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diretto da Romano Luperini

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Dalla teoria della letteratura alla didattica: implicazioni e conseguenze

 

 Nei prossimi mesi, nella sezione “L’interpretazione e noi”, offriremo ai lettori e ai colleghi una serie di suggerimenti di (ri)lettura di alcuni classici della critica, in prospettiva didattica. Come introduzione al ciclo, riproponiamo un saggio del nostro diretto Romano Luperini, che si può leggere nel suo Insegnare la letteratura oggi, Manni, 2013, alle pp. 70-78.

1. Come ognuno sa, sono possibili tre tipi di approccio critico all’opera letteraria, ognuno riferito a uno del momenti cruciali dell’asse jakobsoniano della comunicazione: emittente, messaggio e destinatario. Avremo una critica letteraria che si basa sulla centralità dell’autore e procede perciò dall’analisi dell’intentio auctoris e cioè dallo studio della persona biografica e storica o comunque della personalità artistica, una che parte dalla considerazione dell’intentio operis dunque dallo studio dell’opera valutata nella sua autonomia e nell’organicità della sua struttura formale e infine una che sceglie come punto di riferimento critico l’intentio lectoris e quindi lo studio del pubblico e dell’orizzonte d’attesa, della circolazione e della fruizione dei prodotti letterari o anche delle reazioni del soggetto nel momento stesso della lettura. Analogamente, anche nella pratica dell’insegnamento della letteratura, si può privilegiare uno o l’altro di questi approcci. 

Di fatto queste tre metodologie sono sempre possibili; tanto è vero che critici di ogni epoca hanno talora fatto ricorso a tutt’e tre. Tuttavia, negli ultimi due secoli, dall’età romantica a oggi, esse caratterizzano anche tre periodi diversi nella storia delle teorie letterarie in Occidente. Beninteso, in ciascuno di essi è frequente il ricorso a tipologie di approccio diverse rispetto a quella dominante. E tuttavia, osservando il panorama da una certa distanza, e con le lenti, a cui è impossibile rinunciare del senno di poi, una certa evoluzione appare del tutto evidente. A un primo periodo in cui ha prevalso la centralità dell’autore hanno fatto seguito un secondo contraddistinto dalla centralità dell’opera e infine un terzo in cui sembra dominare la centralità del lettore. 

2. Nel periodo che va da Sainte-Beuve a De Sanctis sino a Croce da un lato e a Freud dall’altro l’interesse appare puntato sul soggetto psicologico (da Sainte-Beuve a Freud), o storico (De Sanctis), o lirico (Croce). Se per il De Sanctis della Storia della letteratura italiana gli autori sono eroi protagonisti che grandeggiano in ampi e vivaci paesaggi storici, per Croce invece l’immaginazione critica si lega alla forme dell’impianto monografico volto a ricostruire l’intuizione lirica del soggetto-artista. Ma in entrambi i casi è l’autore in quanto personalità artistica a interessare il critico. E va da sé che Freud, ponendo nelle nevrosi o nei disturbi di una psiche individuale la genesi stessa dell’opera, ha contribuito in modo determinante a fondare una scuola critica d’impostazione psicoanalitica basata sulla centralità del soggetto. 

Nel periodo successivo – che approssimativamente copre circa mezzo secolo, a partire dal 1925 circa – la continuità con il passato è indubbiamente forte, essendo rappresentata dagli sviluppi della critica psicoanalitica (si pensi in Italia a un critico come Debenedetti) e soprattutto dalle varie forme di storicismo (da quello idealistico a quello marxista) che si affermano fra gli anni Trenta e Cinquanta. La tendenza a considerare il rapporto fra il soggetto e la storia attraverso lo studio delle mediazioni sociali o antropologiche prevale, per esempio, in studiosi assai diversi fra loro come Lukacs, Bachtin e Benjamin. Tuttavia le tesi del Circolo linguistico di Praga (1929) fanno data. L’influenza del Corso di linguistica generale di De Saussure (1916), la nascita e la diffusione del formalismo russo e della Scuola di Praga, lo sviluppo del New Criticism (alle cui origini stanno Principles of Literary Criticism di Richards, uscito nel 1924, e la cosiddetta “scuola di Cambridge”) contribuiscono a spostare sensibilmente il fulcro dell’attenzione critica verso il linguaggio letterano, considerato nella sua autosufficienza e autoriflessività: la letteratura tende a divenire puro procedimento formale, mentre nella critica cominciano ad affermarsi metodi di tipo scientifico, descrittivo, sincronico. Di questo complessivo movimento risente anche la cosiddetta critica stilistica, sia che essa punti a ricostruire l’etimo psicologico (Spitzer), sia che miri invece a passare dai caratteri dello stile a quelli di un periodo storico (Auerbach). 

