Il presente del passato. I Versi vissuti di Edith Bruck
Nata nel 1932 in un villaggio ungherese ai confini dell’Ucraina da una famiglia di origini ebraiche, Edith Bruck viene deportata nel 1944 prima nel ghetto del capoluogo e poi nei campi di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen, dove perde i genitori e un fratello. Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio in Europa e il tentativo non riuscito di trasferirsi in Israele, si stabilisce in Italia. Nel 1959 pubblica Chi ti ama così, in cui racconta l’infanzia poverissima e l’esperienza drammatica del Lager. Nel 1962 esce il volume di racconti Andremo in città, da cui è stata tratta, per le cure del marito, il poeta e regista Nelo Risi, una versione cinematografica. Edith Bruck ha da lì in poi sempre intrecciato la scrittura in versi e in prosa, di carattere autobiografico o romanzesco, all’interesse per il cinema, per il teatro e per la televisione, per la quale ha curato documentari e speciali su temi legati alla diversità, all’emarginazione e alla sofferenza. Ha inoltre tradotto, fra gli altri, i poeti ungheresi Attila József e Miklós Radnóti. La produzione narrativa, che copre un arco cronologico di quasi sessant’anni, conta più di venti opere: oltre ai testi già citati, si possono qui ricordare anche Le sacre nozze (1969), Mio splendido disastro (1979), Lettera alla madre (1988), Nuda proprietà (1993), L’attrice (1995), Signora Auschwitz (1999), Quanta stella c’è nel cielo (2009), La donna col cappotto verde (2012), La rondine sul termosifone (2017).
***
La produzione poetica di Edith Bruck è stata raccolta in Versi vissuti. Poesie (1975-1990), libro uscito per le Edizioni dell’università di Macerata (eum) nel 2018. Il volume, curato da Michela Meschini, riunisce le tre raccolte di poesia che Edith Bruck ha pubblicato nell’arco di un quindicennio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta: Il tatuaggio (1975), In difesa del padre (1980), Monologo (1990). Il libro è accompagnato da un articolato apparato paratestuale che prevede un’introduzione della stessa curatrice, una nota di Paolo Steffan, una postfazione di Edith Bruck, e ripropone la presentazione di Giovanni Raboni alla prima raccolta poetica, Il tatuaggio del 1975.
Questo libro ha il merito di rimettere in circolazione le poesie di Edith Bruck, non più reperibili, o non più facilmente reperibili. E lo fa allineando le tre raccolte che costituiscono l’intera o quasi opera poetica edita dalla scrittrice (si tenga presente che all’opera in versi di Edith Bruck si deve aggiungere anche il poemetto Specchi uscito nel 2005 e una serie di altre poesie edite sparsamente).
Colpisce senz’altro, nel contesto di una multiforme e poliedrica attività creativa, lo spazio preciso e temporalmente ristretto riservato non tanto alla poesia (pratica che la scrittrice afferma di non avere mai interrotto) quanto alla sua offerta pubblica, alla sua ricerca di un lettore concreto e personale; colpisce tanto più per il fatto che tutta l’opera di questa autrice è segnata da una forte, fortissima unità e coerenza nei contenuti e nella postura espressiva. Si tratta di un’opera che scaturisce da un trauma originario e immedicabile, che di necessità impasta esperienza e memoria e fa del presente una continua chiave d’accesso per il passato (e viceversa).
Certo, in linea generale, poesia e prosa svolgono due funzioni diverse: ma ciò è ancor più vero per questa autrice, che affida allo spazio circoscritto e protetto della poesia la possibilità di una più intima confessione, l’occasione di una libertà che significa anche abbandonare, almeno per un momento, la responsabilità pubblica del testimone per recuperare la possibilità di dire solo la ferita, la soggettività della ferita e della mancanza: «E quando avrà termine / questa missione? / Sono stanca della mia / presenza accusatrice, / il passato è un’arma / a doppio taglio / e mi sto dissanguando» (si tenga presente che la metafora del dissanguamento è centrale nella scrittura poetica di Edith Bruck).
