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diretto da Romano Luperini

Il convegno di LN: i laboratori/3. Leggere la poesia d’amore medievale nella secondaria di primo e di secondo grado 

Con l’ultimo laboratorio, concludiamo la pubblicazione di tutte le relazioni e delle restituzioni dei laboratori presentate e discusse durante il primo convegno di LN, che si è svolto a Palermo il 3 e 4 ottobre 2024. In coda all’articolo è disponibile anche il testo pdf in dowload e il video dell’intervento.

Premessa

Tra i buoni e auspicabili propositi di miglioramento reale delle pratiche didattiche, specie per chi a scuola ci lavora, è ricorrente la richiesta di riflessioni serie sulla verticalità dei curricoli, anche e soprattutto tra i diversi gradi di istruzione. Da questo punto di vista, coerentemente con lo spirito di questo convegno, siamo convinti che per noi docenti di lettere il terreno elettivo dove rintracciare e poi costruire tale continuità di intenti, pur nella differenza dei contesti, sia proprio la pratica sul testo, che anche in questo caso, oltre all’ irrinunciabile portato conoscitivo e di liberazione, si pone come come fonte sorgiva di didassi. La proposta del laboratorio è dunque quella di riflettere su un tema tanto complesso quanto archetipico, ovvero la poesia d’amore nel mondo medievale, sulla base di un’idea di storicizzazione del testo che resti fedele alla pratica fondata del commento come condizione necessaria per la possibilità successiva dell’interpretazione. Per fare questo si prenderanno in esame tre possibili tagli didattici, il primo inerente una riflessione di tipo linguistica sui testi, approccio a nostro parere particolarmente fertile per la secondaria di primo grado, in virtù anche del valore propedeutico a quanto sarà richiesto nel grado successivo di istruzione; un secondo taglio di tipo tematico, e quindi spendibile in particolare nel primo biennio della secondaria di secondo grado, dove nel secondo anno in genere si affronta la forma poetica; infine un terzo taglio di tipo più storico, utile per l’avvio del triennio della secondaria di secondo grado dove, nel terzo anno, proprio a partire dalla poesia amorosa, si muovono i primi passi nello studio canonico della storia della letteratura italiana.

  1. Nella secondaria di primo grado (Katia Trombetta)

Un approccio linguistico-testuale: perché?

Dovendo delimitare il campo di applicazione di un approccio linguistico-testuale, principalmente per la secondaria di primo grado, intendiamo riferirci ad alcuni aspetti essenziali: specificità della lingua letteraria rispetto alla lingua comune; confronto con la lingua del passato; conoscenze lessicali per la comprensione dei testi; parafrasi; tratti fondativi del discorso poetico-lirico; conoscenza minima della forma metrica del sonetto. Quanto alle ragioni a sostegno di questa preferenza linguistica, la prima è di ordine teorico, e trae origine dall’impostazione didattica di Romano Luperini, che vede precedere “ontologicamente” il momento del commento su quello dell’interpretazione, in una prospettiva di verticalità-propedeuticità. La seconda è di ordine didattico: la datità materiale del testo àncora la didattica alla concretezza dell’esperienza di lettura e delle attività laboratoriali e la ricostruzione della sua lettera, in discenti che praticano con difficoltà il ragionamento astratto, rappresenta una solida base per riflettere sul testo e interpretarlo. La terza ragione è di ordine storico-letterario ed è riferita alla selezione dei testi proposta in questo percorso, incentrati sulla descrizione degli effetti dell’amore sul poeta. La nuova lirica che si afferma in primo luogo presso la Scuola poetica siciliana e che segnatamente si definisce con Giacomo da Lentini, la nuova poesia del soggetto lirico, infatti, è strettamente connessa proprio alla creazione di un nuovo genere, quello del sonetto, le cui caratteristiche linguistiche, metriche e retoriche sono il corrispettivo formale delle innovazioni che i siciliani, e Giacomo in particolare, introducono sul piano del contenuto rispetto alla poesia trobadorica (Antonelli 2008). In questa prospettiva si può provare a dare una prima definizione del genere lirico proprio sul piano discorsivo, partendo dalla sua dimensione enunciativa, e di qui prospettare una prima attività di introduzione al genere.