Il momento in cui queste tendenze privilegianti l’analisi linguistica e stilistica si coagulano in sistema, fanno corpo organico e diventano largamente egemoni nell’Occidente è il quindicennio fra il 1960 e il 1975. Lo strutturalismo diffonde il concetto di testo come struttura interna, od ordine chiuso, e la pratica dell’”analisi del testo” (già presente da anni nei paesi anglosassoni con la formula, posta in circolazione dal New Criticism, del close reading), che privilegia lo studio dei significanti e dei procedimenti retorici e tende a una considerazione combinatoria e atemporale dell’opera e dunque a prescindere tanto dall’autore e dal lettore quanto dalla storia. Esso assume tuttavia caratteri diversi a seconda delle tradizioni in cui si inserisce: mentre lo strutturalismo francese tende a un formalismo astratto e astorico, quello italiano di Segre e della rivista “Strumenti critici” cerca di collegarsi alle tradizioni storiciste e filologiche del nostro paese e magari a riprendere le forme di studio semantico della cultura diffuse in Europa da Lotman e dalla scuola russa di Mosca-Tartu. In questo periodo l’egemonia dello strutturalismo si estende anche sulla critica marxista e su quella psicoanalitica: opere come Critica del gusto del marxista Galvano della Volpe (1964) o Per una teoria freudiana della letteratura del freudiano Francesco Orlando (1973) sarebbero inconcepibili fuori dal clima strutturalista allora dominante. E basti qui ricordare che Orlando intende fondare una teoria freudiana della letteratura prescindendo programmaticamente dal soggetto-autore e basandosi esclusivamente su una considerazione del linguaggio studiato nel suo tasso figurale. 

Lo strutturalismo diffonde una tipologia di approccio fortemente caratterizzata dalla descrizione oggettiva del testo e dalla netta prevalenza del commento sulla interpretazione, in genere guardata con diffidenza perché sfuggente ai metodi d’impostazione scientista e perciò ritenuta inevitabilmente inquinata dalla soggettività della ricezione. Grazie allo strutturalismo s’impongono modelli descrittivi – basti pensare alla narratologia che approfondisce e divulga la lezione dei formalisti russi – che avranno poi largo seguito nella didattica della letteratura. 

In Italia, nell’insegnamento della letteratura, era stato sino allora (e resterà sin quasi alla fine degli anni Settanta) largamente prevalente il metodo storicistico, fondato sullo studio diacronico della letteratura. Le diverse influenze della tradizione desanctisiana, dell’idealismo e del marxismo avevano operato congiuntamente, favorendo un tipo di studio centrato sul rapporto fra scrittore e storia, condotto su un manuale di storia letteraria (decisivi, per esempio, dapprima quello di Sapegno, poi quello di Petronio) e verificato, più o meno saltuariamente, su un’antologia di testi. Ciò aveva favorito una propensione all’astrattezza ideologica e allontanato dalla concretezza delle opere. 

Lo strutturalismo cominciò a esercitare un’egemonia sulla didattica abbastanza tardi. Solo negli anni Ottanta e nella prima metà dei Novanta si passò, nelle scuole, dalla centralità della storia letteraria a quella del testo. Si affermò allora un’analisi del testo concentrata sul dato linguistico e basata su esercizi di lettura imperniati sulla narratologia, sulla metrica e sull’analisi della struttura interna del testo. Il problema del senso venne lasciato in subordine, mentre la diffidenza verso il momento ermeneutico portò a privilegiare l’aspetto catalogante o tassonomico, schemi e schemini, formule che aspiravano a un rigore algebrico o matematico. La questione, pur centrale, del significato per noi di un’opera venne perlopiù accantonata. Parlare di valori, di ideologie, di responsabilità morali dell’interprete era sentito come una forzatura prevaricatrice e dunque antidemocratica. L’insegnante di letteratura era considerato un tecnico che doveva fornire agli allievi solo competenze oggettive e neutrali; altrimenti – si diceva – si sarebbe trasformato in un pericoloso persuasore. 

