Su Il popolo è immortale di Vasilij Grossman
L’esordio di Grossman
Siamo di fronte alla prima prova narrativa dell’autore di Vita e destino, il “Guerra e pace” del XX secolo, che apre la serie di libri che portano a questo capolavoro. È il primo dei romanzi di guerra scritto dall’autore, russo-ucraino ed ebreo, che dopo non essere riuscito a salvare la propria madre dall’invasione nazista chiese di partire volontario per il fronte. A causa della sua grave miopia venne riformato come soldato e reclutato come inviato di guerra nella redazione del giornale militare «Stella Rossa». Riuscì a scuotersi dalla depressione in cui era piombato e, preso da euforia, decise di battersi per la libertà della patria invasa. La parola «libertà» ricorre molte volte nel romanzo come uno degli ideali del popolo russo, cosa che può suonare strana perché l’Unione Sovietica, appena uscita dal terrore degli anni Trenta, stava sotto il tallone di Stalin e il processo della rivoluzione sociale era finito da un pezzo. Come dimostrano nell’interessantissima Postfazione del volume Robert Chandler e Julija Volochova, i curatori di questa edizione integrale, a cui dobbiamo la riscoperta di Grossman, la critica più o meno esplicita dell’autore si rivolge proprio contro Stalin. Nel 1941 i primi mesi di guerra furono disastrosi e la Wehrmacht penetrò profondamente nell’immenso territorio russo, alimentando il mito della guerra lampo (tra l’altro lo scenario della narrazione è lo stesso dell’attuale conflitto ucraino e, a carte rovesciate, l’invasione di Putin è l’ennesimo fallimento del modello del blitzkrieg). Stalin motivò il disastro con il miglior equipaggiamento militare dei tedeschi. In realtà, secondo molti storici, essi avevano «una strategia migliore nel dispiegare carri armati, aerei e altro equipaggiamento in modo efficace e coordinato». A questa strategia Grossman dedica molte pagine, il che suona come una critica implicita a Stalin. Scrivono i curatori: «esisteva l’incompetenza della leadership militare sovietica. Nel 1937, al culmine delle repressioni, Stalin aveva rimosso dai loro incarichi molti dei più alti gradi delle forze armate». La conseguenza fu un sistema di difesa statico largamente inefficace, quando quella in corso era una guerra di movimento, praticata sia dai generali tedeschi sia dai capi militari giustiziati da Stalin. Non è un caso che Grossman non citi mai direttamente Stalin, come era di rito all’epoca nella letteratura del realismo sovietico, ma, al momento della perorazione decisiva del commissario politico Bogarev alle truppe, la citazione è per Lenin: «Dovete vincere, compagni, e vincerete. Nel vostro petto batte il cuore di Lenin» (p. 165).
Un tratto di storia dell’Armata Rossa
La trama del romanzo è piuttosto semplice: è la storia di un’unità dell’Armata Rossa che rimane accerchiata dietro le linee tedesche, mentre è in corso una ritirata verso est, tra i campi di grano non mietuto dell’Ucraina. La storia si conclude con la rottura dell’accerchiamento, grazie alla manovra coordinata su due fronti da parte dell’Armata Rossa: il grosso delle truppe, che sta resistendo all’avanzata dei nazisti, e questa unità, che è rimasta imbottigliata dietro le linee nemiche. È basata su una storia realmente accaduta, raccontata a Grossman dal commissario Sljapin (come si deduce dai suoi famosi taccuini). Come è tipico dei romanzi dell’autore e del romanzo storico, vi è un continuo rimando tra finzione e realtà.
