Scozia e Brexit: Gli autonomismi sono tutti uguali?
17 settembre 2014. Alla vigilia del referendum per l’indipendenza scozzese, l’ufficio stampa del gruppo lombardo della Lega Nord annuncia così l’imminente missione di un gruppo di delegati «a sostegno degli ideali scozzesi»:
Ore 14:49
Referendum Scozia. Ciocca (LN): «Lega Nord sarà ad Amburgo a sostegno di ideali scozzesi»
Ore 15:11
Referendum Scozia. Ciocca (LN): «Lega Nord sarà a Strasburgo a sostegno di ideali scozzesi»
Ore 15:52
Referendum Scozia. Ciocca (LN): «Lega Nord sarà ad Edimburgo a sostegno di ideali scozzesi»
Riletta circa ventun mesi dopo, la notizia risulta ancora più grottesca di quanto non fosse in partenza. Quale fosse la capitale della Scozia lo si sapeva già prima, chi più chi meno; ciò che non era ancora così chiaro a molti italiani, invece, era che gli «ideali scozzesi» avessero poco a che fare con il populismo e l’euroscetticismo delle zelanti camicie verdi. Per quel tipo di mercanzia conveniva piuttosto cercare in Inghilterra, dalle parti di Johnson o Farage.
L’unica conseguenza vagamente positiva della Brexit, tra le tante infauste, è appunto quella di aver chiarito una volta per tutte – anche al di fuori del Regno Unito – che la Scozia non è l’Inghilterra, non solo geograficamente ma anche (soprattutto) politicamente. I veri ideali scozzesi li ha esposti limpidamente Alyn Smith, rappresentante scozzese al parlamento europeo, in un discorso tenuto a Bruxelles pochi giorni fa: «I want my country to be internationalist, cooperative, ecological, fair, and European». Che la sua non sia un’opinione minoritaria è stato confermato dai risultati del referendum del 23 giugno: il 62% degli scozzesi a favore della permanenza nell’Unione, solo il 38% contrario. L’opposto, dunque, rispetto all’Inghilterra, dove il Leave ha ottenuto il 53,4% contro il 46,6% del Remain.
Le ragioni di questo scarto tra Scozia e Inghilterra sono molteplici, e meriterebbero uno studio approfondito. Mi limito qui a riportare tre ipotesi:
1) Gran parte dell’economia scozzese dipende dall’Unione Europea. È vero, le esportazioni e i fondi europei sono fondamentali per l’economia di molte regioni della Scozia. Questo non basta, però, a spiegare gli esiti del referendum: gli studi condotti dopo il voto, infatti, hanno evidenziato come in Inghilterra la percentuale più alta di Leave provenisse proprio dalle regioni più legate economicamente all’Unione.
(Fonte: http://blogs.ft.com/ftdata/2016/06/24/brexit-demographic-divide-eu-referendum-results/)
2) L’Europa non è l’Altro. Nel discorso politico scozzese, l’alterità cui ci si oppone (e rispetto alla quale ci si definisce) non è Bruxelles, ma Westminster; di conseguenza, l’ascesa dell’euroscetticismo in Inghilterra non ha fatto che incoraggiare, per contrasto, l’europeismo a Nord dei borders.
3) Lo stato sociale. In una società rigidamente classista come quella britannica, la Scozia si distingue per il tentativo di mitigare i contrasti attraverso politiche sociali ben più cospicue di quelle inglesi. Che il Welfare scozzese abbia i suoi problemi è indubbio (la percentuale di disoccupati in Scozia è più alta rispetto alla media del Regno); tuttavia, è anche probabile che la minore intensità del conflitto sociale abbia reso la Scozia meno vulnerabile alla retorica xenofoba e populista dei Farage di turno. Non sarà un caso, del resto, che la correlazione tra fasce sociali basse e preferenza per il Leave sia molto meno netta (o assente) in Scozia .
