Perché (Ri)leggere Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante
Una favola per lo Zeitgesit del Sessantotto
La “giornata della letteratura”, quest’anno dedicata a Il Sessantotto. I protagonisti, i libri, le idee, mi ha messo di fronte alla necessità di ridefinire la mia memoria di quei fatti. Cresciuta non so se all’ombra o nel mito o forse addirittura invidiando il Sessantotto dei miei (non sempre buoni) maestri, in questo 2018 di rievocazioni, retrospettive e seminari di studio ho compreso che la mia memoria era fragile, e non solo per le ragioni anagrafiche che ovviamente mi tagliano fuori dal novero dei testimoni diretti, ma perché (come spesso accade al passato quando è ancora troppo vicino) ho ritenuto a lungo quei fatti a portata di mano, come un agile passe-partout.
La prima volta che i miei studenti mi hanno chiesto di suggerire loro quei libri, quei romanzi, quelle poesie che io ritenessi esemplari di una presunta “letteratura del Sessantotto”, in men che non si dica mi sono ritrovata impelagata in una serie di speciose distinzioni: romanzi sul Sessantotto, ambientati nel Sessantotto? Oppure libri scritti/pubblicati nel Sessantotto? O ancora opere di ispirazione “sessantottina”, portatrici di un supposto Zeitgeist databile a quegli anni? Gli studenti avevano già letto L’uso della vita e alcune pagine nodali de L’ultima sillaba del verso, davvero fra le pochissime narrazioni del Sessantotto, e non volevo aggiungere dell’altro. E quando mi sono provata a stilare una lista di opere scritte/pubblicate nel 1968 (e dintorni), ne ho ricavato un repertorio disparato di autori, intenti, contenuti, fra i quali era francamente non solo complicato, ma forse addirittura illecito e dannoso cercare tanto un denominatore comune (il rischio era una frazione infinitesimale di significato), quanto un comune multiplo (il rischio era un infinito sovraccarico di sensi). In assenza di una corrente letteraria che, sul calco di tanti ismi, sia legittimo chiamare sessantottismo, mi sono fatta molti scrupoli nell’attribuire a una o più opere un titolo di “esemplarità”: più che una potente investitura, un’etichetta riduttiva.
Ma c’è un libro che forse più degli altri mi è sembrato avere le credenziali per superare indenne il rischio di una marchiatura a scadenza: quel libro è Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e le credenziali portano le firme di Pierpaolo Pasolini e di Cesare Garboli.
Esso non può non piacere, ma piace, per così dire, inconsapevolmente. Forse il troppo piacere che dà il leggere questo libro, sempre inconsapevolmente, lo fa apparire come una cosa poco seria, una delizia e basta. Invece il libro della Morante è addirittura un manifesto politico. Il manifesto politico, potrei dire paradossalmente, di quella nuova sinistra che in Italia pare non poter esistere, crescere, riaffondando subito nel vecchio qualunquismo, e nel complementare moralismo. Un manifesto politico scritto con la grazia della favola, con umorismo, con gioia (…). Ed è dunque arduo per un lettore e un critico comprendere come, invece, il fondo di questo libro sia atrocemente funebre, e contenga tutte le ossessioni del mondo moderno: l’atomica, la morale dei consumi e il profondo desiderio di autodistruzione, non più come flatus vocis o luoghi comuni, ma come elementi assolutamente originali e vissuti personalmente, dentro un sistema linguistico così comunicativo da scandalizzare.[1]
(…) “Il mondo salvato dai ragazzini” è un libro leopardiano: una storia privata, un romanzo autobiografico vissuto in termini universali. Tutte le cose che accadono a Elsa Morante sembrano appartenere a una favola scritta da sempre, come se a lei toccasse non di viverle, ma di riviverle nel minuscolo, prodigioso evento della sua esistenza, in questo piccolo punto dell’universo. Il tema essenziale del libro è la rivolta contro la “irrealtà”, la liberazione dalle false immagini mutilate e ottuse della realtà in cui viviamo.[2]
A me, cinquant’anni dopo, questo libro non è mai sembrato, in nessuna delle parti che lo compongono, “una delizia”, quanto piuttosto e sempre “atrocemente funebre”; ma comprendo bene perché sia Pasolini che Garboli lo ritenessero “una favola”. Indagando in quegli anni la consorella fiaba, Calvino aveva scritto:
(…) le fiabe sono vere. Sono (…) una spiegazione generale della vita (…); sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, che sovente porta in sé un auspicio o una condanna (…); la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto (…); (…) lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari…[3]
E Morante stessa, quasi vent’anni prima, Alla favola aveva dedicato fra i versi più belli di Alibi:
Di te, Finzione, mi cingo,
fatua veste.
