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diretto da Romano Luperini

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Napoleone, Totti e la fine della scuola

 Maggio odoroso vs maggio furioso

Venerdì ventisei maggio, entro in classe alle otto nella mia quarta. Le due ore si preannunciano più che problematiche: ho in animo di leggere e commentare tutto Il cinque maggio. L’esito è più che incerto. Sono rassegnato a pagare dazio al maggio odoroso degli studenti, che me li porterà in classe con la testa ovunque nell’universo fuorché dal Manzanarre al Reno, ma sono anche rassegnato al maggio furioso del docente che, se ha lavorato come Scuola comanda, si ritrova a questo punto dell’anno col cervello completamente in pappa. «Ma lo devi fare, è importante, lo so che non capiranno, lo so che si annoieranno, ma lo devi fare»: è questo il mantra che mi impongo salendo le scale. Entro in aula, entrano gli studenti, fanno la lista delle merende, faccio quattro clic sul registro elettronico. Iniziamo la lezione. Decido di vendere cara la pelle, provo a giocarmela, tento il bluff (oramai sgamato dai più) «della grande pagina di letteratura che di sicuro voi non capirete, che vi annoierà perché troppo difficile per voi del tecnico, ma se ce la faceste, ah la bellezza!». Stranamente mi accorgo che sono tranquilli. L’aria fresca aiuta, le facce sono sveglie e poi quell’attacco «Ei fu», immediatamente stoppato dal coro dei «oh ma io questa l’ho studiata alle medie». Mi dico «stai a vedere che forse ci arrivo davvero al Tanai».

Come Totti

Al Tanai ci arrivo abbastanza decentemente. Me li perdo per strada giusto due, tre. Certo, quei soggetti sparpagliati random qua e là non aiutano: «la terra, la terra, ma dove sta prof? Ah eccola, ma perché l’ha messa a casaccio quaggiù?». E poi l’encomio, vaglielo a spiegare l’encomio. Orbo però fa ridere, non c’è che dire. Il brutto viene dopo. Ai posteri l’ardua sentenza: «mai sentita questa espressione prof». «Non ci credo» imbruttisco io. «Mai», confermano. «Tirare avanti» mi dico allora, «tirare avanti, arrivare almeno a Sant’Elena, qualcosa lì accadrà». Passiamo in scivolata sotto le gambe divaricate dell’uom fatale tra i due secoli ed eccoci finalmente (con qualche perso per strada in più) al cospetto di lui, con le braccia al sen conserte, inondato dai ricordi. «Qui devo dare il meglio, questa parte funziona» mi dico. E giù, tutta una filippica sul senso di una vita inimmaginabile svanita in sei anni, parcheggiata in un’isola fuori dal mondo. Eppure non funziona, non smuove, loro non vibrano. Tento un «ditemi qualche nome che ha vissuto tanto». Qualche sparuto «Giulio Cesare», subito rintuzzato da sparsi «ma no, quello l’hanno ammazzato quando ancora era al top». «Giusto», rinforzo. Eppure ancora non funziona. Manca l’esempio giusto. Parto da loro. «Immaginate una vita incredibile, mica solo quella di Napoleone o di Cesare. Quella che volete. Ma la vita di uno che ha fatto quello che nessuno è mai riuscito a fare, o giusto in quattro o cinque nella storia. Poi ad un certo punto tutto finisce. Ma mica perché muori. No, perché la storia ti mette all’angolo. Perché il tuo tempo è finito. Le luci si spengono e tu non ti arrendi. Non ce la fai. È troppo quello che hai fatto. Come continuare a vivere dopo tutto quello che è stato? Come?». Dal fondo della classe si alza una mano. «Come Totti prof». Lo guardo. Lui insiste. «Come Totti prof. Come il capitano. Nun ce la fa a ritirasse, è stato troppo grande». Qualcuno ride. Qualcuno molla definitivamente la lezione. «Bravo», dico io. «Come Totti». Mi interrompe il suono della campanella, «prof, dobbiamo andare in palestra per la finale del torneo di calcetto!» urlano. Riesco appena a dire un «finiamo la prossima volta», tutti scattano in piedi, prendono gli zaini alla rinfusa. Sorrido e mi dico che in fondo è giusto che si fiondino fuori in quella selvaggia eruzione. Aspetto che il frastuono delle sedie trascinate finisca e che l’aula si svuoti. Scendo anche io, la circolare parla chiaro: «Torneo di calcio a cinque della Scuola. I docenti in orario si recheranno in palestra e vigileranno sul corretto svolgimento della manifestazione».    