Per spiegare la schiacciante vittoria del Remain a Nord sarà utile, inoltre, arretrare di nuovo al 2014. Ai tempi dell’altro referendum, quello per l’indipendenza, vivevo in Scozia da quasi due anni; per inciso, in quanto residente europeo in Scozia, mi era stato concesso il diritto di voto (altro esempio di quanto la società scozzese sia aperta e inclusiva, in contrasto alle tendenze dominanti nel resto d’Europa). Com’è noto, il Sì (cioè l’indipendenza) ne uscì sconfitto con un margine inferiore rispetto a quanto ci si aspettasse fino a pochi mesi prima: 55,3% contro 44,7%. Nei giorni precedenti il voto, alcuni sondaggi avevano addirittura segnalato uno storico sorpasso del Sì. A frenare la rimonta degli indipendentisti, e a spaventare gli indecisi, contribuì notevolmente l’argomento europeista ventilato dal fronte del Better together: una volta ottenuta l’indipendenza, per la Scozia sarebbe stato «estremamente difficile, se non impossibile» (per usare le parole di Barroso rientrare nell’Unione Europea come Stato sovrano. L’autonomia avrebbe quindi significato non solo la separazione dall’Inghilterra, ma anche l’isolamento rispetto al continente.
Di fronte a un simile deterrente, è naturale che molti indecisi abbiano infine votato per il mantenimento dello status quo; chissà cosa avrebbero fatto, se avessero saputo che nel giro di pochi mesi sarebbero rimasti ugualmente fuori dall’Unione, e il loro primo ministro (allora Alex Salmond, oggi Nicola Sturgeon) avrebbe dovuto avviare i difficili negoziati per una per una permanenza separata della Scozia nel mercato unico. Date le premesse, è facile comprendere il senso di beffa e di frustrazione che domina oggi in Scozia – un Paese a larga maggioranza filoeuropeo e tradizionalmente socialdemocratico (lo Scottish National Party, che di nazionalista nel senso comune non ha nulla, ha ottenuto poco meno di un plebiscito alle elezioni del 2015), che si trova a dipendere dalle scelte di un Paese euroscettico e liberista.
Ci troviamo così di fronte a una situazione a dir poco anomala: un movimento autonomista che non si nutre di spinte populiste, anzi le contrasta, e che si oppone agli interessi dell’unità nazionale in nome dell’unità europea. È chiaro che l’autonomismo scozzese non può essere considerato alla stregua di tanti suoi omologhi europei; i suoi veri moventi hanno ben poco a che fare con la convenienza economica o con l’irrazionalismo identitario, e vanno invece nella direzione di un’Europa più coesa e democratica. In altre parole, il caso della Scozia ci ricorda che la dimensione sempre più europea delle politiche nazionali dovrebbe comportare un ripensamento della categoria stessa di autonomismo: non sempre, infatti, la ricerca dell’indipendenza sul piano nazionale è sinonimo di frammentazione e particolarismo sul piano globale.
È altrettanto chiaro, però, che l’Europa non possiede ancora gli strumenti istituzionali per distinguere tra autonomismi ‘buoni’ e ‘cattivi’. Non ha nulla da ribattere, dunque, quando il Primo Ministro spagnolo Rajoy si oppone preventivamente a ogni negoziazione con la Scozia, temendo che questa possa diventare un precedente a favore della Catalogna e dei Paesi Baschi; eppure la differenza tra Scozia e indipendentismi spagnoli, e tra Inghilterra e Spagna, è così grande che non può essere del tutto ignorata. Uno dei compiti dell’Unione nel prossimo futuro sarà quindi riconoscere la specificità del caso scozzese, evitando al tempo stesso di incoraggiare spinte separatiste in apparenza analoghe.
È verosimile che questa situazione di stallo possa essere risolta solo nel modo più lungo e rischioso per la Scozia: un nuovo referendum per l’indipendenza, l’adozione di una nuova moneta, una lenta e incerta procedura per la riammissione (che, naturalmente, dovrebbe essere approvata all’unanimità dai Paesi membri). Si spera, comunque, che la vicenda scozzese porti l’opinione pubblica e l’Unione a riflettere sistematicamente su problemi rimasti finora in secondo piano: da un punto di vista sovranazionale, è davvero possibile affermare che tutti gli autonomismi sono uguali? E in caso contrario, come possono le istituzioni europee rendere giustizia alle differenze tra i singoli casi, senza cadere nella trappola del precedente?
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