La dimensione enunciativa della lirica

Nonostante sia tra i generi letterari più distanti dalla comunicazione quotidiana, la situazione discorsiva della lirica riproduce — ovviamente su un piano finzionale, con regole sue — uno scambio dialogico faccia a faccia, per cui un “io” si rivolge a un “tu”, ed essi dialogano in un qui-ora, anche se il tu (voi) non risponderà mai e anche se può non essere un interlocutore umano (Bruni 2022). La dialogicità primaria lascia tracce vistose nel testo sulle quali si può lavorare attivamente ricercando i riferimenti linguistici all’io che prende la parola; l’uso degli allocutivi (tu/ voi); l’uso di tempi verbali commentativi (presente, passato prossimo, futuro) a discapito dei tempi narrativi. Si può quindi proporre, come punto di avvio di un percorso, un’attività induttiva su una rosa di testi corredati di parafrasi, chiedendo ai ragazzi di ipotizzare per ogni poesia chi parla, a chi è rivolto il componimento e di cosa tratta. Le ipotesi possono essere confrontate e poi sottoposte alla “prova” del testo/ dei testi, attraverso attività più mirate. La rosa qui proposta include i quattro testi di lirica medievale affrontati in questo percorso, più una serie di altri testi emblematici che gli alunni ritroveranno nei loro successivi studi, testi di poetesse, testi non solo d’amore (vedi allegato). Ciò consente di osservare sin da subito non solo la salda persistenza del genere oltre l’epoca della sua invenzione e successiva fondazione, ma anche altri aspetti specifici (interlocutori, temi ecc). Quanto ai testi del Duecento sono stati scelti in ideale continuità tra loro. Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo è uno dei sonetti di Guido Guinizzelli che maggiormente risente degli influssi di Giacomo da Lentini; a sua volta Tu m’hai sì piena di dolor la mente di Guido Cavalcanti riprende e drammatizza in modo originale il tema della «statua d’ottono» di Guinizzelli; il sonetto di Dante, Spesse fiate vegnonmi a la mente risente notevolmente degli echi cavalcantiani. Il sonetto di Giacomo, Chi non avesse mai veduto foco, è stato scelto per l’efficacia dell’immagine e per la persistenza di questa immagine nella tradizione. La scelta di questi testi risponde anche all’esigenza di sottrarre la lettura della lirica del Duecento alla sclerotizzazione delle selezioni antologiche, per cui sono stati privilegiati sonetti difficilmente antologizzati. Dopo aver fornito un paio di letture ad alta voce del testo (riferisco gli esempi al solo sonetto di Giacomo, ma gli interventi sono chiaramente replicabili), letture rispettose delle pause metriche ma non particolarmente espressive (una lettura espressiva ad alta voce infatti è più indicata per un momento interpretativo), se il senso complessivo del componimento risulta compreso dalla classe, fornendo la spiegazione del lessico meno accessibile, si potrà già entrare nel testo in modo più sistematico, con un’attività più articolata per la ricerca delle parole riferite a chi parla (la serie dei pronomi complemento atoni e tonici, gli aggettivi possessivi, le voci verbali di prima persona); di quelle che consentono di capire chi è l’interlocutore del poeta («Deo», «voi», «donna mia», voci verbali di seconda e quinta persona); del lessico fondamentale per comprendere l’argomento del testo («foco», «solazzo, «gioco», «isprendore», «Amore», «pen’e tormento»; «cocesse», «vedesse», «tocasse», «aprendesse»).

L’invenzione del sonetto, la lingua dei siciliani e la toscanizzazione

Al termine di questa prima fase di lavoro, se la forma sonetto non è conosciuta, si potranno proporre attività induttive di scoperta delle regolarità della struttura metrica, a partire dalla rima. Quindi ci si potrà soffermare sommariamente sulla possibile origine del sonetto, accennando in un’ottica complementare anche all’importanza del genere della canzone e mostrando a titolo di esempio quella di Stefano Protonotaro, Pir meu cori alligrari. Di là dagli aspetti tematici (disparità di trattamento da parte di Amore, necessità di «cantari» da parte del poeta innamorato), la lettura della prima stanza della canzone di Stefano consente di riflettere sulla toscanizzazione dei testi siciliani. Come è noto, la canzone di Stefano Protonotaro è trasmessa in veste siciliana da una tradizione seriore e atipica. L’erudito cinquecentesco, Giovanni Maria Barbieri, copiò i testi da un perduto antigrafo (di un copista probabilmente non siciliano) e le sue carte restarono inedite fino al Settecento. Tuttavia, «nella ricostruzione di un ipotetico “siciliano originario” insorgono varie e gravi difficoltà» per ragioni sia storico-culturali sia strettamente linguistiche (Serianni 2014). Al netto comunque della consapevolezza dell’assoluta artificialità della lingua poetica in quanto tale (Serianni 2014), il tema della toscanizzazione assume prospettive e profondità diverse a seconda dei discenti. In una seconda media si potranno proporre dei giochi linguistici per sperimentare i diversi esiti di parole altamente simboliche (AMŌRE(M) > amore; AMŌRE(M) > amuri). Nei gradi superiori, si potranno introdurre elementi più consapevoli di grammatica storica (nei licei ad esempio), far notare persistenze nella tradizione (condizionale sicialiano, rima siciliana, poetismi di lunga durata come «foco») e soprattutto si potrà riflettere sulla toscanizzazione quale fondamentale momento di riappropriazione culturale, anche in rapporto a uno dei codici principali che trasmette la lirica delle origini, il Canzoniere Vaticano latino 3793, facendo riferimento ai principi ordinatori che ispirarono il copista secondo un chiaro intento storiografico. 