È interessante rilevare come la didattica segua l’evoluzione della teoria con un ritardo costante. E infatti: nel quindicennio 1960-1975, pur dominando sul piano teorico lo strutturalismo, la didattica era ancora impregnata in Italia di storicismo; nel ventennio successivo, mentre in Occidente e anche nel nostro paese si entrava in una fase poststrutturalista o antistrutturalista, la didattica tendeva a ispirarsi, invece, ai principi “scientifici” dello strutturalismo, magari cercando di conciliarli con un impianto storicista ancora largamente operante. In effetti, nell’ultimo quarto del Novecento si registra nella teoria letteraria un significativo spostamento del “fuoco” dell’attenzione critica: dal testo al lettore. Alla domanda “che cos’è la letteratura?” si comincia a rispondere in modo diverso, o ci si rifiuta tout court di rispondere, quasi si tratti di questione mal posta. Negli anni dello strutturalismo la specificità del letterario era indicata in un uso particolare della lingua (era la cosiddetta “funzione poetica della lingua”), nel primato dei significanti e nell’autoriflessività del linguaggio. Ora l’accento si sposta sul soggetto, sulla sua possibilità di decidere come leggere un’opera (se in un’ottica artistica, o civile, o religiosa ecc.). La stessa coerenza interna di un’opera (presupposto costante della critica strutturalistica come di quella stilistica) è considerata un’esigenza della lettura piuttosto che un dato oggettivo: tanto è vero che interpreti diversi trovano ragioni diverse di coerenza interna di una stessa opera. Contemporaneamente a un’idea della critica letteraria come scienza ne subentra una come ermeneutica. 

La centralità del lettore viene declinata in questo periodo in modi assai diversi e spesso duramente contrastanti fra loro. L’indirizzo egemonico è fornito dall’ermeneutica, che batte sul momento della lettura intesa come esperienza viva e partecipazione interpretativa. La lettura non descrive né cataloga, ma è processo di ricerca del senso. Attraverso una reciproca «fusione degli orizzonti» (Gadamer) tanto il lettore quanto l’opera si pongono in questione, trasformandosi a vicenda. 

Questo nuovo indirizzo si è successivamente sviluppato in senso decostruzionista e nichilista, oppure, all’opposto, in senso ontologico, assoluto e religioso. Nel primo caso (de Man) ogni interpretazione è una misinterpretazione, ma proprio ciò paradossalmente legittima qualsiasi arbitrio interpretativo (se tutte le letture sono false, tutte sono egualmente autorizzate); nel secondo (Bloom, Steiner) la lettura è un’esperienza ontologica, in cui balugina una Verità assoluta, un Verbum o un Logos originario. 

Altri modi di praticare la centralità del soggetto sono quelli elaborati dall’estetica della ricezione, che studia l’orizzonte d’attesa (Jauss) o l’atto della lettura dal punto di vista fenomenologico (Iser), o dalla sociologia della letteratura che considera il rapporto autore-pubblico e i modi di circolazione e di fruizione dei prodotti letterari (si pensi, in Italia, a Spinazzola). 

Un discorso a parte meriterebbe poi la diffusione della critica tematica ispirata agli studi sull’immaginario che si sono affermati nella storiografia e nell’antropologia. L’immaginario del lettore e quello che si sprigiona dall’opera di ogni epoca si fondano sul medesimo bagaglio di simboli, di archetipi, di motivi inconsci, di miti arcaici. La «fusione di orizzonti» è garantita non dalla comunanza della tradizione del linguaggio, come in Gadamer, ma dal medesimo fondo antropologico e simbolico-culturale. Due fra i maggiori critici del secondo Novecento, pure assai diversi fra loro, Frye e Starobinski, possono essere considerati i maestri di questo indirizzo, declinato in senso più schiettamente junghiano (e astorico) dal primo, in senso più marcatamente temporale (e storico) dal secondo. 

3. Le conseguenze didattiche della teoria della centralità del lettore penetrano in Italia con il consueto ritardo e con molta lentezza. I prevalenti filoni dello storicismo e dello strutturalismo sono ovviamente avversi a una valorizzazione del momento ermeneutico che potrebbe mettere in causa la centralità dello studio “oggettivo” del rapporto autore-storia o della analisi tecnico-formale del testo. A ciò bisogna aggiungere l’ostilità di tutta la tradizione critica – tanto di quella idealistica e di quella marxista e sociologica, quanto di quella stilistica – agli indirizzi tematici. 

Tuttavia la nuova tendenza sembra fornire alcuni indubbi vantaggi didattici. Mettere al centro dello studio non più il testo, ma piuttosto la lettura e fare dell’interpretazione il momento decisivo dell’insegnamento significa infatti rendere protagonista il lettore e dunque valorizzare al massimo la partecipazione dello studente all’atto ermeneutico. Da tale impostazione deriva poi una serie di altre implicazioni didattiche assai interessanti: se al centro della didattica non viene più posto solo il testo, ma il rapporto vivo che la classe stabilisce con esso, sono da considerarsi fondamentali le domande di senso che essa pone all’opera. Da un lato la classe si trasforma così in una comunità ermeneutica, unita da un sapere comune e da una comune ricerca del senso; dall’altro l’attualizzazione del testo non può più essere considerata una indebita forzatura, ma va positivamente valutata come un momento importante dell’esperienza della lettura. Inoltre porre la questione del senso al centro della didattica comporta mettere l’accento non sull’arbitrio soggettivo, ma sulla responsabilità etica dell’interpretazione e del giudizio. La ricerca del significato è ricerca del significato per noi, non mero impressionismo individualistico. Sulla questione del significato si discute collettivamente. La descrizione di una rosa in poesia non è la stessa di quella che compare in un trattato di botanica perché esige una serie di interpretazioni diverse e postula dunque un conflitto interpretativo. E poiché ogni interpretazione è parziale ma si pone anche tendenzialmente come universale, lo studente è indotto da un lato ad assimilare un’idea della verità come processo e dialogo, non come dogma o norma precostituita, dall’altro a sostenere la propria argomentazione e a rispettare quella altrui. Si può cogliere qui la ricchezza del nesso che unisce democrazia a interpretazione, didattica della letteratura e formazione del cittadino. 

