La riscrittura parodica a scuola
1.LETTERATURA E PARODIA[1]
Capita – e purtroppo non è di rado – che gli studenti sviluppino nei confronti delle discipline che gli vengono insegnate forme di distanza e di rifiuto. Questo probabilmente è dovuto alla percezione della separatezza fra le istanze dell’insegnante e le condizioni reali in cui l’insegnante si trova ad operare oggi nella scuola: la trasmissione di saperi, vissuti spesso da chi insegna come “assoluti” (e ciò con buona pace di decenni di dibattiti e ricerche sulla didattica) stride con il dettato della “spendibilità” dei saperi stessi, con la prassi a volte mortificante della valutazione, persino – spesso – con l’angustia dei luoghi in cui l’insegnamento avviene. Questo rifiuto e questa distanza, nel caso della letteratura si contrassegnano con una cifra ulteriore di diffidenza: spesso per uno studente verificare la spendibilità della Letteratura (il famigerato “a che mi serve?”) è possibile solo quando abbia conquistato quei territori in cui si annulla l’impiego contingente del sapere nella fruizione diremmo “esistenziale” di esso; la qual cosa non è detto che accada necessariamente negli anni della scuola, anzi, più spesso è consapevolezza che matura nel tempo e fuori dal ciclo e dai luoghi dell’istruzione scolastica.
Per questa strada la letteratura diviene più facilmente strumento per la ricognizione del disagio piuttosto che strumento per formulare risposte alle domande di senso e va incontro così alla sua parodizzazione. Non è detto che sia un male: l’insegnante può usare la parodia come grimaldello non solo per facilitare agli studenti recalcitranti l’ingresso nella letteratura, ma per suggerirne le potenzialità di riutilizzo, di autentica spendibilità nella propria esistenza.
2. L’USO DIDATTICO DELLA PARODIA
Non è solo l’atteggiamento di distanza critica a rendere seducente la parodia.
La parodia non mira direttamente alla realtà, ma alla sua rappresentazione, quale essa rinviene già codificata e semioticamente modellata, in enunciati di cui può fare un uso metalinguistico e critico.[2]
E’ piuttosto questo meccanismo operativo e la conseguente ricezione di esso che rende la parodia uno strumento didattico impagabile. L’oggetto della parodia (la letteratura, nel nostro caso), per essere appunto parodizzato, deve necessariamente e inequivocabilmente essere riconosciuto dagli studenti nei tratti che lo distinguono da altri oggetti apparentemente uguali o simili, conosciuto in ognuna delle sue componenti, smontato e ri-assemblato. Se l’aspetto più vistoso della parodia sembra essere quello trasgressivo, di eversione del modello, è innegabile che essa funziona solo nella misura in cui riesce anche a conservare i tratti importanti, significativi del modello medesimo.
Nella didattica della letteratura questo significa mettere in atto meccanismi di comparazione e scandaglio dei testi che consentono allo studente di coglierne la polisemia e di rilanciarne significati nuovi, cioè di mettere in atto quel lavoro di “interpretazione” capace di restituire al testo un valore plausibile per chi vi si relaziona. Pertanto, attraverso il lavoro di riscrittura parodica di testi noti, lo studente impara ad essere per se stesso “maestro del sospetto” e, superando il timore o l’uguale e opposto pregiudizio nei confronti della letteratura “alta”, infrange convenzioni e taboo e impara usare il testo letterario come veicolo per esprimere disagi, denunce, proteste, utopie, ma anche “quel che resta”, quel che intende conservare per sé.
3. ALLA SCOPERTA DELLA PARODIA
Questa riflessione è confortata dai risultati di un lavoro svolto in una classe liceale.
