L’allegoria della ferocia
I. Se si dovesse concentrare nella sintesi emblematica di una figura il senso dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, La Ferocia (Einaudi, 2014), questa sarebbe l’ambiguità.
Fra il bene e il male non esistono confini netti o rigidi steccati, ma inquietanti smottamenti, infiltrazioni continue, dense zone d’ombra.
L’ambiguità della ferocia non si compiace dell’intorbidirsi delle acque, non sfrutta cinicamente la confusione quale postmoderna forma di libertà irresponsabile, bensì serve ad attribuire al quadro del contemporaneo la propria tinta dominante: la complessità. Al suo cospetto la parola che s’incarica di rappresentarla può collassare in un’adesione formale e ideologica al caos, oppure resistere in un tentativo cosciente di costruzione di ordine e senso. Il romanzo dello scrittore barese oscilla fra queste possibilità, non lasciando che l’una possa emergere senza esibire la cicatrice dell’altra: a indice che nel cielo svuotato della contemporaneità non si crea disegno che non sia ferita, ma nonostante ciò se ne rivendica la necessità, senza infingimenti post-ideolgici.
Per guardare in faccia la medusa della complessità – e quindi per rappresentare il presente, per interpretarlo attraverso la letteratura – Lagioia ricorre a un’ulteriore figura di pensiero, la cui centralità e funzione sarà oggetto di questo saggio: l’allegoria. Più precisamente l’allegoria moderna, così come l’ha identificata Luperini nel suo libro L’allegoria del moderno (Editori Riuniti, 1990), ovvero una figura di tensione, di sforzo di ricomposizione fra frammenti di realtà e senso irrimediabilmente distanti, il cui riavvicinamento non rispecchia alcuna legge divina, bensì l’atto volontaristico di un singolo individuo. Una figura in cui, quindi, la coscienza della precarietà non si traduce in una forma di nichilismo più o meno morbido, ma che piuttosto si fa interprete generale di una postura etica della scrittura, la quale non rinuncia ad una spinta teleologica, alla definizione di un senso.
II.
«Più che altro il poeta si domanda se chi creò la tigre creò anche l’agnello».
Michele la guarda in silenzio, guarda gli alluci di lei che sporgono dai calzini di spugna. Poi dice: «No».
«No cosa?»
«Uno crea l’altro»
Un piccolo solco verticale tra gli occhi di Clara.
«In che senso?»
«L’agnello crea la tigre facendosi mangiare da lei»
Il dialogo riportato avviene nello spazio mentale di un ricordo di Michele – assieme a Clara il protagonista di questo romanzo – tornato da poco a Bari in seguito alla morte misteriosa della sorella. Entrambi sono figli dell’imprenditore barese Vittorio Salvemini, figura spregiudicata di moderno arrampicatore sociale, ma non condividono la stessa madre, Annamaria. Michele è infatti frutto di una relazione extraconiugale. La perfetta e patinata famiglia borghese – coronata dalla villa di proprietà e da due ulteriori figli: il primogenito con una brillante carriera di oncologo e una promettente adolescente immersa nella spirale narcisistica dell’autorappresentazione attraverso i social media – espone quindi il proprio scheletro nell’armadio, la cicatrice del disordine che scombina le simmetrie di facciata: un figlio bastardo, per questo emarginato e discriminato rispetto ai fratelli e alle loro possibilità. La prima piaga ne genera però ulteriori, incatenate: così Clara, attraverso l’amore che impara a nutrire per Michele, prende prima coscienza dell’ingiustizia che si consuma entro le mura domestiche, imparando l’odio verso la madre, per poi espandere la propria carica distruttiva verso la classe sociale a cui lei stessa appartiene e, di voragine in voragine, verso l’uomo nel suo genere. L’essere umano viene smascherato nella propria rapacità e ipocrisia che ne determina l’agire tanto all’interno dell’ambito familiare, quanto all’esterno, nel mondo del lavoro, della politica, dei rapporti sociali. Nessuno dei personaggi, nemmeno i protagonisti, può definirsi puro; nessuno rappresenta un polo unicamente positivo: se è l’agnello a generare la tigre, nessuno può porsi al di fuori della contraddizione.
Se il male è ovunque, se la sua radice affonda nell’antropologia e non nella storia, allora non è possibile tracciare alcun margine di azione?
