La mia ultima sillaba
1. LA STRUTTURA NARRATIVA
Ho riletto il romanzo L’ultima sillaba del verso, tutto.
L’ho letto varie volte, in redazioni successive. Ma forse questa è la prima in cui l’ho riletto ordinatamente, dall’inizio; da quello che – redazione dopo redazione – si è delineato come l’inizio: una collocazione niente affatto preordinata, che questo segmento si è come conquistata, ma quietamente, naturalmente; come se si fosse fatta da sé.
Il romanzo inizia dal sottofinale; si licet parare, è quel che accade nell’Odissea.
Nel poema d’Omero, sappiamo dall’inizio che Odisseo, partito vittorioso da Troia insieme ai suoi compagni, non è mai arrivato ad Itaca, ma, solo, provato da molte avventure, battuto dalla tempesta, privato della sua identità, è raccolto dal popolo dei Feaci e indotto dal canto di un esule troiano a raccontare la sua storia, fin dove della sua stessa storia sa essere testimone. Poi, giunto col suo racconto fino alla zattera, concessa da Calipso e vessata da Poseidone, si consegna al narratore onnisciente che lo conduce ad Itaca, alla strage dei Proci, alla pace imposta da Atena, all’abbraccio di Penelope.
In questo romanzo, sappiamo dal prologo iniziale che Valerio, protagonista e voce narrante, è reduce da un intervento devastante, che ha segnato il suo corpo, minato le sue energie vitali; eppure vive. Non sa per quanto; non sa per chi, per cosa. Nessuna Itaca, nessuna Penelope ad attenderlo; solo una donna albanese, arrivata in Italia in gommone, che fa le pulizie in casa e le iniezioni. E, nella posta elettronica, la email della (più) giovane Claudine, che – dopo anni di silenzio – saputo della malattia, gli scrive per informarsi di lui. E Valerio, indotto da quella voce che riemerge da un passato complesso, ma intenso e forse in qualche modo felice, lo racconta, quel passato, fin dove sa esserne testimone. Poi, si consegna al racconto di Claudine per riprendersi nel finale il ruolo di narratore.
In questa struttura narrativa c’è forse il senso di tutto il romanzo. Il presente del prologo resta – per l’intera durata della narrazione – sotteso ad essa come corda sotto un arco, punto d’avvio e punto d’arrivo. E la narrazione è quasi una sorta di lunga analessi: contravvenendo alla logica lineare dello storico, che dispone i fatti in catene di cause ed effetti per rintracciare nel passato le ragioni profonde degli accadimenti presenti, qui la dimensione privilegiata, depositaria di senso, è il presente. E’ il Valerio del 2012-2013 a restituire agli eventi della sua vita negli anni compresi fra il 1988 e il 2001 senso, valore, prospettiva. Zona franca, demitizzata, ugualmente liberata dagli idoli dei giovani, come dal dissacrante cinismo degli adulti, il presente è epifania di un tempo inesplorato, che, latente per anni nei ritmi serrati di un vitalismo pluridirezionale, intermittente e pubblico, esce finalmente dal limbo subliminale in cui Valerio l’aveva confinato, per scoprire le movenze lente e cadenzate di sequenze tutte private, personali, intime. L’identità di Valerio, definita, in un passato fatto di impegno civile e intellettuale, dai parametri della funzione pubblica (è un professore universitario, al vertice della carriera e con importanti trascorsi di militanza politica), si offre al vaglio dell’esperienza privata, dove risuonano le voci care della madre, degli amici, delle donne amate. Torna ad ascoltarle, Valerio, tutte; fino a tacersi, fino a cedere la parola a lei, a Claudine. La sua voce – non a caso, come quella della madre, sebbene con modalità diverse – è l’unica a scavalcare le linee di percorrenza dettate dal tempo e dallo spazio convenzionali, disegnando percorsi sinusoidali e inattesi. E’ mettendosi su quel percorso, nuovo nonostante l’età matura, che Valerio recupera il suo ruolo di narratore.
