Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

El Greco View of Toledo

Perché leggere Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi

 Pregnante, labirintico, inesorabile capolavoro

Usciti dalla trattoria i cuochi e i camerieri, Domenico Rosi, il padrone, rimase a contare in fretta, al lume di una candela che sgocciolava fitto, il denaro della giornata. Gli si strinsero le dita toccando due biglietti da cinquanta lire (…). Se la candela non si fosse consumata troppo, avrebbe contato anche l’altro denaro nel cassetto della moglie; ma chiuse la porta, dandoci poi una ginocchiata forte per essere sicuro che aveva girato bene la chiave. (…) Ormai erano trent’anni di questa vita; ma ricordava sempre i primi guadagni, e gli piaceva alla fine d’ogni giorno sentire in fondo all’anima la carezza del passato: era come un bell’incasso. La sua trattoria! Qualche volta, parlandone, batteva su le pareti le mani aperte; per soddisfazione e per vanto.

Di quest’uomo, restato contadino, benché avesse presto mutato mestiere, è figlio Pietro Rosi. Studente svogliato, rimandato, predestinato alla trattoria di famiglia e recalcitrante verso questo destino, il ragazzo (tredicenne quando si apre il racconto) ha con il padre un rapporto raggelante:

Pietro, gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico un senso d’avversione: ora lo considerava, magro e pallido, inutile agli interessi; come un idiota qualunque! (…) Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono come di una colpa. Ma questa docilità, che sfuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico. E gli veniva voglia di canzonarlo.
Quei libri! Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non poteva trattenersi e glieli sbatteva in faccia. (…) Pietro stava zitto e dimesso; ma non gli obbediva. Si tratteneva meno che gli fosse possibile in casa (…). Aveva trovato modo di resistere, subendo tutto senza mai fiatare.

Sua madre è Anna, una bastarda senza dote, piuttosto bella, remissiva e fanatica, plurimamente tradita dal marito; soffre di convulsioni che nel tempo si fanno più frequenti e più forti (fino a condurla prematuramente alla morte) e, sebbene sia lei che, per non tenere Pietro proprio in ozio, lo mette alle belle arti, nemmeno questo legame procura al ragazzo qualche conforto: anche quando l’ha vicino, restano come due che abbiano l’impossibilità d’intendersi; e Pietro, d’altra parte, evita sempre di farle sentire che le vuole bene. L’adolescenza di Pietro si consuma quindi in questo deserto di affetti e di relazioni, con l’unica aspirazione di star lontano dalla trattoria del Pesce azzurro e dai suoi grotteschi avventori, andando a scuola o al podere di Poggio a’ Meli: benché piccolo, il podere è bello, ci si trova una dolcezza che invita a starci e la madre malata vi trascorre lunghi periodi. E’ lì che avviene il primo incontro con Ghìsola (la nipote di due vecchi e fedeli contadini assalariati), accanto alla quale Pietro con gratitudine sperimenta le sue prime emozioni delicate. Il ragazzo coglie confusamente in lei quello che la voce narrante subito rileva sotto l’apparenza scialba:

… il volto di Ghìsola era tranquillamente insignificante e sciatto. Sembrava, con la sottana rimendata male, troppo semplice e quasi stupida.
Vi sono esseri che non chiedono nulla a nessuno e rinunziano a tutto (…). Se qualcuno li ama, non vogliono cambiarsi; chiedendo che cosa questo bene esiga. E allora lo evitano. (…) Talvolta credeva, con piacere e con stizza, che il suo viso offendesse. Quando gli altri parlavano si metteva silenziosa (…). Non la interessava niente; obbediva a Masa e ai padroni, perché da se stessa non avrebbe pensato né meno alla calza; e sentiva malvolentieri che tutto ciò che esiste non era soltanto in lei. (…) Non si sarebbe arrischiata ad avere qualche idea perché ne aveva troppe che non le si addicevano (…). Ma c’era in lei il presentimento e il senso di una vita, che le montava la testa come la ricchezza e il lusso degli altri.

 

Il presentimento di vita è quel che a Pietro manca: la sua esistenza è governata da quella confusione simile a una malattia che (come accade ai tanti Giovani delle novelle tozziane) lo mette di fronte alla vita stessa con gli occhi chiusi, incapace di vederne nitidamente i contorni, le coordinate spazio-temporali dell’azione; ma quel senso di Ghìsola per la vita, un po’ animalesco, un po’ dettato da una natura orgogliosa (si stimava molto migliore… si sentiva anche più intelligente e più astuta…), quel desiderio smodato di essere per sé e non per gli altri è proprio quello che lo fa innamorare, che gli fa inseguire per anni (severamente osteggiato dal padre) la ragazza, divenuta donna, in una sorta di ottusa cecità verso la condotta di lei – le scelte d’opportunismo, gli amanti, gli inganni – sino all’immagine conclusiva, di un’evidenza finalmente rivelatrice e brutale, di Ghìsola prostituta e gravida in una casa d’appuntamenti.

