “lavoratori” che fanno questo! Sostanza 0. È imbarazzante, soprattutto quando si tratta di docenti di esperienza che dovrebbero essere i primi a ribellarsi a tutto questo. Non ci si può aspettare poi che i docenti giovani non si atteggino a “cazzoni”, con un atteggiamento populista e demagogico. Va bene quando si tratta del ragazzo che di fronte al banco del mercato deve far fare bella figura alla sua mamma, presentandosi come fresco e gagliardo, simpatico e “friendly”, ma non per un’identità professionale come la nostra.
Sono allucinata.
Mi sento sola, sono giudicata troppo seria, vecchio stampo, troppo legata ai principi.
Eppure non mi baratterei per nessuno di quelli che ho criticato. Quello che mi uccide e vedere l’inerzia generale e io stessa mi sento inerte di fronte a tutto questo.
Non so più se farò tutta la vita questo lavoro.
ma so cercherò sempre nella vita occasioni per insegnare e trasmettere la mia passione, anche se non fosse per motivi professionali.
Che tristezza!
Se a soli 33 anni sei già a questo stadio non ti invidio! io con i miei 54 anni e 20 anni di servizio lo sono in egual modo anzi di più, perchè aggiungo che nemmeno la classe è più un rifugio sicuro in quanto anche lì si annidano insidie e limiti all’azione educativa: alunni malfidati, genitori invadenti e presuntuosi, dirigenti che si prostrano a qualsiasi volontà o manifestazione critica che a loro si rivolge. Abbiamo quello che ci meritiamo? Forse. A volte sono costretta a pensarlo quando sento e vedo certi comportamenti, atteggiamenti, modi apparentemente innocui dei miei colleghi (vecchi e giovani indistintamente, purtroppo) me lo chiedo. Proni a ogni volere, cambiamento, richiesta che venga (im)posta dall’ “alto”, che si tratti di Ministri o Dirigenti, salvo poi lamentarsi, “coraggiosamente” sui quei rifugi per anime tristi che sono i famigerati “gruppi Whatsapp” spargendo commenti velenosi su tutto e su tutti per concludere con il ritornello che suona:” ci pagano troppo poco”. Che tristezza. Eh sì, perchè diventiamo noi solo quando dobbiamo rivendicare pretese economiche per il resto “ognuno per sè e Dio per tutti”, in perfetto Italian style finchè si può ognuno coltiva il suo orticello per il proprio tornaconto personale che in questo ambito, considerando che non esiste una carriera, si riduce in qualche centinaio di euro in più assumendosi, però, compiti onerosi e impegnativi che non saranno mai ripagati da quelle cifre ma, vuoi mettere la soddisfazione di essere chiamato per nome dal Preside ed avere libero accesso ai segreti della Presidenza? Che tristezza!
RE: Volevo fare l’insegnante
[quote name=”Lolli”]Se a soli 33 anni sei già a questo stadio non ti invidio! io con i miei 54 anni e 20 anni di servizio lo sono in egual modo anzi di più, perchè aggiungo che nemmeno la classe è più un rifugio sicuro in quanto anche lì si annidano insidie e limiti all’azione educativa: alunni malfidati, genitori invadenti e presuntuosi, dirigenti che si prostrano a qualsiasi volontà o manifestazione critica che a loro si rivolge. Abbiamo quello che ci meritiamo? Forse. A volte sono costretta a pensarlo quando sento e vedo certi comportamenti, atteggiamenti, modi apparentemente innocui dei miei colleghi (vecchi e giovani indistintamente, purtroppo) me lo chiedo. Proni a ogni volere, cambiamento, richiesta che venga (im)posta dall’ “alto”, che si tratti di Ministri o Dirigenti, salvo poi lamentarsi, “coraggiosamente” sui quei rifugi per anime tristi che sono i famigerati “gruppi Whatsapp” spargendo commenti velenosi su tutto e su tutti per concludere con il ritornello che suona:” ci pagano troppo poco”. Che tristezza. Eh sì, perchè diventiamo noi solo quando dobbiamo rivendicare pretese economiche per il resto “ognuno per sè e Dio per tutti”, in perfetto Italian style finchè si può ognuno coltiva il suo orticello per il proprio tornaconto personale che in questo ambito, considerando che non esiste una carriera, si riduce in qualche centinaio di euro in più assumendosi, però, compiti onerosi e impegnativi che non saranno mai ripagati da quelle cifre ma, vuoi mettere la soddisfazione di essere chiamato per nome dal Preside ed avere libero accesso ai segreti della Presidenza? Che tristezza![/quote]
Io credo che non poteva esprimere meglio tutto quello che in pochi mesi ho visto lavorando come ata ma con la formazione da docente. Se non son comincia a lottare Uniti per fare riconoscere la propria professionalità si sarà trattati così e anche peggio.