La Ferocia sporge effettivamente su una voragine: suggerisce al lettore la possibilità di una dimensione circolare e irrimediabile della realtà e del senso, in cui sarebbero il meccanismo spietato e incomprensibile della natura, l’ottusità dei cicli di distruzione e rinascita, la cecità crudele e pura dell’istinto a determinare il mondo:
Metti una volpe affamata davanti a un branco di conigli. Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare. Trovami il colombo che non vola. (404).
Eppure, ribatte Michele, «Non siamo animali, facciamo cose strane» (405). All’uomo inserito negli ingranaggi e nelle equazioni oscure e perfette della natura pertiene un margine di “innaturalezza”: un gesto inconsulto, una traccia di volontà che inceppa il processo di de-responsabilizzazione.
III. La vertigine di un male istintivo e primordiale, la cui legge pare inscritta nel sangue della specie, sembra in prima analisi animarsi e trovare conferma nelle numerose presenze animali all’interno del libro. Dal principio alla fine disseminano le pagine di Lagioia: sono creature per lo più notturne, colte nello slancio adrenalinico e spesso violento della caccia, della lotta per procacciarsi cibo, dello scontro. Bestie selvatiche, rettili o insetti soprattutto, dai gesti intrappolati in automatismi istintuali, ferocemente puliti e (in quanto) inconsapevoli. Unico animale domestico è la gatta di Michele: ma sarà perduta dal ragazzo; distratta forse da un’ ombra abbandonerà il perimetro protetto della casa e le leggi carezzevoli della cattività, per imparare la violenza della lotta per la sopravvivenza: «Mischiata con frammenti di odori familiari, aveva sentito nell’aria una brutalità così ottusa da restarne stordita» (399). La gatta affronta il topo di fogna che ne minaccia l’incolumità, così come il ragno e la formica lottano fra i fili fragili della tela sotto lo sguardo di Michele bambino («Eppure non c’è passione in questa lotta» 200) e la coccinella nell’affascinante manto scarlatto che distrae l’occhio umano dalla sua natura di insetto, racchiusa in dimensioni graziose, arriva a «divorare anche cento afidi al giorno, […] con una voracità, una rapidità, un freddo convulsivo movimento mascellare che in scala grande sarebbe risultato insostenibile per la sensibilità degli uomini» (31).
Allo stesso modo gli uomini sono feroci.
La possibilità di tracciare un parallelismo fra i due tipi di bestialità si disperde ad ogni modo rapidamente: l’abbandono al gorgo della violenza cieca, della pura corporalità come esperienza del nulla, contro cui s’infrange qualsiasi domanda di senso sull’ (e dell’) uomo, la conseguente dichiarazione di impotenza da parte di chi scrive, balenano nel disegno del romanzo per essere più fortemente smentite. La scelta deriva dalla coscienza del proprio contrario, non dalla sua rimozione. Così gli animali rappresentano per lo più non il termine di paragone nel contesto di una similitudine che disinnesca le responsabilità dell’uomo, bensì il contradditorio che le rende evidenti. Definiscono quindi una distanza dall’atteggiamento umano che passa esattamente attraverso imperfetti parallelismi, i quali lasciano la traccia di uno scarto, di una impossibile aderenza totale fra i due termini raffrontati.
Quelle animali suelle ono immagini che anticipano, intermezzano spezzandole o concludono sequenze di azioni o riflessioni umane; per lo più si tratta di apparizioni brevi, deviazioni improvvise di un occhio strabico: condensano o commentano le situazioni del romanzo da una prospettiva straniata che le amplifica e generalizza, talvolta accogliendo un senso di profezia.
Mentre Vittorio Salvemini chiacchiera del più e del meno con il figlio più giovane, Michele, due insetti consumano la loro lotta all’interno di un vaso da appartamento; uno muore.
Nonostante la vespa fosse grossa dieci volte tanto […] la forza impersonale che governava l’acaro lo spinse ad aggredirla non appena ne individuò la presenza nel vaso di ciclamini. La vespa provò a reagire, ma era lenta. L’acaro poté artigliare l’addome coi suoi dentini aguzzi, fino a infilarci dentro le potenti appendici saldate a tubo. Non poteva sapere che la vespa era vecchia e malandata, e che questa era l’unica ragione per la quale avrebbe avuto la meglio. Lo sapeva la sua forza, e tanto bastava. (304).
I due uomini continuano invece a bere caffè, a deviare la rabbia, a simulare l’affetto. Michele sa che agirà contro il proprio genitore, che del resto non ha mai esitato a mettere in campo i propri figli per tutelarsi negli affari. Il fratello maggiore, Ruggero, lo informerà in seguito che il padre è malato terminale di cancro ma, a differenza dell’acaro inconsapevole e impersonale, il ragazzo deciderà di colpirlo prima che la malattia segua il proprio naturale decorso verso la morte: «Un’azione concreta. Volontaria» (391): la parabola ferina prefigura quella umana, tracciando delle distanze.
