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diretto da Romano Luperini

Una lettura di Pellegrinaggio di Ungaretti

Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916 

In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

Pellegrinaggio condivide con I fiumi, che la precede, la data del 16 agosto 1916. È la poesia che contiene il nome dell’autore e l’epiteto da lui stesso scelto: «uomo di pena». È quindi una stazione cruciale del percorso di ricomposizione del soggetto che si sviluppa nel Porto Sepolto.

La lirica è fatta di diciassette versi brevi articolati in tre strofe, più lunga la prima (dieci versi) e più brevi le altre due, entrambe di quattro versi. Poche ma semanticamente incisive le rime: agguATO/strascicATO ai vv. 1-5 e PellegrinAGGIO/corAGGIO che collega il titolo al v. 14.

Si può provare a percorrere il testo lasciandosi guidare proprio da queste due coppie di parole-chiave (agguato/strascicato e pellegrinaggio/coraggio), che aprono due piani semantici. Il primo, che occupa tutta la prima strofa, riguarda il movimento senza scopo di un corpo pesante e affaticato, strisciante nel fango eppure pronto all’attacco a sorpresa. Il secondo, che deriva paradossalmente dal primo, può essere inteso come viaggio latamente religioso: rivolto a una mèta, diventa un coraggioso percorso di rinascita e rifondazione. Per capire come avviene il salto dal primo al secondo piano è utile focalizzare l’attenzione sulle posture del soggetto e sui passaggi di persona (dalla prima alla seconda), ma anche sulle polarizzazioni che si formano nelle pieghe retorico-linguistiche del testo.

Al quinto verso il soggetto si presenta nell’atto di trascinare a stento il proprio corpo («ho strascicato»), ridotto a una «carcassa», ovvero vicino al disfacimento (v. 6), per un tempo indefinito e ripetitivo («ore e ore», v. 4), in un labirinto di macerie («in queste budella/ di macerie» vv. 2-3). L’enjambement ai vv. 2-3 separa ciò che il procedimento metaforico sovrappone: la sfera della materia organica (le ‘budella’) e quella della materia inorganica (le ‘macerie’). Viceversa, con l’enjambement ai vv. 5-6, la metrica, mentre spezza e contraddice la sintassi, rafforza, sul piano semantico, l’espressione di una dissociazione e di una estraniazione del soggetto rispetto al proprio corpo. Ma l’immagine può essere intesa anche come inglobamento della morte dentro la vita (c’è un soggetto che compie l’azione di portare in giro il proprio cadavere), cioè nel segno della sovrapposizione dei contrari. L’intera strofa sembra attraversata da due movimenti contrari, che si sovrappongono: la contaminazione e la separazione. Il soggetto si rappresenta, inoltre, radicato in uno spazio labirintico. L’attacco del secondo verso, con un deittico dimostrativo che indica prossimità («in queste»), àncora il soggetto a un paesaggio frammentato e disgiuntivo che può essere accostato all’immagine del labirinto come metafora essenziale della guerra di trincea. La metafora allestita da Ungaretti nella messa in forma di questo spazio della guerra porta in superficie la quota di contaminazione e porosità tra organico e inorganico, tra naturale e artificiale che caratterizzava in profondità l’ambiente labirintico della zona di guerra. Sotto questo profilo, è interessante portare per un attimo l’attenzione sul processo correttorio e osservare l’unica variante riscontrabile dal Porto Sepolto del 1916 all’Allegria del 1942. Riguarda il secondo verso: «in questi budelli» diventa «in queste budella». È un cambiamento ininfluente sulla metrica e sulla linea del discorso, ma denota uno scavo nella stratigrafia figurale della parola – declinata al singolare – ‘budello’ (propriamente ‘tratto di intestino animale’). Al plurale coesistono due forme: ‘budelli’ e ‘budella’, appunto. Nell’uso della prima si è affermato il senso figurato di ‘strettoie’, ‘vie strette e contorte’, che è il senso in cui va intesa in questo verso. La seconda ha conservato il significato letterale di ‘visceri di animali’. La variante introdotta a distanza di tempo recupera il significato originario della parola e insieme, di conseguenza, accentua il rilievo retorico-figurale del sintagma «budella/ di macerie», che gioca proprio sulla contaminazione tra naturale e artificiale.

Una porosità al confine tra organico e inorganico è evocata ancora negli ultimi quattro versi di questa prima strofa. Un sistema di analogie mette in relazione la carcassa a una suola e a un seme di spinalba: a fare da trait d’union è il fango, un fango che consuma e corrode (‘usata’ è un francesismo e va inteso nel senso di ‘consumato, eroso’). Sulla «carcassa» si sovrappongono due istanze: quella verso l’annullamento in virtù dell’assimilazione a un manufatto destinato all’esaurimento («una suola») e quella rivolta a una rinascita, attraverso l’accostamento a una promessa di vita («un seme»). A ciò va aggiunto che si tratta di un seme di spinalba, una pianta che, come ci informa il poeta, «prospera in ogni giardino d’Alessandria».

L’azione del fango ridisegna il perimetro identitario includendovi tanto l’annientamento vissuto nel presente quanto il salto memoriale nel passato dell’infanzia egiziana. Nell’immagine della carcassa usata dal fango come una suola o un seme di spinalba si sovrappongono polarità contrarie: la natura controllata dall’essere umano (il seme di spinalba che matura nei giardini) e l’essere umano plasmato dalla natura (la carcassa, brandello di tessuto organico a cui è ridotto l’uomo, consumata dal fango); da un lato la costruzione di una soggettività capace di dare un senso al mondo, dall’altro l’annullamento dell’individuo nella scoperta della comune fragilità di uomo e natura e nel riconoscersi «docile fibra dell’universo».