Commentare: campi semantici e parco figurale

Partendo dalle parole chiave già in parte individuate nella prima attività sul testo di Giacomo da Lentini, il momento del commento si aprirà con una parafrasi precisa e questa volta si chiederà ai ragazzi di individuare tutti gli elementi riferiti al fuoco e all’amore (e alle altre immagini emerse nei testi affrontati successivamente). L’individuazione dei campi semantici consente di definire con precisione l’immagine che il poeta utilizza per descrivere la fenomenologia dell’amore e come egli ne fornisca una modellizzazione, anche in rapporto alla cultura filosofica del tempo. Il motivo del paragone con elementi naturali sarà ampiamente ripreso da Guinizzelli e se ne trova traccia anche in Dante, come si osserva dai testi selezionati. Nella parte successiva del percorso, si potrà analizzare anche il parco figurale impiegato da Guinizzelli, Cavalcanti e Dante, evidenziando la persistenza del paragone con gli elementi naturali (anche se in modo sensibilmente diverso) e la presenza in tutti i componimenti della personificazione di Amore, oltre ai riferimenti intertestuali già segnalati nella illustrazione dei criteri di selezione dei testi, definendo poi i comportamenti specifici di Amore nei confronti del poeta.

Interpretazione e riappropriazione

Per le attività di interpretazione si possono utilizzare diverse tecniche. Si può proporre in prima battuta un’attività chiusa, in certa misura guidata, da svolgere insieme all’insegnante, che riferendosi a specifiche porzioni di testo chiederà di formulare delle possibili interpretazioni (quali sono i sentimenti del poeta in questo passaggio? come si comporta la donna e perché?). L’attività aperta può essere realizzata autonomamente, ma anche dopo quella chiusa, utilizzando gli spunti ricavati per strutturare un testo più articolato, che contenga un nucleo argomentativo in senso lato (Mettiti nei panni del poeta e rifletti…). L’attività aperta può essere realizzata anche dopo la transcodificazione (passaggio dal codice linguistico a quello iconico) per le stesse ragioni. Si potrà anche chiedere agli alunni di motivare in forma orale le proprie scelte di rappresentazione grafica. Qui alcuni esempi di transcodificazione del sonetto di Cavalcanti Tu m’hai sì piena di dolor la mente, realizzati da alunni di classi seconde della secondaria di primo grado.

Infine, nel momento fondamentale della riappropriazione, si può proporre un’attività di imitazione del modello, preceduta da una riflessione sulla propria fenomenologia amorosa, che si concluda con l’individuazione di un’immagine tratta dal mondo naturale che rappresenti, in negativo o in positivo, le proprie emozioni. Di qui si può proporre la scrittura di una prosa lirica in cui gli alunni descrivono il fenomeno naturale individuato nella loro comparazione, lo confrontano con i propri sentimenti, rivolgendosi alla persona di cui sono innamorati o a un altro interlocutore e rispettando una serie di vincoli linguistici dati.