Il sistema dei personaggi contro lo stalinismo
I due personaggi principali del romanzo sono il commissario politico di battaglione, Sergej Aleksandrovic Bogarev, e il soldato semplice e giovane contadino kolkoziano, Semen Ignate’ev, che che conquista le belle ragazze cantando e raccontando storie antiche, apprese da una vecchia contadina del kolkoz. Con le stesse arti, Ignate’ev tiene alto il morale dei suoi commilitoni. Sembrerebbe di trovarsi dentro i canoni propagandistici degli eroi positivi tipici del realismo socialista, ma è solo un’apparenza. Bogarev è un filosofo strappato ai suoi studi sugli scritti di Marx all’Istituto Marx-Engels di Mosca e mandato al fronte. I curatori dimostrano, grazie ai fluviali taccuini di Grossman, che Bogarev trae ispirazione dal direttore di quell’Istituto, prima esiliato e poi giustiziato da Stalin. L’identificazione con l’Autore è evidente, anche lui sottratto al proprio lavoro di scrittore per andare in guerra. Il soldato semplice Ignate’ev garantisce alla narrazione un punto di vista dal basso ma non è un eroe tutto di un pezzo della gloriosa Unione Sovietica: è il classico contadino astuto, che se la cava in ogni circostanza, nella cui mano «ogni attrezzo suona». Parte malvolentieri per il fronte, lascia di malanimo la sua fidanzata Vera, che muore sotto i bombardamenti, ma trova una nuova fidanzata al fronte e scopre solo sul campo di battaglia l’amore per la propria terra. Bogarev e Ignate’ev si troveranno accomunati dallo stesso destino nella parte finale del romanzo.
Vi sono molti altri personaggi, cui farò solo qualche rapido accenno, che rendono questo libro un romanzo corale. Grossman si confronta con il tema della carestia e della collettivizzazione forzata delle terre dei kulaki perseguitati da Stalin, uno dei quali, Kotenko, all’arrivo dei tedeschi sfodera il proprio abito migliore, che puzza di naftalina, nella speranza che gli vengano restituite le terre confiscate, ma rimarrà mortalmente deluso, nel senso letterale del termine. L’undicenne Lenja, il figlio del potente commissario di divisione Ceredinicenko, sopravvive alla morte della nonna per mano dei nazisti e fugge nel disperato tentativo di ricongiungersi al padre; è impaurito, ma non dubita che il genitore verrà a prenderlo. Mercalov, maggiore, comandante di reggimento, eroe dell’Unione Sovietica nella guerra contro la Finlandia, è obbediente alla famigerata ordinanza n. 270 del Comando Supremo dell’Armata Rossa, presieduto da Stalin, che vietava ogni ritirata. Toccherà a lui, dopo una terribile lite con Bogarev, sovvertire lo schema staliniano e arretrare per poter poi sfondare il fronte nemico. Si può capire dalla ordinanza n. 270 l’intima natura dello stalinismo: una dogmatica autoritaria che non teneva alcun conto dei processi reali.
Grossman era animato del bisogno di dire la verità, anche a costo di incorrere nei rigori della censura stalinista, con cui ha combattuto per tutta l’esistenza, rimanendo comunista fino alla fine senza diventare un dissidente, a rischio della prigione, della deportazione e della vita stessa.
Il completamento della trilogia di Grossman
Il libro uscì a puntate su «Stella Rossa» nel 1942, in capitoli brevi, proprio perché non vi era la certezza che i lettori, cioè i soldati al fronte, potessero avere il tempo di leggere tutto il romanzo sulle pagine del giornale, dal momento che spesso le utilizzavano come cartine per le sigarette. Fu poi emendato e rimaneggiato, per sfuggire alla censura e pubblicato in un unico volume dalla Pravda. La presente edizione, tradotta in italiano, ha il merito di essere integrale e riporta molti brani espunti da Grossman per sfuggire alla censura.
Questa prima prova dello scrittore anticipa l’epopea dei due romanzi più noti, Stalingrado (1952) e il capolavoro Vita e destino (1960), rispetto ai quali è più semplice e immediato, ma, comunque, in singolare continuità. È con Il popolo è immortale che si completa la trilogia della guerra di Grossman, se vogliamo ricostruire una delle tante terne di hegeliana memoria della nostra letteratura. Viceversa E tutto scorre, con cui alcuni critici completano la dilogia di Stalingrado e Vita e destino, ne rappresenta più che altro il complemento filosofico.
Comuni ai tre romanzi sono il nesso tra gli uomini e la natura, che sembra partecipare alla guerra, le descrizioni limpide e sinestesiche, che sono la sigla dello stile di Grossman, l’idea del fluire contraddittorio della storia, tipica del marxismo, l’indipendenza di giudizio di Grossman rispetto ai canoni politici e ideologici del realismo socialista.