IV. All’interno del romanzo si distinguono tre momenti in cui la presenza animale risulta marcata dalla scelta strutturale di isolarne l’apparizione in paragrafi autonomi. In questi casi l’effetto di straniamento risulta potenziato, in maniera direttamente proporzionale al tasso di profeticità delle stesse situazioni.
Fra le prime due decorrenze (mentre sarà momentaneamente lasciata in sospeso la terza) esiste una continuità tematica e di messaggio, manifestata in primo luogo dalla contigua collocazione spaziale – le saline di Margherita in Savoia – nonché da espliciti richiami all’interno del rispettivo corpo testuale, che vanno a determinare un effetto eco il quale – nell’ impasse di un eterno ritorno – batte contemporaneamente l’urgenza e la forza di una presa di posizione.
I pivieri sorvolano per primi, nell’architettura del romanzo, lo spazio di un sud dai colori iridescenti, attirando gli sguardi di uomini e bambini, affascinati dalla geometria e sincronia del volo: una mano nera, perfetta nel suo farsi e disfarsi, quando gli uccelli perdono quota per abbeverarsi o procurare cibo. Una stabilità orientata su un vuoto centrale, senza un capo che diriga il movimento, «un gioco di specchi con nulla al centro, simile a quello da cui nasce la coscienza. Era il motivo per il quale, guardando gli uccelli passare in gruppo, agli uomini sembrava di ritrovare qualcosa di se stessi sin dalla notte dei tempi» (316-17). Proprio all’altezza delle saline i pivieri iniziano a precipitare: «Morivano in volo. Uno dopo l’altro. La grande mano nera, prima di diventare una mano più piccola, assunse forme assurde che le leggi di natura non contemplavano» (317).
Allo stesso modo e nello stesso luogo il fenicottero rosa, sorpreso agonizzante dalla guardia forestale, «accecato da ciò che lo stava divorando, provò a scagliarsi contro l’intruso. Strisciò nel fango, e benché non fosse un predatore sembrò in procinto di ribellarsi alla propria natura. […]. Il fenicottero mandò un profondo verso rauco che mai nessun etologo aveva registrato. Ricadde nel terreno umido e morì» (356).
Come si nota lo scrittore, oltre a prefigurare nell’agonia delle bestie un destino insensato e violento per l’uomo, enfatizza il carattere innaturale di queste morti, il senso di deformazione di un equilibrio: pivieri e fenicotteri sono sopraffatti anzitempo non a causa di una qualche legge darwiniana, bensì perché non in grado, attraverso i loro sensi, di «associare ai fili d’erba e alle nutrienti acque fangose elementi come cobalto, piombo, manganese» (317). L’inquinamento ambientale coinvolge nell’economia del romanzo l’affare di Porto Allegro, per il quale Salvemini padre risulta indagato, per lo meno fino all’insabbiamento delle indagini per via di corruzione. Coinvolge, a un livello più generale – meno legato al plot – il tema dell’azione e delle sue conseguenze. Proponendo immagini di un ecosistema guastato, in cui lo stesso concetto di natura è intossicato alle radici, Lagioia pare ribadire l’impossibilità di usare un facile parallelismo uomo-bestia come pretesto per giustificare un’originaria tensione verso la ferocia (senza che per questo sia del tutto dissolta l’ombra di un’irrazionale pulsione di morte, di un turbamento che comunque s’annida nelle figure animali).
V. In un contesto in cui la naturalità della stessa natura è stata deviata e sabotata dalla ferocia antropomorfa, non risulta quindi possibile stabilire un nesso immediato fra uomo e natura –uomo e bestia in questo caso determinato: non si dà spazio al simbolo. Una più efficace chiave di lettura del bestiario su cui tanto insiste lo scrittore pugliese è quella allegorica, secondo una direzione interpretativa che tenderebbe a inserire quindi questo romanzo contemporaneo nel solco di una tradizione minore – che da Baudelaire e dalla particolare interpretazione che ne diede Walter Benjamin giunge fino al Fortini lirico – la quale proprio attorno a questa figura costruisce una teoria letteraria, nonché una specifica concezione della realtà e dei rapporti fra quest’ultima e la letteratura.