Efficacemente dunque sintetizza Giacomo Debenedetti: «Con gli occhi chiusi è, nel fondo, la storia di un amore che Pietro con tutti i mezzi porta al fallimento per punire, con la vista del proprio scacco, chi gli ha cagionato quell’impotenza psicologica di amare», ovvero il padre-padrone, grossolano, fedifrago, castrante.

Oggi ogni lettore attento vede bene quanti eventi siano contenuti in una trama apparentemente così vuota di grossi accadimenti: eventi mai effettivamente restituiti in una concatenazione logica di cause ed effetti, ma quasi soltanto evocati dalla scrittura spiazzante di Tozzi, scabra e mai rozza, spessa fino al turgore, enormemente impegnativa, vero baluardo del racconto di fronte alla esiguità dei fatti, di fronte a un protagonista che non possiede nemmeno la statura antieroica dei vinti verghiani. Dopo Debenedetti, negli anni Novanta studiosi del calibro di Baldacci e Luperini hanno riportato con fermissima determinazione l’attenzione della critica sull’opera di Federigo Tozzi; sicché, oggi, possiamo contare sul lavoro serissimo di ricerca e interpretazione di studiosi come Castellana o Tortora per impedire che si spengano i riflettori su una tra le figure più interessanti ed eterodosse della letteratura italiana. Ci rivolgiamo allora con gratitudine a chi fece da apripista e cerchiamo di farci suggerire da lui qualche perché che inviti alla lettura di questo «pregnante, labirintico, inesorabile capolavoro».

Perché mette le cartucce di dinamite sotto i passi del naturalismo

Con gli occhi chiusi (lo aveva già capito Pirandello, suo primo recensore nel 1919) dissolve il naturalismo muovendosi sulle sue orme, imponendo alla ragione di ridefinire i confini dei suoi territori di indagine del reale e alla rappresentazione di allargare vertiginosamente il repertorio (il labirinto) dei documenti umani. Tozzi sembra guardare la realtà alla maniera impassibile e impersonale appresa da Verga (che Tozzi ammirava), ma, davvero inesorabilmente, si spinge oltre: oltre la verità documentata dalla Storia, oltre la realtà delimitata da race, milieu, moment, oltre le convenzioni sociali, le convinzioni religiose, le costruzioni della morale, perfino oltre la dimensione psicologica dei personaggi disegnata dagli ambienti e dal tempo. E avanza – figura sol en segnoria – sino a imbattersi nel nucleo insopprimibile e oscuro che nessuna carestia, pestilenza, invasione, guerra, rivoluzione, riforma, conversione è mai riuscita a modificare. È – questo nucleo – una sorta di archetipo della psiche, insondabile e resistente, che minaccia qualsiasi tentativo da parte dell’Io di costituirsi in unità e ne altera impietosamente le coordinate identitarie ogni volta che crede di averle trovate negli schemi ordinatori – rassicuranti e condivisi – che gli esseri umani si danno: la famiglia, le amicizie, lo studio, il lavoro, l’amore. Perfino il paesaggio, pur nella sua apparente oggettività legata alla dimensione fisica del suo esserci – ed esserci uguale per tutti -, sfugge alla riconoscibilità confortante dei suoi elementi costitutivi. Ne osserviamo uno campestre e primaverile: la descrizione è talmente deformata rispetto alla percezione comune che la voce narrante dimentica per un istante la sua pretesa impersonalità e recupera – appena mortificata dal verbo al condizionale – la prima persona singolare, l’io:

Vorrei parlare di questi indefinibili turbamenti del marzo, a cui è unita quasi sempre una sottile voluttà, un desiderio di qualche bellezza.
Questi soli ambigui, questi cinguettii ancora nascosti e che si dimenticano presto, queste nuvole biancheggianti che sembrano venute prima del tempo! E le foglie secche, che sono ancora sopra i grani germogliati, mescolando il pallore della morte con il pallore della vita! Queste foglie di tutte le specie, che si trovano ancora sopra l’erbe per rinnovarsi; le piante potate, e i loro rami e i loro tralci, sparsi a terra, che saranno portati via per sempre! E questi rami secchi tagliati dai frutti, che esitano ancora a fiorire su le rame nuove! La terra un poco umida, che s’attacca alla punta delle vanghe, e i contadini sono costretti a pulirle con i pollici; e le zolle che rimangono agli zoccoli di legno! E quest’amore quasi matrimoniale e sconosciuto a noi di tutti gli esseri che s’aiutano; e anche i loro odii! E il vischio che nasce su i rami dei testucchi, tagliato con un colpo di pennato! Ma farà subito il ributto. E le gemme dei castagni!