Quando il lettore giunge alla fine del romanzo è portato ad aderire all’epopea di Grossman, che cercava di tenere alto il morale delle truppe sovietiche senza lesinare le critiche ai comandanti stalinisti. Nasce fin dal titolo il pensiero di quale immenso movimento di massa planetario sia stato quello comunista e come lo stalinismo sia stato il peggior servizio fatto alla sua giusta causa.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Lo scritto che Beppe Corlito ci ammannisce in questo articolo dovrebbe essere una presentazione del romanzo di esordio di Vasilij Grossman (un autore “russo-ucraino ed ebreo” particolarmente caro agli anticomunisti che intendono darsi una vernice ‘di sinistra’), ma si risolve, per via di un ‘furor’ polemico privo di solide motivazioni storiche e ideali, in un acido pamphlet antistalinista. Ciò che ne risulta è infatti un vieto campionario dei pregiudizi e delle mistificazioni create ad arte dalla propaganda di stampo americano nel periodo della “guerra fredda” con lo scopo precipuo di denigrare l’azione e la figura di colui che lo stesso Lenin ebbe a qualificare come “quel meraviglioso georgiano” (definizione che compare nel sottotitolo di una bella biografia di Stalin scritta da Gianni Rocca, che il Corlito, se non fosse accecato da quel ‘fuor’, farebbe bene a leggersi). Tralasciando, per altro, l’uso strumentale (e anche abbastanza meschino), nella sua ‘recensione-pamphlet’, dei riferimenti ai vari personaggi quali specchi deformanti per mettere in cattiva luce la personalità di Stalin, vale la pena di sottolineare che lo stesso recensore, dopo aver criticato i presunti errori di Stalin prima e dopo l’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica, non può non riconoscere, sia pure attribuendoli unicamente al “popolo immortale”, i meriti di Stalin nella conduzione della grandiosa controffensiva dell’Armata Rossa che porterà i soldati sovietici a innalzare, il 2 maggio 1945, la bandiera rossa sul palazzo del Reichstag. Per quanto riguarda poi il riferimento all’epurazione dei quadri di comando dell’Armata Rossa (1937-38), va detto che essa fu decisa dopo la scoperta della cospirazione militare che il generale Tuchacevskij stava preparando in combutta con le frazioni opportuniste del partito comunista e si rivelò determinante (non per indebolire ma) per rafforzare la successiva resistenza ideologica, politica e militare dello Stato sovietico nel corso della guerra, che il gruppo dirigente del partito sapeva essere inevitabile, con il fascismo. Eliminando la quinta colonna, Stalin salvò la vita a molti milioni di sovietici, poiché questi morti sarebbero stati il prezzo supplementare da pagare nel caso in cui l’aggressione esterna avesse potuto giovarsi dei sabotaggi e dei tradimenti interni. Certo, il generale Zukov e gli altri capi militari non avevano mai accettato l’inevitabilità di questa epurazione e non avevano nemmeno capito il significato politico del processo a Bucharin; ciò nondimeno, Zukov nelle sue “Memorie” (tomo II, Edizioni Fayard, Parigi, 1970) confuterà le menzogne di Chruscev sugli errori e le responsabilità di Stalin nella seconda guerra mondiale, sottolineando giustamente che la vera politica di difesa era cominciata nel 1928 con la decisione, da parte di Stalin, di promuovere l’industrializzazione a tappe forzate. Stalin, infatti, preparò la difesa dell’Unione Sovietica costruendo più di 9000 industrie tra il 1928 e il 1941 e seguì la linea strategica di impiantare all’Est del paese una nuova potente base industriale: partendo da questa premessa, Zukov rende perciò omaggio “alla saggezza e alla chiaroveggenza” di Stalin sia prima che durante la guerra, virtù “sancite in modo definitivo dal sommo giudizio della storia”. Per attaccare il prestigio di Stalin, che fu incontestabilmente il più grande capo militare della guerra antifascista, i suoi nemici amano chiacchierare su “una dogmatica autoritaria che non teneva alcun conto dei processi reali”, quando fu proprio grazie alla lucidità e alla fermezza di Stalin, nel cui nome i soldati russi andavano all’attacco, che l’Unione Sovietica vinse la Grande Guerra Patriottica e salvò, oltre a se stessa, l’intera umanità dal flagello della svastica. In realtà, Stalin sapeva meglio di chiunque altro quale barbarie avrebbe colpito il suo paese nella eventualità di una vittoria della Germania nazista e lo stesso Zukov ricorda che, se fu scosso nel momento in cui apprese la notizia dello scoppio della guerra, “dopo il 22 giugno 1941 e per tutta la durata della guerra Giuseppe Stalin assicurò la ferma direzione del paese, della guerra e delle nostre relazioni internazionali”. Concludendo, desidero semplicemente ribadire che in una fase come quella attuale, in cui sembra di essere tornati al periodo 1900-1914, quando le potenze imperialiste decidevano tra loro le sorti del mondo, l’esperienza dimostra che il pensiero e l’opera di Stalin costituiscono, assieme ad altre fondamentali ed essenziali lezioni della storia del ventesimo secolo, una parte integrante del patrimonio ideale, politico e morale del proletariato e delle classi subalterne, che solo una profonda disonestà intellettuale può mettere in dubbio o negare.