L’allegoria moderna – diversamente da quella medievale – presuppone una distanza, uno scarto e di conseguenza uno sforzo di costruzione. Si configura come atto interpretativo volontaristico e al contempo arbitrario, non potendo accedere a quella immediatezza o immedesimazione che collegava il particolare e l’universale, la parola e la cosa, all’interno di una poetica simbolista. Rispecchia la fine dell’Erlebnis nel contesto della modernità, l’inceppamento delle correspondances, la percezione di un’alienazione e frammentazione della realtà, la cui ricomposizione non pare possibile attraverso il segno. Ma nel mentre riproduce il disordine, lo iato nel meccanismo di significazione, si propone come autocoscienza della frattura; l’allegorista – fino al limite nichilista dell’allegoria vuota – non si configura come un dimissionario di fronte al caos disgregante, bensì come un costruttore di argini, consapevole della precarietà possibile dei medesimi. Secondo tale prospettiva questa figura mantiene una traccia del carattere didattico medievale: non si sottrae allo sforzo di elaborare un messaggio; al contempo però, non essendo inquadrata in alcun ordine totalizzante, si manifesta nella propria precarietà.
La categoria della distanza che riposa in seno all’allegoria caratterizza – come è stato dimostrato in precedenza – il rapporto fra animali e esseri umani in Lagioia, nonché quello fra una pretesa naturalità del paesaggio e la sua antropomorfizzazione, talvolta letale. Determina infine il rapporto fra realtà e senso e fra scrittura e realtà, trovandoci nell’orizzonte di un oggetto estetico.
Si è notato inoltre come l’autore si serva proprio della definizione di questo iato per confutare la tendenza verso un de-responsabilizzante parallelismo fra violenza e biologia, ricollocando il primo termine – termine tabù per il mondo in tempo di pace in cui viviamo – nella dimensione storica: quella della scelta e, se necessario, della colpa.
Gli animali quindi, che non sono il simbolo dell’umanità, il torbido richiamo ctonio e corporale (o almeno non sono unicamente quello) possono esserne a ragione l’allegoria: la loro ferocia prefigura e smaschera al contempo – cercando di recuperare una verità attraverso lo straniamento – una serie di dinamiche umane, non naturali e necessarie, bensì collocate e causate.
Nel suo insieme la scrittura di Lagioia è attraversata da una tensione allegorica: da uno sforzo di ricomposizione che riconoscendo la difficoltà e la precarietà nella definizione di un senso attraverso la letteratura, non se ne distoglie, controbilanciando la tendenza tautologica, l’ossessiva danza circolare dei significati.
VI. Non isolate da una scelta tipografica, ma comunque marcate dalla frequenza con cui tornano a sbattere le ali fra le pagine del romanzo, sono le falene.
Identiche a se stesse da milioni di anni, le piccole creature dalle ali pelose erano tutt’uno con la formula che garantiva la stabilità del loro volo. Attaccate al filo invisibile della luna, perlustravano il territorio a migliaia, ondeggiando da un lato all’altro per evitare gli attacchi dei rapaci. Poi, come accadeva ogni notte da una ventina d’anni, alcune centinaia di unità staccarono i contatti con il cielo. Credendo di avere ancora a che fare con la luna, puntarono i faretti di un piccolo gruppo di ville. Avvicinandosi alle luci artificiali, l’inclinazione aurea del loro volo si spezzava. Il movimento diventava un’ossessiva danza circolare che solo la morte poteva interrompere. (6).
Un sacrificio inconsapevole e ottuso il loro, l’effetto di una deviazione, della sostituzione di un globo elettrico all’equilibrio lunare; si ripresenta una stortura nelle equazioni naturali, manifesta nei fragili corpi degli insetti sfarinati ai piedi del proprio equivoco. Questa rappresentazione, ad ogni modo, non si limita a funzionare quale conferma di quanto fino ad ora affermato, può infatti essere ulteriormente indagata: non sembra poter essere casuale l’associazione, ribattuta in più luoghi testuali, fra le falene e Clara. La ragazza segue la loro comparsa agli esordi della narrazione, camminando attraverso lo stesso prato su cui queste vanno a schiantarsi, moribonda e svuotata a sua volta, ormai giunta al punto conclusivo «che fa crollare le differenze di specie» (7).