Il lavoro era stato intrapreso quando gli studenti erano in terza liceo scientifico e la sua finalità era nient’affatto parodica[3]. Alla base c’era una operazione di comparazione e di scandaglio: muovendo dall’analisi comparata di numerosi sonetti scelti come campioni di questo genere poetico, la classe era stata sollecitata a coglierne relazioni, costanti e scarti tanto strutturali quanto tematici e contenutistici. Benché fosse prevista la riscrittura, essa era tuttavia indirizzata alla riappropriazione del testo letterario e alla domanda sulla plausibilità per sé del testo letterario – struttura e contenuto; per sé, dicevo, cioè per quegli studenti che intraprendevano – proprio con il genere del sonetto – il percorso all’interno della Storia della Letteratura. E infatti, prima di cimentarsi nella riscrittura, gli studenti avevano letto, analizzato, comparato decine di sonetti da Jacopo da Lentini a Dante Alighieri, da Guido Cavalcanti a Francesco Petrarca, fino a redigere quello che per comodità fu chiamato “ schema delle costanti del sonetto” e qui di seguito si riporta:
1 – Il sonetto è una struttura rigorosa ma non rigida, formata da due quartine e due terzine di endecasillabi
2 – Questa struttura risponde a un’istanza ragionativa: le quartine sembrano destinate a porre un problema, una questione, un dilemma, un bivio; le terzine sembrano destinate a contenere l’esito, la conclusione del ragionamento, ma non necessariamente la soluzione del dilemma; l’endecasillabo è un verso esteso e quindi consente, più di un verso breve, di rappresentare un ragionamento che ha bisogno di organizzazione sintattica e che – per trovarsene una adeguata – ricorre volentieri a inversioni, anticipazioni, ripetizioni etc: insomma, alle figure retoriche.
3 – Il sistema delle rime è variabile tanto nelle quartine quanto nelle terzine, ma nelle quartine le opzioni sono più ridotte e vincolate di quanto non siano nelle terzine: insomma “quando s’inquadra un problema le opzioni sono giusto due o tre, ma quando si va risolverlo, gli esiti possono essere infiniti!” (cito letteralmente i miei studenti!)
4 – L’esito non è necessariamente “logico”: può trattarsi di conclusione solo “esistenziale”, sprovvista di coordinate di riferimento logicamente percorribili.
5 – Il sonetto non contiene solo ragionamenti d’amore, ma è uno schema di ragionamento flessibile: si presta anche alla riflessione spregiudicata e irriverente sulla società, alla riflessione esistenziale, alla riflessione sui ruoli etc.
6 – Pertanto il sonetto non è avulso dall’epoca che lo genera, non è il prodotto di un gruppo di sognatori scollati dal reale: è veicolo di rappresentazione del dubbio, della sospensione del giudizio, ma ciò che rende problematici dubbio e giudizio è la consapevolezza di essere figli di un’epoca, di un contesto reale con cui dover fare i conti.
Redatto lo schema, non senza difficoltà, gli studenti passarono alla stesura dei sonetti, con difficoltà ancora maggiori. Tanto che, indispettiti, chiesero all’insegnante di scriverne uno lei. E l’insegnante propose loro questo:
S’io fossi un genio, sarei Cavalcanti,
e se notaio, Jacopo sarei;
s’io fossi Dante che problemi avrei?
Di versi coprirei un po’ tutti quanti!
S’io fossi Lapo, Vanna sposerei
E mi godrei vasel e incantamento,
e certo ogni dissidio, ogni tormento
e la Laura a Petrarca lascerei!
S’io fossi Arte, a me verrei in soccorso,
s’io fossi alunno, da me fuggirei;
e se stata non fossi per concorso
la prof un poco rompi che oggi sono,
del mancato coraggio avrei rimorso,
della scuola non capirei il dono.
[S’i fosse fuoco, arderei ‘l mondo; / s’i fosse vento, lo tempestarei; / s’i fosse acqua, i’ l’annegherei; / s’i fosse Dio, mandereil’ en profondo; // s’i fosse papa, allor serei giocondo, / ché tutti cristiani imbrigarei; / s’i fosse ‘mperator, ben lo farei; / a tutti tagliarei lo capo a tondo. // S’i fosse morte, andarei a mi’ padre; / s’i fosse vita, non starei con lui; / similemente faria da mi’ madre. // Si fosse Cecco com’i’ sono e fui, / torrei le donne giovani e leggiadre: / le zoppe e vecchie lasserei altrui].