2.IL SISTEMA DEI PERSONAGGI
Narratore e quindi protagonista, protagonista in quanto narratore, nel sistema dei personaggi del romanzo Valerio assume il ruolo centrale proprio in virtù di questa sua urgenza/volontà di raccontare, di oggettivare nel racconto, quasi fosse prova estrema di onestà intellettuale, quello che per anni – per una vita, o almeno per la tranche nodale di essa – è stato materia fluida, sostanza a volte sfuggente, a volte plasmabile e per questo mai definitiva. In questo ruolo Valerio non ha antagonisti reali; nemmeno Bruno, il fratello proiettato in un cinico hinc et nunc, riesce veramente a lavorare nella direzione oppositiva della negazione delle istanze di Valerio, accampandosi piuttosto su una specie di piano parallelo dove politica, giustizia, donna – le parole-chiave del dizionario di Valerio -, assumono un significato straniato, non riconducibile alla semantica esistenziale del fratello. Ma anche le rette parallele in un punto all’infinito s’incontrano; e quel punto, per Bruno e Valerio, è la madre. Figura densa, spessa eppure inattingibile, la madre si sottrae al ruolo tradizionale di angelo del focolare, più che con la sua vicenda personale di ragazza-madre, con la sua forza quasi epica di cantore: Mia madre (…) parla un bellissimo toscano, il pistoiese, senza le cadenze strascicate dei fiorentini o le forzature becere dei livornesi. Sa raccontare. Può parlare di una sedia o di un gomitolo di lana, o di una persona, e ne fa la storia, ogni dettaglio per lei è importante, (…) ha la sua dignità, per questo non va perduto o dimenticato, ma poi i dettagli si compongono, si articolano, si snodano in una narrazione che potrebbe durare all’infinito. Mia madre racconta le cose ancora epicamente. Il toscano senza cadenze e senza forzature – cioè scevro di cedimenti volgari e tentazioni folkloristiche, ma toscano, comunque, non italiano – è come una lingua-altra, un sistema di segni corrispondenti a una realtà profonda e sostanziale, chiave d’accesso a una dimensione segreta eppure determinante dell’esistenza; dettaglio e complessità. Se la lingua del racconto di Valerio è lingua di ricerca, di scoperta, di oggettivazione, la lingua della madre è strumento che raccoglie e reimmette le cose in un ciclo vitale senza tempo. Per questo non entra mai in opposizione con l’istanza narrativa del figlio, al quale suggerisce piuttosto, con la sua attenzione ai dettagli, ai rituali non ritualizzati (bellissime le pagine sulla preparazione dei necci), alle donne che attraversano la vita del figlio, direttrici nascoste per una nuova ricerca di senso.
Altre due donne – piuttosto – contendono a Valerio la dimensione del racconto: oltre a Claudine, allieva e laureanda, poi insegnante-per-ripiego, c’è Betty, l’archeologa québécoise. Betty arriva nella vita di Valerio dopo Margareth, la donna-passione, che conosce il dolore e il piacere, e non potrebbe esserne più dissimile, nei tratti somatici (formosa e sensuale Margareth; bionda, minuta Betty), nella cultura di provenienza (metà araba, metà inglese Margareth, orgogliosamente québécoise Betty), ma soprattutto nell’inclinazione (si vorrebbe dire nell’attitudine) verso la realtà: Margareth non riusciva a concepire che il mondo, le malattie, la morte esistessero come un fatto oggettivo e naturale, pensava fossero proiezioni di potenze misteriose che si nascondevano dentro di lei o, intorno a lei, negli altri; Betty, da brava archeologa, si sforza invece di raccogliere frammenti di senso, mettere insieme dei tasselli, costruire delle storie, delle narrazioni. E ora (racconta Valerio) mi avrebbe raggiunto, sarebbe cominciata una nuova storia e avrei potuto raccontare in modo diverso la mia. E qui Valerio commette un errore: che non è errore verso se stesso, giacché onestamente si dice di non riuscire a restare solo, di desiderare una donna accanto e una nuova storia che gli consenta di raccontarsi diversamente. L’errore è verso Betty: non vede che anche Betty – di storia – vuol raccontare la sua. Le cure di Valerio la rendono ansiosa, le competenze culturali sue e dei suoi amici le appaiono sfoggio intellettuale, ma soprattutto vuol essere autonoma, come il suo Québec, e fare le sue battaglie, raccontare la sua storia, col suo linguaggio, che non è e non può essere quello di Valerio: abbiamo fatto la nostra giusta battaglia…ogni generazione fa la sua, credo… e l’abbiamo persa…ma non per questo ci sentiamo degli eroi delusi e sconfitti, come voi del Sessantotto in Italia. A voi piace vivere di ricordi e di rimpianti, e per questo vi inventate una specie di leggenda, con un vostro linguaggio e una vostra retorica… E’ di fronte a queste due opposte volontà di racconto – davvero antagonistiche – che il legame fra Betty e Valerio si spezza.