Se questa è la percezione della campagna, non va meglio con la città. Ecco una Siena trasfigurata, che pare uscita da un quadro di Escher:

Non due tetti della stessa altezza, anche se accanto. Grumoli piccoli e grandi di case che s’allungano parallelamente obliqui e storti: alcune volte le case stanno a due e tre angoli l’uno dentro l’altro, a cerchio, a nodi, serrate insieme, mescolate, aggrovigliate, con curve rotte o schiacciate, sempre con improvvisi cambiamenti (…) ma anche queste s’interrompono quasi subito per doventare una raggiera più larga, irregolare, tutta piana oppure contorta; dentro la quale si mettono e s’avventano case, di sghembo, a traverso, come riescono e possono (…). Le case, bassissime, (…), sorreggono quelle che hanno a ridosso, le trattengono dalla loro voglia di sparpagliarsi più rade; i punti più alti sono come richiami alle case costrette ad obbedire per non restare troppo sole. Nei rialzi sembra che ci sia un parapiglia a mulinello, negli abbassamenti le case precipitano l’una addosso all’altra; come frane…

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, disseminati per l’intero romanzo, e tutti concorrerebbero a delineare una narrativa – un modo di intendere il reale e dunque di rappresentarlo – di segno completamente nuovo, e molto problematico. E veniamo al secondo perché.

Perché inaugura una narrativa dei comportamenti

Infranta la prospettiva unificante della oggettività, i doveri del narratore sembrano cambiare: alla descrizione/rappresentazione dell’oggetto in quanto tale (sia esso cosa, pianta, persona, fatto) si sostituisce irrimediabilmente la descrizione/rappresentazione di quei movimenti latenti che l’oggetto contiene. Compito del narratore è adesso quello di rifare all’oggetto la sua carta d’identità: una volta che la ragione s’è messa in via, esplorando – come si diceva – territori nuovi, estesi ben oltre la superficie definita dalla forma, all’oggetto bisogna fornire piuttosto un passaporto idoneo a superare la dogana di convenzioni, credenze e imposizioni e utile a monitorarne i movimenti incessanti verso l’esterno e verso l’interno. Il narratore, insomma, non guarda più all’oggetto com’è, ma all’oggetto come si comporta, sia esso materiale e immateriale, fatto o persona. Osserviamone qualcuno mentre viene a contatto con l’esterno.

L’ombrello di Anna, apparentemente innocuo, è in grado addirittura di tracciare la distanza sociale:

Per pararsi il sole, che le faceva subito dolere la testa, aveva un ombrellino rosso con il manico d’avorio; un ombrellino di parecchi anni. Ella, quando vedeva le assalariate, se ne vergognava; e, chiudendolo, stava piuttosto sotto una pianta. Mentre invece, andando alla messa, lo portava volentieri; e magari se lo faceva reggere da Ghìsola.

Le strade quasi rinunciano alla loro funzione di facilitare e indirizzare i movimenti altrui, perché esse stesse sono preda dei loro movimenti dispersivi:

Strade che si dirigono in tutti i sensi, si rasentano tra sé, s’allontanano, si ritrovano due o tre volte, si fermano; come se non sapessero dove andare (…). Cerchi e linee contorte di case, quasi mescolandosi come se ogni strada tentasse di andare per conto proprio…

Perfino la fede politica – slancio supremo dell’io verso l’altro da sé – è abbracciata in nome di quel movimento nascosto e non di un’adesione ragionata, non nei termini di una riflessione ponderata su quanti elementi concorrono a determinare la dimensione della polis:

Da ragazzo quella voce (del padre) lo spaventava, gli faceva male (…). Ora ne provava una scontentezza esasperante. E, convinto che non avrebbe dovuto soffrire a quel modo, si esaltò sempre più nelle parole di riscatto e di giustizia; come trovava scritto in certi opuscoli di propaganda prestatigli dal suo barbiere. Entrò nel partito socialista, e fondò perfino un circolo giovanile. Prima di nascosto, e poi vantandosene con tutti quelli che capitavano nella trattoria. La sua ambizione doventò, allora, quella di scrivere articoli in una Lotta di classe, che usciva tutte le settimane. E se la polizia lo avesse fatto arrestare, sarebbe stato contento. Sognava processi, martirii, conferenze ed anche la rivoluzione. Quando un altro lo chiamava «compagno», si sarebbe fatto a pezzi per lui; senza né meno pensarci.