Di fronte a questa emorragia che sembra non arrestarsi mai, la poesia, rispetto alla prosa, riesce a trovare un’espressione ancor più nuda e desolata, anzi disarmata: del resto «Di che cosa scrive un poeta se non dell’assenza, di ciò che manca sia dentro che fuori?» afferma l’autrice nella postfazione all’ultima raccolta (Versi vissuti, p. 233).
La poesia è l’interno, il nòcciolo, la cosa più dura e salda, ma è anche la fragilità e la nudità del testimone che si è tolto l’“armatura” pubblica e parla finalmente con sé stesso, solo per sé stesso, per parlare magari in questo modo ancor più autenticamente e intimamente a chi lo ascolta e lo legge. È in sostanza uno spazio al contempo inaccessibile ed esposto, privatissimo e generosamente offerto all’incontro con il lettore; un luogo, soprattutto, in cui si possono invocare tutti i nomi perduti, come quello della madre o del padre, dei fratelli, come anche dell’amato, e si può chiamarli ancora alla parola e al dialogo, si può ancora, almeno per un momento, ricucire lo strappo, tentare di elaborare, in presenza, il lutto. La poesia di Edith Bruck è dunque una poesia che ricerca sempre l’incontro; è anzi una poesia di incontri in cui il tu familiare o affettivo può anche aprirsi a un voi indeterminato: quello che conta è il contatto, la parola detta e offerta a qualcuno che la possa raccogliere.
Proprio per il fatto che questa è una poesia di incontri è anche una poesia sempre al presente: anche quando i tempi verbali sono di necessità al passato la scena o il dialogo che ci vengono restituiti sembrano sempre svolgersi nel presente, nel presente della mente, di una memoria che tiene tutto con sé, e che fa accadere di nuovo ogni volta tutto quanto la fa accendere.
Il tuo latte era già avvelenato
da un presagio minaccioso
le tue braccia stanche
non mi offrivano protezione
i tuoi occhi erano consumati dal pianto
il tuo cuore batteva per paura
la tua bocca s’apriva solo per pregare
o maledire me l’ultima nata che chiedeva rifugio […]
(Infanzia, vv. 1-8).
È come se per un momento, il momento appunto della rivelazione poetica, l’interlocutore non fosse assente, lontano, sparito dal tempo, ma fosse semplicemente nella stanza accanto, separato dall’io che parla da una parete fragile, sottile al punto da far sentire la presenza dell’altro, da lasciarne passare la voce.
Invocazione e colloquio intimo, tensione verso l’altro assente e apertura alla sua presenza interiore sono una cosa sola, testimoniano di una disposizione d’animo che può tenere insieme tempi diversi e lontani. Questa poesia ci dice chiaramente che se la perdita non può essere sanata, se l’assenza non può essere risarcita, e la memoria è un peso che può travolgere, è pure possibile trovare la forza – la forza anche disperata – di entrare in relazione con il presente, una relazione di pari dignità rispetto ad una memoria così dolorosa (e viceversa naturalmente).
Ed è ancora una volta il dolore a fare da elemento conduttore, il dolore del presente che si riallaccia a quello del passato e pure a quello del passato remoto dell’infanzia, di prima del grande trauma della deportazione.
Giovanni Raboni, nella presentazione a Il tatuaggio, con la consueta acuta forza di sintesi ha parlato di «contemporaneità impossibile e ineluttabile» aggiungendo che in questa poesia «ciò che accade è sempre già accaduto, ciò che è accaduto non finirà mai di accadere» (Versi vissuti, p. 38).
Si può allora dire che nella poesia di Edith Bruck convivono gli opposti: compresenza di tempi diversi (passato e presente, e a volte anche futuro), e di luoghi diversi (l’esterno e il lontano del campo di sterminio e l’interno decoroso e vicino della casa borghese, oppure gli spazi miseri e angusti della povertà patita nell’infanzia e la realtà apparentemente addomesticata della vita cittadina); naturalmente la compresenza degli opposti riguarda anche la dialettica di dolore e amore, di solitudine e immersione nella folla, di presenza ribadita mentre si dice l’assenza e viceversa.