Nelle due strofe successive si registra un salto, a partire dall’apostrofe rivolta dal soggetto all’autore, interpellato per nome e subito qualificato come «uomo di pena». La seconda strofa è interamente occupata dalla tensione allocutoria rivolta al poeta e si conclude con la parola «coraggio», gettando cioè un ponte, a livello fonico, verso il titolo, Pellegrinaggio.

Sembra di avvertire un’eco di questi versi – e di tutta la lirica – in una lettera dell’inverno 1918, in cui Ungaretti si rivolge a Soffici e parla di sé in terza persona:

Mio caro Soffici, cessa il fango e riprincipia il gelo; e tutto questo grigio larvato di cose di medio inverno; Ungaretti zoppicando porta adagio la sua malinconia in giro; e gli manca un po’ di forza per aderire alla sua giornata […]. Senza adesione e senza meta va il pellegrino dei sogni, come un’ombra sulla neve che sembra squagliarsi con un fastidio infinito e rimane, povere giornate.i

In queste righe troviamo un cortocircuito tra l’istanza della dissociazione, dell’esaurimento e del disorientamento e la necessità di un itinerario di ricomposizione e rinascita veicolata dalla figura del pellegrino. Il «pellegrino dei sogni», infatti, va «senza adesione e senza meta». E può essere un’indicazione preziosa per l’intelligenza della lirica. Una possibile chiave di lettura del movimento in essa rappresentato, infatti, si può trovare guardando al significato di ‘pellegrino’ come ‘straniero’, ‘esule’, ‘viandante’, ma alla ricerca di un ancoraggio. Il pellegrinaggio si configurerebbe come percorso di costruzione di una soggettività straniera, consistente nel radicamento dentro il perimetro di un labirinto senza meta da parte di un pellegrino dei sogni che si àncora («rimane») alla sua metamorfosi («come un’ombra sulla neve che sembra squagliarsi»).

L’ultima strofa è composta anch’essa da quattro versi, ma più brevi, ed è legata alla precedente dall’assonanza del proprio verso d’apertura (v. 15) con il verso 13: illusiOnE/ riflettOrE. Questo nesso induce a mettere in relazione, anche sul piano semantico, l’illusione, evocata come viatico al coraggio, e l’immagine di un dispositivo di illuminazione e proiezione (un riflettore), che, distante ed esterno al perimetro del labirinto («di là» – recita il brevissimo verso 16, isolando il deittico), «mette un mare/ nella nebbia» (vv. 17-18).

Esiste una prima versione della poesia, precedente a quella poi inserita nel libro del 1916. Ungaretti la inviò a Papini il 27 agosto 1916:

Soldato

Tra due pareti di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
affardellata
Ungaretti
uomo di pena
basta un’illusione
a farti coraggio
Non mancano
le illusioni
ai poeti

L’ultima strofa verrà poi sostituita da una serie di versi, inviata anch’essa a Papini insieme a questo testo ma come lirica autonoma:


Rischiaro

Quel riflettore
mette un mare
sul cielo torbidoii

Sottoposta a un processo di asciugatura e verticalizzazione diventerà:

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

La prima idea di conclusione, che tracciava inequivocabilmente una linea tra l’illusione della seconda strofa e la poesia stessa, incoraggiano una lettura di Pellegrinaggio in questa chiave. La strofa che Ungaretti poi sostituisce a quella, in effetti meno riuscita, inviata a Papini va, allora, intesa come rappresentazione del dispositivo retorico-figurale proprio dell’espressione lirica – contigua al sogno e produttrice di illusioni -, segno del suo valore come scenario di costruzione di una soggettività ‘pellegrina’ ri-tessuta dal trauma bellico – «Sono un frutto/ d’innumerevoli contrasti d’innesti», si legge nella penultima lirica del Porto Sepolto, prima del Commiato.

Il Porto Sepolto non contiene altro nome di persona se non negli estremi di incipit ed explicit (rispettivamente a Moammed Scead e a Ettore Serra) e in Pellegrinaggio, vero baricentro, in questo senso, dell’intera opera, incaricato di indicare, della poesia, la capacità di messa in forma e composizione (ma non di risarcimento, né di sublimazione) delle fratture identitarie del soggetto.

Nel primo libro di Ungaretti l’esperienza sconvolgente della fragilità umana nella guerra totale entra nelle forme della lirica, per cambiarle profondamente e farne sede di un percorso di ricostruzione della soggettività. Ungaretti espone la propria fiducia nella parola poetica al fuoco di questa esperienza e affida alle forme stesse della lirica il compito di toccare il «cuore oscuro della modernità», esploso – come ha scritto Andrea Zanzotto – «in un trauma radicale», nelle trincee del Carso. Osservare sotto questa luce la rivoluzione formale e la poetica di Ungaretti non può non suggerire l’esistenza di un legame profondo di questa sua reinvenzione della poesia con il trauma bellico.

[L’articolo corrisponde, salvo lievi modifiche, a un paragrafo della monografia Morfologie del trauma bellico. Poesia e guerra totale in Ungaretti, Rebora, Sereni, Pisa, Pacini, 2023]

i G. Ungaretti, Le lettere di una vita 1909-1970, a cura di F. Bernardini Napoletano, Milano, Mondadori, 2022, p.223.

ii G. Ungaretti, Le lettere di una vita 1909-1970 cit., pp. 118-119.

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