  1. Nella secondaria di secondo grado/1 (Daniele Lo Vetere)

Il percorso didattico di tipo tematico che vi presento stamattina nasce dalla consapevolezza che è difficile riuscire a rendere significativo un argomento come questo, nonostante il tema amoroso possa all’apparenza sembrare di facile presa. Si tratta del primo argomento ad essere affrontato in una prospettiva di studio storico della letteratura, quando gli studenti vi sono ancora scarsamente abituati. La rappresentazione dell’amore in questa poesia è poi molto lontana dai nostri codici culturali. È alto il rischio di offrire agli studenti una serie di testi che essi potranno anche capire esteriormente e studiare per affrontare un’interrogazione, senza però comprenderne il significato storico e il motivo per il quale valga ancora la pena leggerli oggi. D’altra parte bisogna evitare anche il rischio di eccessiva banalizzazione, “rivestendo” quello studio esteriore di cui parlavo di attualizzazioni stiracchiate e affrettate, considerazioni come “visto quanto si amavano anche nel Medioevo”. Si tratta insomma di avvicinare quei testi a noi, perché non ci restino estranei, senza però assimilarli a noi.

La rappresentazione dell’amore nella poesia medievale è, ai nostri occhi, estremamente tipizzata e intellettualistica – caratteri che comunque bisogna assumere nello studio di quei testi, perché l’alterità di codici diversi dai nostri non può essere elusa o messa da parte. Tuttavia, come ha scritto uno specialista delle origini come Marco Santagata (Il poeta innamorato. Su Dante, Petrarca e la poesia amorosa medievale, Guanda 2017), quella poesia non può essere letta soltanto attraverso le lenti del suo allegorismo né della sua forte intertestualità: anch’essa esprime, in qualche modo, la vita di uomini e donne di quel tempo. Si tratta, quindi, di andare preliminarmente alla ricerca di qualche traccia di quella vita, del significato che quel modo di rappresentare l’esperienza amorosa aveva per quella che resta comunque la nostra stessa condizione umana, benché storicamente difforme dalla nostra.

Quanto illustrerò viene fatto in classe prima di leggere i testi poetici medievali: chiamiamolo pure un modulo propedeutico. Il suo scopo è la creazione di un piccolo affresco storico-sociale dei rapporti di coppia e delle modalità di fare esperienza dell’amore nei secoli del Basso Medioevo. Mi concentro, insomma, sull’extratesto, alla ricerca di una concretezza umana, dei problemi morali e sociali dell’epoca. È un’operazione di contestualizzazione storica, evidentemente, ma di tipo diverso da quelle consuete. La ricostruzione del quadro storico ha di solito un carattere molto più generale, e generico: in questo caso si stabilisce una relazione molto più serrata e cogente con il tema che si ritroverà poi nelle poesie di Giacomo da Lentini, Guinizelli, Cavalcanti, …

Quando, dopo questo modulo propedeutico, affronto tali poeti, ne leggo i testi canonicamente antologizzati nei manuali. Fa eccezione la poesia di una trobairitz, Comtessa de Dia (Estat ai en greu cossirier [Ho dimorato in grave sofferenza]), utile a colmare una lacuna dei nostri manuali – c’erano anche delle poetesse al tempo – e a mostrare come il codice lirico amoroso venisse applicato da una donna all’amore per un uomo, amore peraltro assolutamente carnale (Ben volria mon cavallier / tener un ser e mos bratz nut, vv. 9-10 [Bene tener vorrei il mio cavaliere / nudo, per una notte, tra le braccia]).

Se lo scopo è, come detto, avvicinare senza assimilare, nella prima fase del lavoro cerco di fornire un aggancio alla comprensione di quella rappresentazione dell’amore così spiritualizzata e astratta, trovandolo in un’epoca “a metà strada” tra noi e l’alterità del Basso Medioevo – con tutta l’approssimazione scientifica che ciò implica e che, spero, sarà perdonata dagli specialisti in virtù della sua utilità didattica. L’epoca in questione è quella romantica, che interpreta l’amore in termini idealizzanti e spiritualistici come il Due-Trecento, ma anche più strettamente psicologici, dunque più vicini alla nostra sensibilità.

Esemplare della concezione romantica è il trattato Dell’amore di Stendhal, non a caso lettore dei provenzali e del trattato di Andrea Cappellano, De amore, di cui cita in modo trasparente il titolo. In classe leggiamo insieme alcuni brani tratti da quest’opera, prendendoci il tempo necessario per una comprensione letterale e per estrapolarne alcuni elementi. Oggi vi sottopongo solo un brano, quello nel quale Stendhal descrive il fenomeno dell’idealizzazione dell’amata e che egli chiama, metaforicamente, «cristallizzazione». Stendhal narra infatti un curioso fenomeno fisico che avviene nelle miniere di Salisburgo: vi si gettano dei rametti secchi che, trascorso qualche tempo, vengono recuperati interamente ricoperti di cristalli di sale. Scrive l’autore: «Quello ch’io chiamo cristallizzazione, è l’opera della mente, che da qualunque occasione trae la scoperta di nuove perfezioni dell’oggetto amato». La metafora della cristallizzazione rende visibile, alla lettera, il processo psicologico dell’idealizzazione amorosa, in termini comprensibili intuitivamente da parte di qualsiasi adolescente. Dunque l’idealizzazione dell’amato/a è, potremmo dire, una specie di universale antropologico. Perché però i medievali lo interpretavano in termini tanto intellettualistici, spiritualizzanti, allegorici? Perché lo esprimevano ricorrendo a una serie di topoi che a noi sembrano pura letteratura, ripetizione uniforme?