La scrittura non può che raccogliere queste spinte contrastanti: la voce che parla dice di sé di essere «condannata al dolore / e alla bellezza in ugual misura» (p. 114), rivendica il suo «disperato ottimismo» (p. 83), denuncia perfino di essere stata da sé partorita in un «doloroso orgasmo». Insomma, pur nella costante proposta di un’intonazione colloquiale, che abbassa il registro senza attenuare la voce, al fondo di queste antitesi, di questi ossimori fondanti (si tratta forse della figura retorica più presente in questi testi), c’è evidentemente l’opposizione fondamentale tra vita e morte, che in effetti trova qua e là anche il modo di dirsi: «l’unica cosa viva era la morte» (p. 80), «la cosa più viva / è la loro fine» (p. 154) ecc.
Sembra proprio che in quel luogo-contenitore che è la poesia per questa autrice, tutto possa alla fine trovare posto, se non ricomposizione. Nella nota che accompagna la sua prima raccolta, Tatuaggio, Edith Bruck scrive: «fin da bambina invece di pregare la sera a letto leggevo le poesie […] ero convinta che la poesia fosse profezia, la poesia fosse la follia dei puri, degli innocenti; la poesia non nasconde né inganna e le poesie riuscite, valide, belle contengono bellezze e verità assolute […] non saprei neanche oggi dire cosa è questo mio libro, so soltanto che questi versi sono nati improvvisamente in uno dei momenti più disastrosi della mia vita e mi erano necessari come ancora di salvezza […]. Ora che forse le mie poesie sono il riassunto di tutto quello che ho scritto, mi trovo di fronte un libro che mi imbarazza» (Versi vissuti, p. 40). L’idea di un rapporto stretto tra poesia e verità, tra poesia e profezia (ma potremmo probabilmente anche aggiungere tra bellezza e salvezza), si intreccia qui con una dimensione istintivamente e autenticamente religiosa, radicata nell’animo incorruttibile di una bambina. È proprio ciò che genera la confessione di imbarazzo finale, il senso di una vicinanza, di una prossimità a ciò che più ci scopre e ci lascia nudi di fronte all’altro. Ma anche accettare questa nudità e questo imbarazzo è segno di forza e di fiducia nella parola poetica, nella sua possibilità appunto di farsi profezia.
Ecco allora un altro paradosso di questi versi: una poesia che nasce da un trauma così profondo, che è così attraversata dalla sofferenza e così intrisa di dolore immedicabile può anche guardare oltre quel dolore e interessarsi del futuro perché nonostante tutto, e al di là di tutto, non si è chiusa alla speranza. L’ottimismo è disperato ma è pur sempre ottimismo.
Del tutto coerente con questa impostazione è allora il titolo scelto per questa silloge complessiva: Versi vissuti. Un titolo che sembra attestare il primato della parola sulla vita, e che dunque conferma il valore altissimo che ha la parola poetica per questa autrice.