Due cose su Stalin e sulla letteratura, fuori dai luoghi comuni.
Nel 2005 Berlusconi, durante la conferenza stampa di fine anno (in diretta Tv), ha aggredito la giornalista dell’Unità sventolandole in faccia la copia del giornale del 1953 che a caratteri cubitali onorava Stalin defunto e l’ha accusata di complicità in centomila omicidi, trascinando nelle sue accuse tutti i comunisti, passati, presenti e futuri.
Su Stalin, non c’è stata a sinistra una vera discussione politica e storiografica: è semplicemente passato con una rimozione da eroe indiscusso a macellaio. Anche su questa rimozione si fonda il dominio attuale sull’immaginario politico dei postfascisti e dei neoliberali. Ogni pretesa di uguaglianza sociale non può che sfociare in una dittatura: dunque lasciamo che il capitalismo faccia il suo corso, anche se il suo traguardo sembra oggi essere la guerra globale e la distruzione dell’umanità, di cui Gaza è sineddoche. Detto questo, una vera discussione politica sullo stalinismo, non può ignorare il lato tragico della storia: fin dagli anni ‘20, a causa del tentativo dell’occidente di soffocare la Rivoluzione d’ottobre, in Urss è stata calpestata la democrazia operaia dei Soviet, che aveva suscitato un entusiasmo immenso nei proletari, nei socialisti, negli anarchici, nelle femministe di tutto il mondo. Questa restrizione della democrazia operaia ha prodotto non solo una dittatura burocratica ma soprattutto una psicosi inquisitoria di lunga durata che ha condannato all’abiura, ai processi, alla delazione e alla morte gran parte dei migliori quadri della rivoluzione. Basti un libro su tutti a testimoniarlo: e non è un libro di parte borghese: le Memorie di un rivoluzionario di Viktor Serge. Si tratta di una tragedia di cui oggi dobbiamo farci carico: anche per riabilitare l’idea di autogoverno e di giustizia sociale che fu propria dei comunisti. Uno degli strumenti migliori per farlo è accogliere la polisemia delle grandi opere letterarie: e i romanzi di Grossman sono tali. Anche se sono stati strumentalizzati da chi equipara fascismo e comunismo sotto la retorica faziosa dei “totalitarismi”, conservano una carica conoscitiva immane. E la chiusa dell’articolo di Corlito lo mostra bene: nella dilogia di Grossman il lettore può ritrovare tanto l’immensa carica di speranza e di libertà mossa dalla Rivoluzione comunista, giunta nonostante lo stalinismo a sconfiggere Hitler, quanto il suo tragico pervertimento. Basti solo la lettura di una pagina: quella dedicata alla resistenza della Casa di Pavlov. La battaglia di Stalingrado nei romanzi di Grossman come del resto la rivoluzione in Spagna e il suo esito tragico narrato da Loach in Terra e libertà, ci dice che storia non è univoca ma dialettica e che la letteratura e le arti ci aiutano a capirlo a fondo, senza abiure. Ci avrebbero aiutato aiutato anche a sbugiardare Berlusconi e a non subirne la retorica tracotante.