Pallonate

Mentre guardo i ragazzi giocare dalla gradinata, isolato dai boati delle pallonate di ogni tiro sbagliato contro il muro, continuo a pensare a Napoleone e a Totti. All’inizio lo faccio per capire come potere dare corso a quella che mi pare una inaspettata strada didattica aperta. C’è tutto il mondo della letteratura lì dentro: Napoleone e il ritiro di Totti. L’uomo e il tempo che passa. L’uomo e la sua forma. Il divenire. La rappresentazione. La gloria. La caduta. La risalita. Il crepuscolo. Specchi deformi e isole che non ci sono. Di tutto, da farci un anno di scuola. Poi però un altro pensiero, più forte, si insinua, una tentazione. Napoleone e Totti. Totti che si ritira ma non ce la fa, Totti che ha i miei stessi anni e che ora ha paura di quello che sarà. Totti che ha fatto parte di una generazione come la mia che ha creduto che i sogni più grandi, fossero anche quelli di diventare un Napoleone del calcio o semplicemente un insegnante contento di esserlo, potevano esistere, potevano starci. Bastava lottare per arrivarci, magari innamorarsi a vita di una maglia, di un’utopia, di una guerra felice con la vita. Ma se guardo i miei ragazzi che rincorrono il pallone in palestra mi sento insidiato dal constatare qualcos’altro. I miei ragazzi sono già con le braccia al sen conserte ma non per una storia finita, ma per una storia per loro quasi impossibile da iniziare. Questi ragazzi con molta più fatica avranno eterne pagine da scrivere, pagine su cui immalinconirsi un giorno, quando le luci staranno per spegnersi. Per colpa loro? No, sarebbe la bestemmia più infame considerare anche questo. Per colpa del mondo capitatogli in sorte, questo sì invece. «Ti devi impegnare, potrai iscriverti all’università», quante volte l’ho detto. «Ma che la faccio a fare prof l’università, tanto il lavoro non lo trovo lo stesso», quante volte me lo sono sentito rispondere.

Rete

Ma allora maggio furioso ha avuto la meglio? Totti e Napoleone, mi avete rovinato la giornata? Mi ritrovo anche io nei panni nel cantore di sventura da sala insegnanti che ho sempre maledetto? Forse è ora che davvero l’anno finisca. Mi alzo, decido di andare a prendermi un caffè al distributore automatico. Poi però un boato, qualcuno ha segnato. Mi giro. I ragazzi si abbracciano tutti e io sono lì che li guardo. Che spettacolo che sono i ragazzi, sono belli i ragazzi. Mi dico, in un silenzioso «ma sai che ti dico», che sono più belli di Totti. Più belli di Napoleone. Perché sono loro i veri eroi, i ragazzi. E che battaglie combatteranno questi ragazzi. Doppieranno Mosca e arriveranno in Siberia, segneranno gol mille volte più belli di quello contro la Samp o del cucchiaio a Milano. Campagne nel silenzio della storia, nella dignità di un lavoro da quattro soldi che si andranno a prendere, di figli che tra mille ostacoli comunque cresceranno. Reti nascoste di idee meravigliose che saranno progetti che ci stupiranno, strade inedite che comunque e per primi apriranno, lezioni di dignità e di coraggio che, come maggio radioso, per noi brilleranno. Dimentico il caffè, mi risiedo a guardare la partita. Perché la scuola non è mai finita.


Fotografia: G. Biscardi,  Il poster del calciatore, Palermo 1996.

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