Si tratta di una posizione che ci riconduce immediatamente ad un orizzonte poetico ungarettiano; l’Ungaretti che sceglie come titolo per la sua opera complessiva Vita di un uomo (altro è invece l’orizzonte di un Giudici, che ha come programma quello di mettere in versi la vita). E d’altra parte, di ungarettiano, di vagamente ungarettiano questa poesia ha anche qualcos’altro: al di là delle – non troppo frequenti in verità – analogie immediate («sono umida terra […] ho voli brevi», p. 95; «Sono stata […] una cavalla da tiro / una cagna randagia», p. 109; «la solitudine è un ventre materno buio e silenzioso», p. 138; anche con il trattino «madre-cielo […] cielo-madre» p. 105 ecc.), o di qualche ricordo testuale – come «il pedaggio lo si paga / vivendo» (p. 157) che rifà «la morte si sconta vivendo» di Sono una creatura – la poesia di Edith Bruck ricorda figurativamente, a partire dall’aspetto che assume sulla pagina, la “verticalità” della prima poesia ungarettiana (quella del Porto sepolto). I testi di queste poesie infatti si sviluppano in verticale piuttosto che in orizzontale; non cercano il ritmo del verso ma il più delle volte lo spezzano isolando parole singole. Tutt’altro che ungarettiana è invece la sintassi che non è frantumata ma si sviluppa con linearità, senza particolari turbamenti giovandosi, per realizzare quella verticalità, di semplici e insistite catene anaforiche, che quando non rappresentano l’unico punto di appoggio per la struttura del testo si snodano in più o meno ampi elenchi che denunciano il desiderio o la necessità di colmare con il verbo, con la parola, ogni residuo di vuoto: «la morte fisica / la morte dei sensi / la morte che occupa / sempre più spazio» (p. 102); «con la mia vita / con ogni mio gesto / con ogni mia parola / con ogni mio sguardo» (p. 103); «il tuo grembiule / sapeva di mestruo / di farina / di pane caldo / di grano fresco / di gioia / di paura / di morte / di tutto / di niente» (p. 120); «sarai con me / […] / siamo sole / mia tiranna / mia pena / mia madre notturna» (p. 148); «Finalmente mi appartieni / sei mia madre / mia figlia / mia schiava / mia fonte di gioia / mia origine» (p. 150) ecc.
Riconoscere l’unità e la coerenza di impostazione di questa voce poetica non significa denunciarne la staticità, o non riconoscerne la sensibile evoluzione interna. Nel passaggio dalla prima alla terza raccolta infatti accadono alcune cose, si nota bene un percorso evolutivo che porta ad una maggiore apertura alla realtà (il corpo stretto al proprio dolore e raggomitolato di cui parla Raboni funziona benissimo come immagine per Tatuaggio, ma meno bene per la terza raccolta in cui l’amore ha senz’altro uno spazio più ampio, come anche la ricerca da parte dell’io di un posto nel mondo meno precario), e d’altra parte si nota anche un maggiore interesse o una maggiore attenzione per la forma e la struttura stessa del testo, che in Monologo si divide anche in strofe o in parti numerate che si rispondono l’una all’altra, mentre anche il verso si distende in misure più generose e ritmiche (si veda ad esempio la struttura, anisosillabica ma perfettamente coerente sul piano ritmico, dell’incipit di L’ultima visita: «Lì / tra le rovine del nido di un tempo / sul suolo fangoso del tempio distrutto / nel cimitero sepolto da ortiche […]»).
La stessa autrice in effetti, consapevolmente, parla per le poesie della terza raccolta di «versi un po’ più saggi, partoriti dalla mente e non dal ventre, anche se passati per il corpo» (p. 233). Nella continuità della metafora fisica, materna, conta il cambio di sede, che si addice ad un rapporto più saldo e maturo con la propria dolente materia.
A fare la differenza insomma, e a spingere in direzione magari di un tono più vicino a quello della poesia del marito, Nelo Risi, è il piglio narrativo, la voglia di distendere la parola. La tensione verticale di Ungaretti si scioglie in un discorso dal tono sempre sobrio e colloquiale, si vorrebbe dire ancora più fraterno. Ancora una volta un paradosso: verticalità e orizzontalità; concezione della poesia come assoluto e insieme desiderio di dire, e di dire la vicinanza all’interlocutore e al lettore.
Si crea dunque un campo di tensione tra il titolo della silloge e l’opera poetica di Edith Bruck che è un’opera che testimonia della forza paziente di chi riesce a smuovere la montagna del proprio dolore, magari solo per passare ad un altro dolore. Risuonano in questo senso pienamente consonanti I versi di Vittorio Sereni:
«Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi».
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