Nella seconda fase, entriamo perciò, a pieno titolo, nel Medioevo. Ho già ricordato il libro di Santagata Il poeta innamorato. In quel libro il critico difende il diritto del lettore comune, quale è un nostro studente, di avere curiosità ben concrete e di farsi domande che probabilmente lo specialista riterrà sciocche: è plausibile che Dante abbia incontrato Beatrice a 9 anni? erano donne in carne e ossa quelle cantate dai poeti? Se sì, visto che erano sposate, perché i mariti tolleravano che si indirizzassero loro delle poesie d’amore? (A questo proposito Santagata ricorda che nella Vita nuova un fratello di Bice Portinari, dopo la sua morte, chiede a Dante di scrivere una poesia per ricordarla: se questo elemento ha un fondamento storico, e potrebbe averlo, è la dimostrazione del fatto che quella pratica poetica e vicariamente erotica era in qualche modo diffusa e tollerata). Siamo dunque di fronte non a “letteratura”, ma a qualcosa che ci mette direttamente in contatto con vive questioni etiche, psicologiche e sociali dell’epoca, che naturalmente la letteratura metteva in forma, rappresentava, sublimava, … Basterebbe d’altra parte osservare, sempre sulla scorta di Santagata, che Chiaro Davanzati accusa gli stilnovisti di aver avallato il peccato di adulterio, dimostrando che quella levigata pagina di molti secoli fa in realtà è più concretamente tumultuosa di quanto non sembri: non era pacificata e poteva diventare oggetto di disputa etica.

In una formula: prima di mettere davanti agli occhi degli studenti certi temi e topoi di cui essi rischiano sempre di non cogliere il quid umano, forse vale la pena provare a domandarsi a quali domande di senso gli uomini e le donne dell’epoca cercassero risposta nei testi.

Torniamo al tema dell’adulterio. Quella del Due e Trecento, nonostante l’accusa di Davanzati, non era una poesia programmaticamente adulterina, ma lo diventava di fatto se solo si considera quale fosse la condizione delle ragazze prima del matrimonio (la loro promessa di matrimonio avveniva intorno ai 12 anni): vigeva una separazione tra i giovani dei due sessi molto rigida, le donne giovani e giovanissime erano quasi recluse in casa e se si avventuravano fuori di essa erano sempre accompagnate, per non dire tenute sotto custodia. In questo contesto è perfettamente naturale che le più libere di accedere almeno in parte allo spazio pubblico e di ritrovarsi destinatarie di versi amorosi, fossero le donne già sposate.

Il regime di separazione dei giovani maschi e femmine aiuta a fornire maggior concretezza anche al più classico dei temi della poesia amorosa medievale, quello degli occhi quale veicolo d’amore e del saluto. La disciplina femminile del guardare e del salutare per strada era minuziosa e ad essa erano dedicati trattati morali e versi didascalici (mi sto tenendo sempre ai preziosi suggerimenti di Santagata): la donna non doveva incontrare lo sguardo altrui, tenerlo basso, addirittura camminare a passi corti (peccaminosità dell’andatura slanciata?), andare dritta verso dove era diretta. Si capisce quindi come lo scambiarsi uno sguardo potesse essere carico di intenzioni erotiche, come ogni gesto proibito. Figurarsi addirittura salutare qualcuno! Dunque il bel saluto e ‘l gentil sguardo della notissima poesia, altro che essere piatti topoi: sono addirittura gesti di trasgressione di precisi codici sociali.

Dopo Stendhal (Santagata serve all’insegnante per avere un orientamento e non viene letto in classe) l’altro testo da cui estrapolo qualche pagina è il De amore di Andrea Cappellano. Con esso entriamo propriamente nella codificazione amorosa medievale ma con una concretezza sociale e storica che le poesie non permettono sempre di cogliere.