Caro Emanuele, ti ringrazio del commento. E’ vero che nella sinistra (soprattutto quella “rivoluzionaria” degli anni Settanta e in alcune sue più recenti propaggini) non vi è stato un vero dibattito politico e teorico sulla questione dello stalinismo, che ancor oggi nell’idea dogmatica e amministativa di risolvere i problemi concreti miete le proprie vittime, almeno sul versante politico ed ideologico. Personalmente la mia parte politica di riferimento fin dai primi anni Settanta (ricordo il numero monografico di “Nuovo impegno”) tentò di fare i conti con la “questione di Stalin” (ne ho dato testimonianza nel saggio appena uscito da Castelvecchi “Il Sessantotto e noi”, scritto con Romano Luperini, di cui questo blog ha dato conto e su cui mi aspetto una vera discussione). Nei successivi 50 anni ho continuato a essere “un comunista senza partito” (amaramente senza partito) e mi sono confermato nell’idea che le soluzioni staliniste, in vario modo ammantate, contribuirono alla rovina della prospettiva rivoluzionaria in Russia e in tutto il mondo. Esse continuano a dare spazio alla retorica anticomunista alla Berlusconi come tu scrivi. Ho trovato conferma di questa posizione nei libri di Grossman, che rimase un comunista nonostante la persecuzione stalinista. Penso di avere dalla mia parte un politico e un teorico di prim’ordine come Gramsci, l’unico che ha cercato di produrre un’ipotesi di rivoluzione in Occidente contro i “togliattiani” di ieri e di oggi (basta leggersi gli scritti e le lettere da carcere nella versione integrale), e un testimone d’eccezione quale Primo Levi come si può desumere dall’appendice di “Se questo è un uomo”. Quando sono diventati disponibili i romanzi e gli scritti di Grossman vi ho trovato conferma dell’idea di un “comunismo dei consigli”, l’unica forma che secondo me è in grado di coniugare la rivoluzione sociale con la democrazia diretta e la libertà, che rimane un bene insopprimibile, connaturato alla natura umana (cfr. la posizione di Chomsky). Rimango quindi fermo sulla chiusa della mia recensione, che tu giustamente sottolinei: lo stalisnismo è il peggior servizio fatto alla giusta causa del comunismo. Non vi è vittoria della “guerra patriottica” che tenga con tutto il rispetto per i 20 milioni di morti sovietici, con i quali l’Occidente è in debito. Lasciamo la retorica nazionalista a fare da schermo alla nuova dittadura di Putin. Convengo con te che la storia umana ha una sua dialettica intimamente contradditoria, la comprensione dei cui processi richiede un accurato lavoro analitico che fondi nuove sintesi, e che la letteratura e le arti nella loro polisemia ci aiutano a capire. Credo che per ciascuno di noi portare anche un granello di conoscenza in più sia un compito inevitabile.
La storia insegna che, sotto la guida di Stalin, l’URSS si trasformò da un paese prevalentemente agricolo in una superpotenza industriale, superando l’arretratezza e i ritardi ereditati dal regime zarista. Allo stesso tempo, il gruppo dirigente bolscevico diretto da Stalin preparò il paese ad affrontare e a vincere le grandi sfide della seconda guerra mondiale imperialista, svolgendo un ruolo decisivo e cruciale nella vittoria antifascista del popolo sovietico. Naturalmente, anche Stalin non era infallibile. Il suo errore principale fu quello di non aver compreso in tempo che esistevano ed operavano all’interno del Partito comunista frazioni e gruppi controrivoluzionari. Si trattava di quegli elementi che avrebbero poi avviato con Krusciov il cosiddetto processo di “destalinizzazione” e introdotto riforme di mercato, come la riforma Kosygin del 1965, che scardinavano l’economia pianificata: riforme che avrebbero condotto al graduale indebolimento della costruzione socialista. Certo, lo “stalinismo”, se così si vuole indicare il periodo della dittatura del proletariato in URSS (1924-1953), ha diviso e divide il movimento comunista, perché di lì passa, ancor oggi, la linea di demarcazione tra la borghesia e il proletariato, tra i veri e i falsi comunisti, e perché gli anticomunisti, compresi quelli ‘di sinistra’, si contrapporranno sempre ai marxisti-leninisti, in quanto questi rappresentano l’unica organizzazione politico-ideologica che si è rivelata capace di condurre il movimento di classe alla vittoria. Cfr. anche dello scrivente il seguente articolo: https://sinistrainrete.info/teoria/14680-eros-barone-nove-volte-stalin.html.