Ti lavoro con l’auree piume
che vestì prima d’esser fuoco
la mia grande stagione defunta
per mutarmi in fenice lucente!
L’ago è rovente, la tela è fumo.
Consunta fra i suoi cerchi d’oro
giace la vanesia mano
pur se al gioco di m’ama, non m’ama
la risposta celeste
mi fingo.
Sta qui – io credo – la ragione principale per cui (ri)leggere questo libro di Morante: in questa capacità tutta fiabesca di usare l’ago rovente come oggetto fatato per trasformare in eventi prodigiosi i destini comuni di una generazione sofferta, per trasformare in eroi ed eroine i Felici pochi tesi verso la “liberazione dalle false immagini”, che è conquista della “autodeterminazione” e, insieme, profondo convincimento di “non potersi liberare da soli”; sta in questa fiducia incrollabile nella giovinezza come “farsi di un destino” in cui i ragazzini possano appunto salvare il mondo, perfino un mondo atrocemente segnato dalla follia della guerra e del nazismo:
Niente davvero è più tragico
della pazzia
in forme indecenti: e riderne, certo, non sarebbe giusto. Ma gli angeli, dopo tutto, sono pure dei ragazzetti
anzi, più allegri, in quanto angeli, di tutti i ragazzetti possibili
e al vedere l’espressione alienata di quei tre personaggi[4],
come davanti a uno spettacolo buffo si dànno liberamente a un’ilarità indescrivibile
quasi sfiatandosi dal gran ridere e ballando
per più di mezzo minuto là sospesi nel cielo.[5]
Una bussola per arrivare dal mondo offeso al mondo salvato
Il libro è composto da tre parti, scritte in momenti diversi, diseguali per genere, estensione, suddivisione interna. Ma qualcosa le tiene insieme, qualcosa di evanescente e solido al tempo stesso. La prima e l’ultima parte contengono liriche – sebbene assai differenti fra loro: poemetti, canzoni, poesie visive. La prima parte, quella che apre la raccolta, è paradossalmente un Addio, dedicato (ma quanto rileva?) all’amico-amante americano, il pittore Bill Morrow, morto tragicamente; ed è la parte più compatta, serrata, disperata. L’ultima parte, quella delle Canzoni popolari, è a sua volta suddivisa in due: la prima è la celebre Canzone degli F.P. (Felici Pochi) e degli I.M. (Infelici Molti), la seconda reca – significativamente in chiusura – il titolo noto al lettore già in apertura, perché è quello dell’intera raccolta. Al centro, fra le due, La commedia chimica già nel titolo suggerisce l’accostamento spregiudicato dei versi visionari (un po’ tutti cartoline dal Paradiso[6], se davvero rileva – ma rileva? – che Morante li abbia scritti “a margine” delle sue esperienze con gli allucinogeni, sulla scia dell’amata beat generation) al dramma – in qualche modo metateatrale – della Serata a Colono, l’atto unico nel quale, accanto a Sofocle, trovano posto Hoelderlin, il venerato Rimbaud, Ginsberg e molti altri.
In questa complessa architettura risiede (a mio avviso) la seconda ragione per (ri)leggere Il mondo salvato. C’è un’idea-guida molto forte, capace di condurre il lettore nell’attraversamento delle “parti”, dei piani, dei temi che lo compongono; ed è una vicenda di morte e resurrezione che ha al centro (e non all’inizio) un doloroso, e però liberatorio, calvario. La contemplazione raggelata e agghiacciante della morte e della disperazione, la notte celeste senza resurrezione, è misterioso e vitale attivatore del percorso di espiazione di un dolore che l’umanità sembra aver inflitto colpevolmente a se stessa e che è percepito dapprima come individuale, poi come collettivo; e prima individuale e poi collettivo è il percorso di espiazione e redenzione affinché il mondo offeso diventi mondo salvato. Ai versi “intimi” e serrati della prima sezione fanno da controcanto quelli quasi epici della terza: significativa è l’indicazione che ci viene tanto dal recupero dell’aggettivo “popolari” accostato alle “canzoni”, quanto dal recupero del Poema come genere poetico. Scelgo fra i moltissimi esempi possibili:
Forse, io devo accettare tutte le norme del campo:
ogni degradazione, ogni pazienza.
Non posso scavalcare questa rete spinata
mentre al tuo grido innocente non c’è risposta.
La tua morte è una luce accecante nella notte,
è una risata oscena nel cielo del mattino.
Io sono condannata al tempo e ai luoghi
finché lo scandalo si consumi su di me.[7]
E però, quando lo scandalo si è consumato su questa nuova Eva,
Lei ride lei ride
perché, staccandosi da una croce,
le viene incontro,
fresco assolato ridente
il ragazzo Adamo.[8]
E questo ragazzo, sceso dalla croce, è pronto a risalirci, dopo le torture, con una consapevolezza nuova: sciolto il grumo sanguinoso sulla sua faccia in un vapore, ne esce tremando/ con la faccia lavata e intatta, di un colore fresco di salute e pronuncia parole di speranza paradossale: senza alcuna retorica, una importante lezione da rilanciare, e non solo per le giovani generazioni.