L’amore, scrive Cappellano, è un fenomeno legato alla visione dell’oggetto amato e al suo pensiero costante. Abbiamo qui già un tema di Giacomo da Lentini (Amor è un desio che ven da core), ovvero la dimensione interiore della “rielaborazione” (cristallizzazione…) della visione della donna.

L’amore è esclusivo, quando si ama una persona non se ne ama nessun’altra. Questa concezione dell’amore non è un assoluto antropologico: certa poesia erotica mediorientale e, in Occidente, almeno Ovidio, parlano anzi di un pluralità degli oggetti d’amore (oggi forse parleremmo di “poliamore”). L’ossessione verso l’Uno, che è anche un aspetto qualificante della metafisica occidentale, è però fortissima nella poesia medievale (si ricorderanno le tesi, pur discusse, di Denis de Rougemont ne L’amore e l’Occidente). Ma, assai più prosaicamente, Cappellano scrive che tutti gli altri e le altre ci sembrano brutti, se confrontati a colui/colei che amiamo: anche in questo caso, abbiamo qui un possibile aggancio psicologico e “concreto” per comprendere l’unicità della donna cantata da provenzali e stilnovisti.

Ancora, quando parla delle cause dell’amore, tra le quali enumera la bellezza del corpo e la gentilezza (nobiltà) dell’animo, Cappellano precisa che la seconda è superiore alla prima, perché l’amore soltanto fisico non è vero amore. Ma la cosa interessante ai nostri fini è il modo in cui egli descrive la bellezza. Il trattatista invita infatti a non perdersi dietro a persone frivole, che pensano solo a imbellettarsi: se a farlo è un uomo, risulterà effeminato; se è una donna, lo fa forse perché brutta (meglio guardarla in occasione non festiva, “struccata”, suggerisce…), sia perché l’imbellettarsi è sicuro indizio di non onesti costumi. Questa corposa vividezza psicologica e sociale, che spesso scatena discussioni in classe, è un buon viatico per accedere a una meno superficiale comprensione del tema del cor gentile, in cui naturalmente queste quotidiane e un po’ triviali questioni sono trascese, stilizzate, tradotte in tema lirico e filosofico: ma l’elevazione verso queste più rarefatte atmosfere avrà avuto un solido terreno da cui spiccare il volo.

Cappellano scrive poi che l’amore è più forte e dura di più quando incontra qualche ostacolo, ma ostacoli ben materiali: genitori che si oppongono al legame, cambio di residenza dell’amato, litigi, la necessità di tenere segreto l’amore per evitare i maldicenti (è naturalmente il tema provenzale dei lauzengiers). Ed ecco qui la ricostituzione del retroterra storico non solo del tema lirico della segretezza dell’amore, ma anche del tema dell’amor de lonh di Jaufré Rudel, che “ama una donna e non sa chi sia”. D’altra parte, prima almeno dell’invenzione del telefono, non era troppo difficile nemmeno per noi contemporanei capire un amor di lontano come quello cantato, ad esempio, in ‘O surdato ‘nnamurato: oggi, forse, quest’idea piuttosto ascetica di un amore tanto più forte quanto più reso impossibile dalla distanza ci risulta bizzarra. (E sempre che la virtualità dell’online non ci reimmerga un’altra volta nella stessa condizione).

Un ultimo tema, per concludere. C’è una pagina in cui Cappellano distingue i modi in cui un uomo nobile debba rivolgersi a una donna del suo livello sociale, a una più nobile di lui, a una plebea (che significa più “borghese” che popolana); fa poi lo stesso parlando della donna che si rivolge a uomini di diverso ceto. Parla poi, in un capitolo a parte, dell’amore dei contadini: essi sono capaci soltanto di amore fisico, come le bestie; d’altra parte è meglio che non abbiano troppi grilli per la testa, altrimenti lascerebbero la zappa e la società morirebbe di fame. Quanto alle contadine, è preferibile non averci a che fare; se tuttavia il giovane avesse proprio la fregola di volerne avvicinare una, basteranno poche parole, senza le cerimonie dovute a donne di altra condizione, dopodiché sarà lecito prenderla anche con la violenza. Una giustificazione morale senza batter ciglio dello stupro (stupro dagli spaventosi tratti di classe, aggiungerei). Immaginate l’effetto che queste pagine provocano nei nostri allievi. Sarà un salutare shock che consentirà di insistere su un aspetto della lirica medievale che rischia di sfuggire a noi contemporanei che, almeno nelle questioni d’amore, tendiamo ad essere egualitari: sotto la coltre dell’astrazione letteraria, stiamo leggendo testi prodotti in una civiltà aristocratica (Provenza e Sicilia), in seguito nella società mista aristocratico-borghese dei Comuni italiani, nei quali la pratica della letteratura serviva non a caso anche a nobilitare la propria condizione non aristocratica. Non dimenticare la genealogia materiale dell’amore delicatissimo, sublime, angelicato dei nostri poeti delle origini serve, tra l’altro, a dare una solida base storica alla distinzione tra i generi poetici: in una società dove il rivolgersi a un pari, a un superiore, a un inferiore era così strettamente codificato e dove i contadini, che rappresentavano la gran massa della popolazione, nemmeno erano considerati umani, sarà più facile comprendere la separazione degli stili e perché al genere comico-realistico fossero riservati temi, contenuti, personaggi bassi. In questo contesto, anche la bellissima e delicatissima pastorella di Cavalcanti potrebbe apparire un sublimato ingentilimento dello stupro di cui parla Cappellano.