Gli insetti continuano a «sbattere contro le luci al neon» (120) quando il corpo di Clara viene caricato sul veicolo che lo trasporterà all’obitorio. Un’invasione di inquietanti farfalle notturne incrina il ricordo di maternità di Annamaria, la madre della ragazza:
Annamaria si guardò intorno spaventata. Fece per alzarsi, sentì il peso del pancione. Farfalle. La veranda ne era piena. Un turbinare di falene dalle ali pelose, grossi insetti dalle antenne a spazzola, mantelli simili a nuvole di polvere svolazzavano tra le pareti, sostavano sul tavolino oppure pascolavano a gruppi nella confettura […]. Annamaria tornò a sentire la nausea delle prime settimane. Pensò che il suo corpo in quel modo traduceva qualcosa di altrimenti innominabile. Prima di uscire dalla sonnolenza, e realizzare che non stava succedendo niente, tornò a temere che tutto fosse opera della bambina. (168).
Dalla nascita alla morte pare quindi che la loro danza macabra accompagni la protagonista del romanzo, trasmettendo un peculiare carattere alle sue scelte e azioni. La sua stessa figura eredita – per contagio – quel tasso di allegoricità che, come visto, pertiene agli animali. Clara, «una forma fittizia emersa dai baratri della coscienza» (16), si fa allegoria di tutto un mondo che nel contatto schizofrenico, straniato e drogato con la realtà, traccia i lineamenti della propria identità come assuefazione, falsa coscienza e brutale sopraffazione.
Un’insensata danza circolare sembra infatti il percorso di svuotamento perseguito dalla ragazza, volto alla riduzione di sé a puro involucro incosciente, a puro corpo: un corpo leso e autolesionista, denigrato, esposto, venduto, contraffatto. Il lettore fatica ad afferrare il senso di un tale annichilimento volontario. Eppure proprio questa carne muta sovraespone una denuncia, un’offesa: spalanca un baratro che non si motiva in relazione a una spiegazione antropologica, ma si colloca in un tempo e in una società precisi.
Così come a suo tempo la coltre di bianche falene «su cui scricchia/ come su zucchero il piede» della Primavera hitleriana di Montale –qui potentemente richiamata dalla forza e insistenza dell’immagine – alludeva alle vittime di una precisa violenza storica, prima che ad un’atemporale latenza del male.
VII. L’allegoria traccia quindi il segno di uno sforzo verticale nell’ouroboros dei significati. Così la forma della narrazione avvicina il ritmo progressivo dell’indagine che Michele compie per individuare le cause della morte della sorella, al ripiegarsi del tempo su se stesso, al riflusso circolare senza sbocco. Il mosaico fatica a ricomporre i suoi frammenti: la ricostruzione del caso, verso la fine del libro, pare inficiata da una sorta di distruzione della sintassi, da un’inquietudine che in parte mima l’apice della tensione investigativa, in parte adombra un senso di caos, di macerie. Una sorta di stordimento, un balbettio da cui ricominciare.
La categoria della ripetizione assume una centralità significativa – strutturale – all’interno del romanzo, confermandone l’inclinazione tautologica.
In primo luogo caratterizza la tecnica narrativa: la scelta di ricorrere alla diffrazione dei punti di vista nella ricomposizione della vicenda permette di tornare su un medesimo soggetto, inquadrandolo secondo prospettive differenti o addirittura contrastanti. Il primo capitolo, ad esempio, presenta Clara attraverso le voci plurime di chi la ricorda: Orazio Basile, il padre, i fratelli consanguinei, i vari amanti, il marito, Michele. Nel secondo capitolo è Michele stesso a prendere parola, tessendo una narrazione che ripercorre eventi già anticipati precedentemente, proponendoli sotto una nuova luce. Si spargono all’interno del libro, di conseguenza, echi di immagini e situazioni, che tornando riavvolgono il discorso con la forza della propria icasticità, determinando un’impressione di immobilità e complessità al contempo. Questo effetto di loop è riprodotto in maniera esplicita nella terza parte del romanzo, nel momento in cui viene narrato l’incontro fra Gennaro Lopez, medico legale a cui fu affidato il compito di stilare il certificato di morte di Clara, e Michele: tre paragrafi si susseguono a distanza di pagine, ripetendo in maniera pressoché identica un’unica scena, alla quale di volta in volta viene aggiunto un tassello. È lo sforzo da mosaicista di Michele, il singhiozzo dell’indagine, il rischio costante che questa si arresti se non incalzata da un atto di volontà.