C’era, nel componimento pur discutibile dell’insegnante, che avvertiva il fastidio e la difficoltà dei suoi allievi, un esplicito invito alla parodia: esplicito era il modello di più stretto riferimento, a sua volta in qualche modo parodia d’altri, ma espliciti anche i rimandi ad altri modelli, ad altri contenuti non meno noti agli studenti di quanto fossero le provocazioni in versi di Angiolieri. Ma nessuno raccolse l’invito: gli studenti si presero tutti enormemente sul serio e scrissero i loro sonetti badando a che la struttura complessa che avevano imparato a conoscere e a rifare fosse veicolo di contenuti problematici, all’altezza di quella complessità. Alcuni erano anche belli, ma parodico proprio nessuno. Tranne uno, non esattamente parodico, ma di segno sensibilmente diverso; questo di Silvia:
Osservo i miei compagni diligenti
presi dal loro sonetto profondo
in cui rime e parole seducenti
danno vita ad ameno sottofondo.
Osservo i miei bei versi indisponenti
in quanto con le sillabe io abbondo
e con vocaboli poco attinenti
dò vita ad un funesto girotondo.
Le mie idee ancor non molto chiare
nuotano libere nella mia mente
come pesci sperduti in mezzo al mare;
chiuse in schemi incapaci son di stare,
non posson esser lette dalla gente,
l’animo mio impediscon di svelare.
L’insegnante fece notare agli studenti la peculiarità di questo componimento che – solo fra tutti – aveva privilegiato la “riflessione spregiudicata e irriverente” indicata dal loro schema come alternativa rispetto al ragionamento d’amore o alla riflessione più estesamente esistenziale. I compagni sorrisero della originalità e la cosa si chiuse lì.
Fu soltanto l’anno scolastico successivo, mentre si dibatteva sul Manierismo, che cominciò a delinearsi con chiarezza che il sonetto di Silvia aveva messo in atto meccanismi parodici e che ad essere parodizzata era stata proprio la “maniera”: gli studenti compresero di aver “rifatto un modello”, riconoscendone il valore per sé, e che questo li aveva fatti sentire “manieristi”; ma, a differenza dei manieristi, loro avevano rifatto il modello perché gli era stato “imposto” e perché non sapevano farne uno alternativo, finendo in qualche modo per essere una parodia dei manieristi, e non dei manieristi veri e propri. Si riprese allora in mano l’intero Canzoniere degli studenti e lo si rilesse alla luce delle esperienze sonettistiche nuove – da Tasso a Shakespeare a Foscolo; e il “gioco” continuò incessantemente fino al termine dell’anno scolastico successivo e conclusivo del quinquennio liceale, incrementato da nuove esperienze e da nuove letture non solo di sonetti (Saba o Caproni, per esempio), ma anche dalle parodie canonizzate dalle letterature italiana e latina (Morgante o Bratacomiomachia o Lasciatemi divertire etc, Apokolokyntosis o Satyricon etc.).
4. STUDIARE LA PARODIA, SCRIVERE LA PARODIA
Va messo in evidenza, tuttavia, che far studiare le parodie agli allievi è cosa diversa da fargli scrivere una parodia: nel primo caso lavorano su un genere e ne assimilano gli elementi strutturali, li descrivono, li riconoscono, li usano come strumenti di accesso a quel tipo di testo e a quel tipo di situazioni esistenziali di cui il testo è portatore e che anche la loro vita può presentargli. Ma, nel secondo caso, li usano per rappresentare: e la posta in gioco si fa più alta, il movimento triplice: riappropriazione degli strumenti parodici letterari, riappropriazione della propria esistenza, trasferimento degli strumenti parodici dalla letteratura al sé. E quest’ultimo movimento non è scontato né indolore. Un conto è che la letteratura si prenda in giro, un conto è quando devo prendere in giro me. Se per Gombrowicz tutto è parodia, inclusa la forma letteraria, direi che è più facile, per gli studenti al principio dell’esperienza parodica, comprendere e accettare questo piuttosto che anche la propria vita sia “forma” e che dunque l’oggetto della parodia possa essere la propria vita: l’oggetto della parodia è la letteratura, la propria vita resta una faccenda molto seria. Parodizzano il modello, ma si guardano bene dal fare parodia sul modello rappresentato da sé.
Anna – per esempio – ha fatto la parodia dell’intoccabile “A Zacinto”:
Né più mai toccherò le vecchie sponde
ove il mio corpo fanciulletto crebbe
recluso! Fui un ramo senza fronde,
un fiore non sbocciato che mai ebbe
petali o spine! Quel greco mar era
il mio confine, io un Ulisse privo
di navi, che guarda la notte nera
senza trovar tra le onde un motivo.