  1. Nella secondaria di secondo grado/2 (Roberto Contu)

Una verticalità storica: tra Jacopone da Todi e Guido Cavalcanti

Come noto, nella secondaria di secondo grado, lo studio della storia della letteratura italiana viene avviato all’inizio del triennio, ma sempre più spesso anche nell’ultima parte del primo biennio, a partire dalla nascita delle letterature romanze e in particolare della poesia provenzale e del romanzo cortese, per arrivare più o meno in fretta alla poesia religiosa e al classico pronunciamento sul Cantico di Frate Sole come «primo documento letterario di autore noto della nostra letteratura».

Se la didattica del cantico è tra le esperienze più comuni per ogni insegnante (ma proprio per questo forse bisognosa di continua revisione e rinnovamento critico, a riguardo si veda questo intervento di Alberto Bertino), è altresì esperienza comune quanto l’altro grande interprete della poesia religiosa medievale, Jacopone da Todi, senza nulla togliere al Santo di Assisi, possa offrire stimoli importanti e che a nostro giudizio, in questo caso specifico, possono essere preziosi per potere risignificare anche un percorso sulla poesia d’amore medievale. 

A riguardo, una possibile via di rinnovamento didattico che fa del taglio storico letterario il proprio presupposto è l’operare un collegamento verticale da un parte tra il tema dell’«esmesuranza», derivante dalla percezione dell’assoluto di Jacopone da Todi e che al netto dello «iubelo de core» si declina poi nei due stati dell’ «ineffabilità» e dell’«alta nichiltade», e dall’altra parte tra lo stilnovismo «tragico» di Guido Cavalcanti, che si declina anch’esso nei due atteggiamenti speculari dello «struggimento amoroso» e dell’ «ineffabilità». Proviamo a spiegare perché e come.

Amore tragico: sacro e profano

Il paradosso dell’infinito che si cala nel finito è anzitutto per Jacopone da Todi fonte continua di stupore. È proprio attraverso la percezione violenta dell’evento che spariglia la storia dell’umanità che si origina una prima reazione peculiare nell’esperienza poetica di Jacopone da Todi: il canto dell’«amore esmesurato». Nei momenti di grazia in cui questa contemplazione esperienziale è permessa, è concessa, è acquistata, la poesia prorompe in quello «iubelo de core» che cancella il mondo e unisce il mistico e poeta all’amore divino («O iubelo del core, che fai cantar d’amore!»). Si tratta di una condizione privilegiata, ma che un passo dopo genera difficoltà, fino a una frattura tra il contemplante e le sue capacità d’espressione prima, con il resto del mondo poi. Ciò si declina nella percezione iacoponica del sentimento dell’ «ineffabilità», del non poter dire («Quanno iubel se scalda, sì fa l’omo cantare; / e la lengua barbaglia e non sa che parlare / drento no’l pò celare, tant’è granne el dolzore»), fino alla percezione della fatica, del vuoto, del dolore personalissimo, ovvero l’esperienza dell’ «alta nichiltade» («Alta nichiltade, tuo atto è tanto forte, / che <o>pre tutte le porte, entr’êllo ‘nfinito»). L’andamento ondivago della poetica iacoponica gioca cioè le proprie violente oscillazioni tra questi due poli, ovvero il polo dell’«esmesuranza« e quello dell’«alta nichiltade»: in maniera decisamente moderna Jacopone sembra non trovare mai l’equilibrio di un Francesco che riesce a coinvolgere nel suo canto di lode il creato, anche nella sua espressione più misteriosa che è «sorella morte». Jacopone pare a tratti quasi soccombere a questa trazione generata dai due estremi, ma è evidente come proprio tale tensione sia la fonte sorgiva della propria poesia, del proprio amore, tragico e sacro per l’appunto.