Va diversamente con Claudine. Questa donna non è mai, nei confronti di Valerio, in funzione oppositiva; semmai gli è complementare in modo quasi archetipico (ti sento donna, femmina… (…) e io mi sento maschio (….) Tu mi fai ricordare di continuo che sono maschio… In vita mia non ho mai apprezzato così tanto la differenza di genere…), ma per quegli aspetti in cui Valerio desidera essere completato: per esempio, è a una giovanissima e ancora sconosciuta Claudia, non ancora Claudine, che Valerio racconta della malattia della madre; è Claudine che Valerio cerca, dopo aver saputo della morte di Volponi; Claudine lo sottrae alla noia di un convegno iperspecialistico ed autoreferenziale; ed è lei in qualche modo la musa ispiratrice e la destinataria esplicita del racconto di Valerio, convalescente dall’intervento. Principio vitale – dunque – ogni volta in cui la morte, nelle forme cangianti della perdita delle figure care, della malattia, dell’impotenza, delle disillusioni politiche ed intellettuali, si affaccia all’esistenza di Valerio, Claudine tuttavia è abitata a sua volta da forze vitali uguali e opposte, che la portano a trasgredire i ruoli e le convenzioni sociali e culturali o a ripeterne le prescrizioni silenziose. Lì risiede il segreto del suo fascino e del suo mistero: Claudine ripete i gesti e le modalità di relazione in cui si perpetua la vita (torna col vassoio e mi versa fra le labbra il thè caldo, e io le dico: “Mi sembra di esser tornato piccolo quando ero ammalato e la mamma mi portava la merenda a letto. Tu hai qualcosa nei gesti che mi ricorda mia madre”), e risulta, per questa via, a Valerio protettiva e rassicurante come solo la ripetizione sa esserlo (mi hai salvato tu…con la tua pazienza, con la tua tenerezza); ma Claudine sperimenta e si sperimenta, anche, spiazzando Valerio con sparizioni drastiche e apparizioni altrettanto repentine, sottraendosi alla lettura che lui vuole imporle di se stessa (Guardati, guardati, tu sei anche questa, riconosciti!) e conquistandosi nel finale una funzione realmente complementare, non più in relazione ai desideri di Valerio, ma in relazione al diritto al racconto (Ma tu volevi forgiare la mia vita secondo le tue convinzioni e il tuo, di piacere, e io, sulla mia vita, volevo decidere da sola, essere io a indirizzarla).
Aiutanti, nella quête di Valerio, sono gli altri personaggi maschili del romanzo: Franco, l’avvocato-poeta, vecchio compagno sessantottino (come Ottavio, che è appena uscito dal carcere), Giò, il cavatore di marmo, o persino figure miste di storia e d’invenzione, come Sebastiano Timpanaro; ma soprattutto Massimo, il giovane ricercatore universitario. Un piccolo universo maschile transgenerazionale, mai contrassegnato da vistosi caratteri “di genere” che evochino non già il machismo, ma neppure i luoghi comuni di una virilità necessariamente giocata sulla forza e sul decisionismo, sensibilmente attraversato, piuttosto, da un’inquietudine profonda: dei “vecchi” nei confronti delle loro stesse sicurezze, forse troppe; dei “giovani” perché a quelli della loro generazione mancano le coordinate generali. E di questa inquietudine sembra essere segnale forte proprio il rapporto complesso con le donne, che occupa, nonostante la differenza d’età, buona parte dei discorsi fra Valerio e Massimo. Insieme – e non è un caso – al rapporto con la politica.
3. I TEMI
Ne La rancura, dove centrale è il rapporto padre-figlio, centrale è anche il rapporto con la storia, con i grandi eventi che impongono partecipazione e scelte. La figura paterna, depositaria, nella relazione parentale, di una funzione importante di mediazione con l’esterno, diventa il tramite del rapporto con la storia e dunque strumento doppio nella definizione dell’identità individuale e collettiva dei figli. In questo romanzo l’esterno e la storia sembrano aver perso i connotati urgenti dei grandi cambiamenti (All’agitazione dei giornali e dei telegiornali corrisponde la solita calma piatta di sempre. Gli stadi e le discoteche continuano a riempirsi nei week-end, la borsa ad andare su e giù, i fiorentini e i turisti a passeggiare fra piazza della Signoria e via Calzaiuoli) e, come efficacemente sintetizza Timpanaro, non sappiamo più con chi stare… Ma questa prima persona plurale è già sbagliata…Da tempo non esiste più un noi. Dissolta dunque la dimensione collettiva della storia, rimpiazzata, nel migliore dei casi, dal volontariato delle associazioni e dei comitati cittadini in cui Massimo è molto impegnato, la dimensione privata arriva a chiedere il conto, simboleggiata da un universo femminile variegato e composito. Accanto alla madre e alle donne di cui s’è detto, altre figure, come la sorella Albertina, concreta, indipendente, protettiva, o la figlia Serena, libera, spregiudicata, diretta, si dispongono a rappresentare il movimento, la trasformazione, il “noi” ancora possibile. Tutte queste donne hanno sulla loro pelle il marchio indelebile di un cambiamento insieme necessario e sofferto, desiderato e patito, pagato a prezzo di rinunce e di conquiste, di un lavoro incessante di spola tra macrostoria e microstoria, che finalmente restituisce alla trama dei fatti – davvero come fossero sulla grande tela di Penelope – l’ordito segreto che li sostiene.
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