Mi piacerebbe sapere cos’avesse Mejerchol’d (riporto qui sotto un’interpretazione di Moni Ovadia da una lettera del grande drammaturgo russo) di cos’ controrivoluzionario per Stalin da subire un simile trattamento. Ed è solo uno dei tantissimi casi. Non sono certo io a non considerare il tributo di sangue del popolo sovietico nella Sacra Guerra contro il nazismo, e nemmeno la trasformazione di un paese agricolo in una superpotenza (ma cosa c’entra l’economia con le purghe anche verso bravi comunisti?) Ma se continuiamo così, senza fare i conti con la storia del movimento comunista e continuiamo a vivere nostalgicamente di miti artificiali e astratti perché non analizzano un bel nulla, continueremo a valere lo zero-virgola-zero-uno e quelle masse popolari verso le quali dovremmo essere credibili verranno abbindolate dal primo Berlusconi o Renzi di turno. La credibilità e l’autorevolezza si conquistano anche nel saper fare autocritica quando necessaria, valorizzando ciò che di buono è stato fatto nel passato e riconoscendo le degenerazioni che ci sono state. Non ho ancora conosciuto comunisti, quindi miei compagni, con la capacità e l’intelligenza politica di farlo. Solo fuffa autoconsolatoria e celebrativa. Continuiamo pure a farci del male.
https://www.youtube.com/watch?v=a3wYK0vy9pI
[…] la sua recensione del libro Il popolo è immortale (uscito a puntate su Stella Rossa nel 1942) di Vasilij Grossman, […]
Mi pare difficile negare che lo stalinismo sia stato una sciagura e una sconfitta per la storia movimento operaio internazionale. Non rendersene conto e pensare che un simile giudizio sia una mistificazione mostra solo la nostra persistente inadeguatezza ad affrontare le cose dell’oggi. Quando non si ha un programma credibile, un senso dell’avvenire, una capacità di leggere la drammatica situazione del presente in cui ci troviamo, si finisce per recriminare sul passato e per mitizzarlo solo per consolarsi e non pensare… Questo idealismo reazionario di contrapporre a priori, in base a vecchi schemi inerti e adialettici, “veri” e “falsi” comunisti è un atteggiamento da nostalgici rivolti verso il tramonto. La questione resta come si prende la decisione politica al di fuori della logica borghese della “rappresentanza”. Il culto del capo non può essere la soluzione. Forse il capitalismo di stato dell’URSS sarà stato meglio del devastante neoliberismo di oggi, ma questo assunto ingenuo non cancella la questione (il compito) del rapporto inventivo tra prassi e teoria, tra azione concreta e progetto di una trasformazione sociale radicale che non sia manipolabile né a rischio di opportunismi e involuzioni autoritarie. E visto il vuoto di pensiero e l’incapacità di autocritica, ben venga la letteratura a preparare un’epoca diversa e migliore di questa.
Da una nota del “Diario” del 7 aprile 1934 circa una conversazione tra Stalin e Giorgio Dimitrov, il quale di lì a poco sarebbe diventato presidente del Comintern [cfr. “Diario – Gli anni di Mosca (1934-1945)”, Einaudi, Torino 2002, pp. 12-13] traggo considerazioni e riflessioni che, riferendosi alle invarianti del sistema imperialistico, presentano, ‘mutatis mutandis’, un’evidente attualità e hanno, per gli opportunisti dell’antistalinismo pregiudiziale (ammesso che le vogliano e le sappiano decodificare, giacché il loro codice è antistalinista e la loro interpretazione è opportunista), “sapor di forte agrume”. “D[imitrov]: Io ho riflettuto molto in carcere sul perché, visto che la nostra dottrina è giusta, nel momento decisivo milioni di operai non ci seguono e restano con la socialdemocrazia, la cui condotta si è macchiata di tradimento, o perfino – come in Germania – vanno con i nazionalsocialisti. S[talin]: e le Vostre conclusioni? D: Penso che la causa principale stia nel nostro sistema di propaganda, nell’approccio sbagliato verso gli operai europei. S: No, questa non è la causa principale. La causa principale sta nello sviluppo storico: i legami storici delle masse europee con la democrazia borghese. Inoltre, nella particolare posizione dell’Europa: i paesi europei non hanno