Proprio a riguardo ci pare assai persuasivo e didatticamente fertile l’accostamento con l’altro grande cantore  di un amore tragico, in questo caso di un amore tragico e profano, ovvero Guido Cavalcanti. Al cuore di quell’esperienza fondativa della nostra letteratura quale è lo stilnovismo, Guido Cavalcanti mette anche egli stesso in versi un conflitto poetico filosofico che lo porta, seppur in contesto amoroso, alla teorizzazione speculare a quella di Jacopone della bonaccia del non potere dire. Il Dolce stil novo, la scuola poetica che eleva al massimo grado il valore conoscitivo gnoseologico e spirituale dell’incontro con l’amore per una donna, prospettava tale esperienza come un vero e proprio itinerarium mentis in deum. Cavalcanti non accede a questo sbocco naturale e divino della propria esperienza d’amante. Di qui il suo poetare tormentato e fortemente moderno, di qui il suo approdo al non poter dire, ma unicamente (ed ineffabilmente) al sospirare, al proclama di un amore caduco, terreno e legato alla transitorietà, che constata lo stallo al cospetto della bellezza: «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, / che fa tremar di chiaritate l’ âre / e mena seco Amor, sì che parlare / null’omo pote, ma ciascun sospira?». 

Come Jacopone da Todi, dunque, a fronte di un amore “esmesurante”, anche Guido Cavalcanti oscilla tra i due poli dell’«ineffabilità» («parlare / null’omo pote, ma ciascun sospira?») e la percezione del profondo nulla, dell’annichilimento, dell’«alta nichiltade» che può divenire l’esperienza d’amore («guardate a l’angosciosa vita mia, / chè sospirando la distrugge amore»): un amore tragico e profano

Alle prese con l’amore, con il soffrire, con il non potere dire

Quale contributo potrebbe portare in classe questo accostamento tra questi due gradi del nostro Medioevo? Quali implicazioni didattiche potrebbe innescare questo parallelo alla luce di una reazione speculare dell’esperienza amorosa, per quanto declinata verso destinatari diversi? Di certo almeno due temi fortemente archetipici risonanti nel passato, che il docente è chiamato a fondare ma anche e certamente risonanti nel presente che siamo chiamati ad abitare. Siamo convinti infatti che il tema dell’amore come esperienza dirompente da un lato, e quello del «non potere dire» certi vissuti, certe emozioni, certi sentimenti dall’altra, oltre che una tensione come visto presente in due delle voci più importante delle nostre origini letterarie, sia anche e soprattutto la base fertile per un lavoro di riappropriazione interpretante da parte della classe e sulla quale vi invitiamo ora a confrontarvi ora nel vostro lavoro di gruppo, anche alla luce delle seguenti domande/stimolo.

  1. Spunti guida per il laboratorio

1) Quali aspetti degli spunti ricevuti vi sembrano più immediatamente spendibili sul piano didattico? Quali aspetti vi sembrano più produttivi?

2) Quali aspetti, a vostro avviso, richiedono una formazione specifica sul piano linguistico e/ o storico-letterario?

3) Come affrontate voi in classe il tema della lirica d’amore? Lo considerate un tema da approfondire o da svolgere rapidamente? Quali sono i principali obiettivi didattici che vi ponete nella trattazione di questo tema?

4a) Quando affrontate questo argomento alla secondaria di primo grado, quali conoscenze ritenete imprescindibile che gli alunni possiedano alla fine del percorso, in prospettiva dello studio che affronteranno alla secondaria di secondo grado?

4b) E di contro, quando affrontate questo tema alla secondaria di secondo grado, cosa presupponete che gli studenti debbano già sapere?

5) Sul piano educativo e valoriale, quali sono le ulteriori implicazioni che può avere un percorso sulla lirica d’amore in riferimento ai vostri contesti di insegnamento? E quali in rapporto ad altri temi o ad altre fasi della storia letteraria?

6) Sulla base di quanto ascoltato e a partire dal vostro confronto interno, sapreste individuare un motivo particolarmente significativo, a partire dal quale esemplificare un possibile percorso in continuità tra secondaria di primo e di secondo grado? con quali testi?

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