Non vi nascondo
che questa è per me una mattinata piena di spasimi e di paura.
Ma non fa niente. Lasciamo che passi,
e voi non datevi pena di me.
Io so una cosa
e adesso voglio farvela sapere segretamente pure a voi
anche se saperla non ci basta. Ma poveri tutti questi altri qua che non la sanno!
Io per me ne sono certo, perché ormai la vedo
(pure se a vederla ancora non ci basta!)
E voi non ne dubitate. Credete alla mia testimonianza.
Io vi dico:
PURE SE CI FA TREMARE
PER GLI SPASMI E LA PAURA
TUTTO QUESTO,
IN SOSTANZA E VERITA’,
NON E’ NIENT’ALTRO
CHE UN GIOCO.[9]
Ma pure è significativo che, a far da cerniera tra le due parti “ordinate a versi”, sia l’azione, recuperata nella dimensione teatrale della Serata a Colono in cui, attorno al protagonista (per la verità fisicamente immobile) si muovono personaggi provenienti da un presente allucinato e terreno (Antigone è una ragazzetta analfabeta, il coro sono i pazienti di un ospedale psichiatrico…) e da un passato metabolizzato e quindi in qualche modo assolutizzato, necessitati ad assistere allo spettacolo della parodia[10] del mito (Edipo è un malato di mente che si crede il re di Tebe), forse il più noto, eppure così inattuale, eppure forse proprio per questo così urgente.
Un ago rovente
La terza (ma certamente non ultima) ragione per cui (ri)leggere Il mondo salvato dai ragazzini risiede nella ferma fiducia nell’arte, già chiamata in causa da Morante nel saggio Pro o contro la bomba atomica? (1965) come strumento per “impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo”, per “restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale”[11]; una funzione che, nel Mondo salvato, da teoria diventa prassi, da professione di fede azione poetica che è anche, nella sua ostinata volontà di incidere sulla realtà, azione politica. Così Goffredo Fofi:
La funzione del poeta è, nella visione della Morante, la più alta possibile, è quella di chi deve mettere in guardia i lettori (il mondo) dai pericoli che covano al suo interno – il maggiore tra tutti quello dell’irrealtà -, ricordandogli la bellezza del vero, della realtà.[12]
Come un ago rovente la penna di Morante punge gli Infelici Molti,
troppo affaccendati
a fabbricare trafficare istituire organizzare propagandare
la loro enorme indispensabile felicità
per darsi pena dell’infelicità superflua
minoritaria
dei Felici Pochi.
ma soprattutto troppo affaccendati per accorgersi del
solito inquietante fenomeno plurisecolare:
in realtà, chissà perché,
l’infelicità dei Felici Pochi è
più felice assai che non la felicità
degli Infelici Molti!
La felicità degli Infelici Molti
non è allegra! non è mai allegra!
Per quanto si diano da fare,
gli Infelici Molti ci si devono rassegnare:
LA LORO FELICITA’ E’ TETERRIMA!
Nella nostra epoca (plurisecolare) assistiamo disarmati, con rassegnazione o cinismo, all’avanzata trionfante di magnifiche sorti, e progressive, senza che niente e nessuno ne soffochi il respiro corto, ne sveli la modesta gittata. Volentieri mi armerei di quest’ago rovente; ne armerei gli studenti venuti a chiedermi un libro “esemplare”.
[1] P. Pasolini, Il mondo salvato dai ragazzini, in Tempo, XXX, 35, p.12.
[2] C. Garboli, Oppressi e felici, in Il mondo, 12 settembre 1971, p.27.
[3] I. Calvino, Sulla fiaba, Einaudi, Torino 1980, p.19.
[4] I tre personaggi sono Hitler, Hermann, Goebbels.
[5] E. Morante, Canzone finale della stella gialla detta pure La carlottina in Il mondo salvato dai ragazzini
[6] La mia bella cartolina dal Paradiso è il titolo della prima sezione della seconda parte del libro.
[7] E. Morante, Addio in Il mondo salvato dai ragazzini.
[8] E. Morante, La smania dello scandalo in Il mondo salvato dai ragazzini.
[9] E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini. Poema di varie canzoni unite da un unico ritornello sovversivo e chiuse da un Congedo.
[10] E’ definizione della stessa Morante.
[11] E. Morante, Pro o contro la bomba atomica?, Adelphi, Milano 1987, p.102.
[12] G. Fofi, Prefazione a E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi, Torino, 2012, p.6.
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