Dalle posizioni teoriche che sostengono la centralità del lettore possono derivare anche conseguenze didattiche negative. Per esempio: il fatto che le interpretazioni di un testo siano infinite potrebbe far ritenere che esse siano illimitate e che autorizzino qualsiasi arbitrio. Inoltre la sottolineatura del momento soggettivo potrebbe favorire una lettura destoricizzante, condotta esclusivamente sulla base di impressioni ed emozioni soggettive. 

L’ermeneutica stessa può offrire però validi strumenti per contrastare questi rischi. Enfatizzando il momento etico della responsabilità dell’interpretazione e mirando a una civiltà del dialogo, essa deve rispettare sia il testo (e dunque saperlo ascoltare) sia gli altri interpreti di esso. E poiché il rispetto del testo passa attraverso la sua conoscenza puntuale, ciò comporta che l’interpretazione va condotta sotto il controllo del commento e attraverso il possesso degli strumenti storico-filologici e storico-letterari che possano permettere di capirne il messaggio. Se è vero che il momento decisivo di un insegnamento fondato sull’ermeneutica implica la centralità della classe, è anche vero che, nella prima fase dell’approccio, il testo deve mantenere una propria temporanea centralità. 

Ciò vale anche per la lettura tematica, per cui esiste effettivamente il rischio di una impostazione destoricizzante. Essa da un lato dovrà indubbiamente puntare sugli elementi dell’immaginario che maggiormente coinvolgono lo studente – e dunque anche quelli emotivi ed esistenziali che sembrano caratterizzare la condizione umana in quanto tale –, ma dall’altro dovrà anche storicizzare i temi che l’analisi porrà all’attenzione della classe. La malattia, l’amore, la morte, la guerra sono temi che si riscontrano in ogni epoca storica, ma vengono vissuti di volta in volta in modi diversi a seconda della cultura e delle ideologie prevalenti in ogni diverso periodo storico. Il tema sarà dunque l’occasione di un confronto passato-presente in cui agli elementi di continuità si aggiungeranno quelli di discontinuità che caratterizzano in modo specifico un momento storico. 

4. Quanto deriva dalla tradizione dell’insegnamento della letteratura in Italia potrà essere conservato solo se saprà adattarsi alla nuova impostazione che la teoria della centralità del lettore suggerisce alla didattica. La storia della letteratura non potrà più sostituire l’incontro con la concreta individualità del testo che si realizza nel momento della lettura. Tuttavia conserverà un suo indispensabile rilievo nel momento della interpretazione, in cui essa sarà riassorbita. In altri termini: dal punto di vista del metodo, la conoscenza storiografica della letteratura sarà necessaria non già come premessa e base dello studio, ma come punto di riferimento costante, come fonte di categorie culturali e storiche (implicite nella cognizione dei movimenti artistici, dei concetti storici di tempo e di spazio, dei generi letterari, delle poetiche, della storia degli intellettuali e del pubblico ecc.) capaci di arricchire la capacità del lettore di conoscere e di ascoltare il testo e poi soprattutto di interpretarlo. La stessa lettura tematica (che il ministero stesso consiglia nella formula dei “percorsi ternatici”) presuppone una storia della cultura, delle arti e della letteratura che dia adeguato spazio allo sviluppo della mentalità, del costume e dell’immaginario delle diverse epoche storiche. Analogamente una serie di acquisizioni derivanti dall’approccio tecnico-formalistico e strutturalistico potranno risultare utili nella fase iniziale dell’approccio, in cui alcune competenze d’ordine linguistico e retorico appaiono comunque necessarie. 

Questi elementi di continuità sono preziosi e non vanno lasciati cadere. Sembra inevitabile però che l’impostazione complessiva dell’insegnamento, il suo criterio ispirativo, debbano profondamente rinnovarsi. Il cambiamento in atto nella scuola non richiede un ridimensionamento dell’insegnamento della letteratura, ma piuttosto il suo adeguamento a una situazione culturale ormai profondamente mutata. 

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