Ora il mio piede si muove leggero
nuoto tra i flutti, inseguo le stelle
e più non penso a quell’isola oscura
ma i pensier di quell’anima folle
che sulla spiaggia fissava il sereno
renderan vera la mia sepoltura.
[Né più mai toccherò le sacre sponde / Ove il mio corpo fanciulletto giacque, / Zacinto mia, che te specchi nell’onde / Del greco mar, da cui vergine nacque // Venere, e fea quelle isole feconde / Col suo primo sorriso, onde non tacque / Le tue limpide nubi e le tue fronde / L’inclito verso di colui che l’acque // Cantò fatali, ed il diverso esiglio / Per cui bello di fama e di sventura / Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. // Tu non altro che il canto avrai del figlio, / O materna mia terra; a noi prescrisse / Il fato illacrimata sepoltura.]
ma ciò che più rileva, al di là del sonetto, è l’interpretazione che lei stessa ha fornito del suo lavoro:
Poi mi sono ricordata di questa poesia, e di Foscolo che metteva a confronto le azioni dell’eroe moderno e quelle dell’eroe antico, Ulisse, che può tornare a Itaca e essere da tutti riconosciuto proprio grazie a quel patrimonio di valori comuni che caratterizzava il mondo greco. Zacinto è per l’io lirico un simbolo di quella dimensione mitica che lui non potrà mai raggiungere. Il mio io lirico invece a Zacinto ci è vissuto, e non vedeva l’ora di andarsene! Sa benissimo che la dimensione mitica non è più possibile, e rimanere lì non gli faceva far altro che misurare la distanza incommensurabile tra se stesso e quella condizione di eternità.
Andare via da Zacinto è l’occasione per cominciare ad agire e, pur facendolo “inseguendo le stelle”, cioè senza arrivare a nessun concreto risultato, l’io lirico è felice. Ma può esserlo solo perché il misurare costantemente la distanza tra se stesso e l’esterno che la condizione di isolano gli ha regalato gli ha permesso di creare una “propria” dimensione mitica, in cui le speculazioni del passato danno un senso agli eventi del presente.
Questa parodia va nella direzione della “conservazione”, piuttosto che in quella della sovversione: una nuova eroina al posto del vecchio eroe, nuovi valori al posto dei vecchi, ma la convinzione incrollabile che ci vogliano gli uni e gli altri. In qualche modo il sonetto di Anna, se rovescia il testo di riferimento, ne riconosce anche sostanzialmente il valore.
Invece Giulia ha messo in versi le sue inquietudini da neoilluminista, tormentata, non meno di Luigi Galvani (che del sonetto è la voce recitante[4]), dall’esistenza della materia e della sua “anima”. Le istanze del sonetto sono dichiaratamente parodiche, nel titolo, che esplicitamente rifà il verso a Guinizzelli (Io voglio del ver la mia rana laudare), ma anche nel pastiche di vocaboli, immagini, rimandi che diremo genericamente “medievali”:
Io voglio del ver la mia rana laudare
e assemblarne zampette ed arti misti
in viscida dama vuol trasmutare
unta dai sogni di antichi alchimisti.
Smunta ranocchia, non puoi gracidare
monchi et pretiosi colori esibisti
fin che tu’ anima volli ammirare
clarita et bella fulminea peristi.
Laudata sii per tu’ electricitati,
unica domina de li scienziati
di canoscenza loro innamorati.
Passan per via le tue zampe animate,
Vanna, Beatrice e le altre amate
ora saltellano decapitate!