Nel complesso è la struttura macrotestuale de La ferocia a serrare un cerchio attorno a se stessa: il primo e l’ultimo capitolo si aprono infatti sul medesimo scenario – la villa della signora Grazioli – seppur osservato da punti di vista diversi e cronologicamente distanti (la notte in cui Clara l’attraversa ormai moribonda e il giorno seguente, in cui, svegliandosi, la proprietaria della villa scopre con disgusto le carcasse delle falene attorno ai neon). Ma è soprattutto l’Epilogo a confermare un senso di circolarità insensata nelle vicende umane, un indifferente ritorno dell’uguale che con l’inesorabilità di un ciclo naturale si ripresenta: un nuovo proprietario fa ingresso nell’abitazione a lungo rimasta deserta dei Salvemini; un nuovo arricchito porta i suoi figli, un fratello e una sorella, a correre nelle stanze spaziose e polverose; un uomo certo della sua fetta di fortuna si culla nell’inganno della propria prosperità, dell’ascesa sociale di cui la villa sarà il sigillo.
VIII. Eppure. Il terzo focus animale, lasciato fino ad ora in sospeso, precede a breve distanza proprio questo epilogo. Fra i due momenti si colloca l’azione distruttiva di Michele, che denuncia il padre all’ARPAV, provocandone il fallimento economico prima che sia il collasso fisico – il cancro appunto – a sopprimerlo. Se l’epilogo, rilanciando una nuova storia familiare potenzialmente identica a quella appena crollata, pare ridurre la scelta del ragazzo a una questione privata, una vendetta personale che non muta – anzi mima –identiche dinamiche di violenza e sopraffazione, l’allegoria animale rimane a suonare da controcanto a questa possibilità interpretativa.
La scena è completamente occupata dalla gatta di Michele – sporca, stordita dalla fame e dai rumori della strada – costretta a rimuovere i ricordi della cattività per attingere a una memoria più antica, mentre lotta per la sopravvivenza contro un topo di fogna. «Il sapore del sangue la sconvolse. Tutta la parte che stava sotto venne sopra, senza spazio per nient’altro» (400). Il contesto quindi riattiva l’istinto del felino, che recupera – diversamente dai pivieri e dal fenicottero – la propria animalità: «mentre lottava sapeva, sapeva e ricordava al tempo stesso» (400). Viene tracciato in tal modo un vettore, la cui direzione contrasta quella dominante: viene frenata la quadratura del cerchio, raschiata la perfezione, anche tragica, della tautologia.
Tutta la parabola di Michele eredita questo sforzo di inversione di marcia e ne viene illuminata. Il ragazzo è quindi simile alla gatta nel suo balzo d’autodifesa, costruito però su una memoria affettiva e una ricerca della verità ovviamente differenti dall’emersione di una coscienza istintuale, non mediata. La disomogeneità fra l’atteggiamento umano e quello ferino è inoltre riconfermata attraverso la scelta di un gesto profondamente innaturale da parte dell’uomo, che proprio in quanto tale ne caratterizza la specie, secondo l’interpretazione stessa del protagonista.
Michele lo guardò negli occhi. Che senso aveva, se lei non c’era più? Sentì un brivido alle gambe.
– Ci comportiamo in modo assurdo. Siamo imprevedibili, […], qualcuno in passato ha fatto per me qualcosa che non poteva fare. Azioni contrarie alle leggi di natura. Mi è stato fatto del bene senza nessun motivo pratico, e io adesso sto facendo questa cosa. Innaturale. Assurda anche per me. Un miracolo. Ci pensi. (405).
Michele si riferisce contemporaneamente all’affetto gratuito della sorella nei suoi confronti e al proprio gesto di eliminazione – economica – del padre.
L’allegoria quindi, pure in questo caso liminare, non modifica la propria funzione, continuando a proporsi quale prefigurazione e distanza, illuminazione semantica e scavo interpretativo che non appiattisce la complessità, nel momento stesso in cui non cede al suo peso.
Il doppio finale che abbraccia – o stringe nella morsa del paradosso possibile – la scelta di Michele, lasciando aperti quesiti e inquietudini, conferma l’alta tensione fra le linee di forza che strutturano il romanzo, la quale non si spegne nel gesto risolutore, ma nemmeno riesce a vanificarlo totalmente. Così il richiamo a forme di responsabilità collocata in un tempo-spazio precisi non mette la sordina a un’inquietudine antropologica, senza per questo evocarla a giustificazione della ferocia umana.
«e non l’imperscrutabile cattiveria di un’entità remota ma la meschinità degli uomini insieme con il dono aveva recato l’offesa. L’uno rendeva visibile l’altra» (287).
Fotografia: Irlanda 1991, gatto e topo.
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