a sufficienza proprie materie prime, carbone, lana ecc. Essi contano sulle colonie. Senza colonie non possono esistere. Gli operai lo sanno e temono la perdita delle colonie. E in questo senso sono inclini a marciare con la propria borghesia. Nel loro intimo non sono d’accordo con la nostra politica antimperialista. Hanno perfino paura della nostra politica. E perciò sono necessari un paziente lavoro di chiarimento e un approccio giusto nei confronti di questi operai. E’ necessaria una lotta continua per ogni singolo operaio. Noi non possiamo conquistare subito e molto facilmente milioni di operai in Europa. Le masse di milioni hanno una psicologia da gregge. Esse operano soltanto attraverso i propri eletti, i propri capi. Quando perdono la fiducia nei propri capi si sentono impotenti e perdute. Esse temono la perdita dei propri capi. E per questo motivo gli operai socialdemocratici seguono i propri capi, anche se non sono soddisfatti di loro. Essi abbandoneranno questi capi quando ne compariranno altri, migliori. Ma per questo c’è bisogno di tempo […] La gente non bada ai particolari, mentre in genere i particolari sono decisivi. Non fa analisi marxiste […] La gente non ama l’analisi marxista. Grandi frasi e generiche constatazioni. Questa è ancora l’eredità dei tempi di Zinov’ev. Ah, sotto questo profilo Il’ic era molto accurato, eccome accurato!”.
Mi fa piacere che la mia recensione del libro di Grossman susciti un dibattito così partecipato. Rimango dell’idea, qualsiasi distinguo si volgia fare) che lo stalinismo è il peggior servizio fatto alla giusta causa del comunismo. Mi riservo di ritornare sull’argomento. Per il momento mi limito a segnalare per chi fosse interessato che l’argomentazione sottesta a questa affermazione (compresa la questione di Dimitrov e dei fronti popolari) è contenuta nel capitolo 10 (“Democrazia e rivoluzione”) nel saggio recentemente uscito presso Castelvecchi “Il Sessantotto e noi”, scritto a quattro mani con Romano Luperini
Caro Corlito, non è la tua recensione, straccamemte sospesa tra filisteismo e liquidazionismo, tutta interna ai moduli della sinistra ‘baizuo’ (ovvero “sinistra bianca”, per dirla con i compagni cinesi), che ha suscitato “un dibattito così partecipato”, ma il tema, ossia il Sessantotto: un lampo che ha attraversato, sommuovendolo dal suo torpore accademico e dalle sue pretese pedagogiche, il quieto ambiente editoriale di questo sito. Perciò, risparmiaci, ti prego, l’ennesima segnalazione del tuo pamphlet.
Un tema come quello dell’esperienza di “costruzione del socialismo in Urss” o dell’”esperimento profano” (Di Leo) ripreso oggi (2024!) su un blog di Letteratura?
Non so se gioirne, vedendo che scatena ancora passioni immutate (non prive di una certa stanchezza?) tra chi è intervenuto o rattristarmene un po’, visto che è soltanto tra vecchi che ne parliamo e in un momento cupo della storia mondiale. E tuttavia non resisto a segnalare che quell’esperienza rimossa o seppellita (con tutte le sue “ramificazioni” all’indietro – fino a Marx – o in avanti – fino al ’68-’69 e anni Settanta) da decenni ho provato io pure a rimuginarla da isolato e – quando e dove ho potuto – a parlarne con gli interlocutori che mi capitava di incontrare su questo o quel sito Web. E fra questi ho avuto l’onore e l’onere di tentare di dialogare su Le parole e le cose (vecchia gestione) anche con Eros Barone, che qui ritrovo agguerrito sulle sue posizioni.
Non entro direttamente nel merito – almeno per ora – sulle cose dette nei commenti che precedono il mio, ma mi permetto di allargare e complicare il tema qui proposto, risalendo alla questione ancora più rimossa e seppellita di Marx e della “crisi del marxismo”, che pure assillò i tempi ormai lontani delle nostre militanze politiche. Lo faccio rimandando chi fosse interessato alla lettura di un commento mio (6 luglio 2013 ore 23:29) e alla replica di Eros Barone (7 luglio 12:29) che si leggono sotto l’articolo “Resistere non serve a niente” di Gianluigi Simonetti (5 luglio 2013) su Le parole e le cose (https://www.leparoleelecose.it/?p=11253) .