[Io voglio del ver la mia donna laudare / ed assembrarli la rosa e lo giglio: / più che stella diana splende e pare, / e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. // Verde river’ a lei rasembro a l’are, / tutti color di fior’, giano e vermiglio, / oro ed azzurro e ricche gioi per dare: / medesmo Amor per lei rafina meglio. // Passa per via adorna, e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute, / e fa ‘l de nostra fé se non la crede: // e no ‘lle po’ apressare om che sia vile; / ancor ve dirò c’ha maggior vertute: / null’om po’ mal pensar fin che la vede]
Giulia esordisce dichiarando l’intento parodico nell’abbassamento, rispetto al modello, dell’oggetto della lode e prosegue al secondo verso giocando la carta del cambiamento consonantico rassembrare/rassemblare per ribaltare del tutto l’atteggiamento del poeta rispetto all’oggetto stesso: contemplativo quello di Guinizzelli, attivo quello dello pseudo-Galvani. Della bellissima donna guinizzelliana resta già al termine della prima quartina solo una sconcertante imitazione, la viscida dama in cui lo splendore della stella diana si stempera nell’unto traslucido dell’alchimia mancata, della mancata trasformazione in oro. La luminosa tavolozza stilnovista perde infatti proprio l’oro della seconda quartina di Guinizzelli e i colori pretiosi et clariti elencati nel modello diventano così monchi: ad Amore, l’artefice guinizzelliano dell’operazione di raffinazione, si sostituisce un artefice umano-troppo-umano che, tentando un’operazione analoga – estrarre l’anima per ammirarla-, si macchia immediatamente di un grande peccato di hybris, perché non si contenta che siano le sembianze esterne – appunto pretiose et clarite – “a miracol mostrare”, ma pretende di far lui il miracolo e attingere all’inattingibile, al dogma supremo. Non a caso dunque Giulia va a riprendersi non tanto o non solo la claritate cavalcantiana, ma il dizionario francescano del Cantico, esplicitamente rievocato nella prima terzina, per rappresentare l’enormità della conseguenze scatenate da quel banalissimo cambiamento di segno iniziale, del cambiamento della donna in rana. E assai opportunamente fa coincidere le scoperta sconvolgente con l’inaugurarsi delle strofe conclusive, quelle che – per usare lo “schema” degli studenti – contengono appunto l’esito: venuta meno la donna-angelo, la rana non ne è nemmeno il sostituto parodico in forma di viscida dama, ma solo rana-dello-schermo che nasconde ben altro oggetto d’amore: la “canoscenza” dell’Ulisse dantesco, con quel che ne segue. Il rituale del passaggio slitta dunque in chiusura, e la rana passa, disarticolata e irriconoscibile, assemblaggio di Vanne e Beatrici, come una sorta di mostruoso Frankstein.
5. CONCLUSIONI
Non è questa la sede per passare in rassegna tutti i lavori degli studenti, qui citati solo a titolo d’esempio. Ma forse ancora un breve racconto può servire a siglare questa riflessione: la dice lunga infatti sulla parodia e su quel che succede quando l’oggetto parodico si sposta dalla letteratura al sé. E’ lo stralcio di una difficile discussione fra Chiara, in procinto di iscriversi all’università e quindi persa fra bilanci d’ogni genere, e la sua insegnante di italiano. “Prof” – dice Chiara sospirando, senza venire a capo dei problemi in cui si sente invischiata – “prof, SE IO FOSSI UN SONETTO, SAREI SOLO QUARTINE!”.
[1] Questo articolo è la riduzione di una comunicazione tenuta al XIII Convegno annuale Compalit “Chi ride ultimo – parodia satira umorismi” – Napoli, 16-18 dicembre 2015, ora in Le competenze dell’italiano a cura di N. Tonelli, Loescher, Torino 2016, a cui si rimanda per le singole tappe del percorso illustrato e per la bibliografia.
[2] M. Bonafin, Contesti della parodia, cit, p. 38.
[3] Ho già dato notizia della prima parte di questo lavoro in Insegnare letteratura per competenze: una riflessione di metodo e una proposta in Per una letteratura delle competenze a cura di N. Tonelli, Loescher, Firenze 2012, pp.145-156.
[4] «L’io-lirico del sonetto è Luigi Galvani, scienziato di epoca illuminista, totalmente ossessionato dai suoi stessi esperimenti. Trascorse la sua vita a osservare in che modo i muscoli delle zampe di rana, a contatto con dei metalli o durante un temporale, si contraessero (dopo la morte). Così, senza rendersene davvero conto, fu lo scopritore dell’elettricità biologica. Non seppe mai mettere insieme i dati raccolti con un metodo scientifico (illuminista) nei suoi numerosi esperimenti. Anzi, a causa della sua vocazione religiosa, a furia di dissezionare cadaveri di rana, si convinse di aver dimostrato l'”esistenza dell’anima”». (Dal Commento di Giulia al suo sonetto).
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