Insomma, qualsiasi oggetto è in movimento, non sta mai nei suoi spazi, e si mette così costantemente nella posizione di potenziale invasore o di vittima delle invasioni altrui. E nemmeno lo spirito sta al posto suo: anche lui rompe gli argini ed esonda, costringendo l’io a subire l’invasione delle immagini esteriori:

Cercava di superare le sue malinconie; ma non poteva dimenticarle quanto avrebbe voluto. Talvolta ne era distaccato di soprassalto; e allora gli veniva uno stato mentale confuso e torbido che pareva sempre per andarsene. E aveva l’illusione che il suo spirito assumesse così enormi proporzioni che i suoi pensieri vi si smarrivano dentro, insieme con i loro echi improvvisi, come in una stanza troppo grande. Quante volte non s’era considerato perduto, mentre le immagini esteriori lo invadevano senza tregua! Ora gli pareva di avere la propria anima; ora diminuiva; mentre questi movimenti gli davano un malessere come quello delle vertigini.

Perché guarda la psicologia da un versante notturno

Quel movimento interno, applicato agli uomini e alle donne, lo chiameremo psicologico, ma solo in riferimento a quella che Debenedetti chiama psicologia notturna. Tozzi, infatti, mobilita anche in questo romanzo, come già nelle novelle, le sue conoscenze in materia di psicologia, ma, così come avviene nei confronti della ragione del naturalismo, di quella nascente disciplina sembra rifiutare la funzione ordinatrice: quello che viene osservato, e dunque rappresentato, deve restare così come è percepito, cioè scomposto, magmatico e oscuro come fosse osservato in notturna; come un sogno.

Sono famose le pagine del romanzo dedicate ai sogni di Ghìsola e Pietro, inquietanti e intraducibili nel linguaggio dello psicoterapeuta e perfino indifferenti a questa traduzione. Ghìsola non ha più il buon contegno di prima. Ambiziosa e caparbia, vuole fare il comodo suo, non vuol più stare a servizio, e viene dunque scacciata da Poggio a’ Meli e rispedita a casa dai suoi. Il narratore entra nel sogno di Ghìsola, l’ultima notte trascorsa al Poggio; la ragazza è a letto, dapprima finge di dormire, insofferente ai nonni, all’odore delle lenzuola poco pulite, a quella punizione che le fa venire piuttosto voglia di ridere: non ha mai creduto che doveva esser quella la sua vita e sta per andarsene in cerca di un’altra. Anche lei, come ‘Ntoni, «sradicata in cerca di realizzazione» (Luperini), ma, a differenza del giovane Malavoglia, con gli occhi chiusi tanto sullo spazio che lascia, quanto su quello di cui è alla ricerca. Il suo è dunque un desiderio poco nitido, che in quella notte riemerge, lotta per difendersi, e gronda sangue come la colpa di un delitto atroce e primigenio, e pesa, ha un peso fisico, materiale, che è ciò che finalmente la sveglia e la fa urlare:

Le pareva d’entrare in casa: la mamma aveva un vestito nuovo, le due sorelle erano ingrassate. Una voce le chiese: – Che cosa ci fai qui?

Ed ella rispose: – Non lo so: non ci sono venuta da me. Ma il babbo dov’è nascosto?

– La colpa è tua.
Ripigliava la voce.
La mamma e le sorelle ascoltavano e guardavano, con un silenzio così orribile ch’ella si slanciava addosso a loro; perché andassero nell’altra stanza. Ma le pareva di non poter muovere le braccia, e di urtare con il capo in una parete invisibile. Allora sentiva che il cuore cambiava di posto, il ventre faceva lo stesso, la gola si spellava; e i volti della mamma e delle sorelle doventavano spaventevoli. Ella disse: – Parlate!

Quelle si volsero ad un uscio; e il babbo, con due sacchi pieni su le spalle, con il viso grondante di sangue, tanto sangue che andava a empire la gora del mulino, salì le scale.
Ella, sentendo il peso dei sacchi addosso, urlò.

L’urlo di Ghìsola è tuttavia una forma di reazione al silenzio orribile dei suoi. Pietro invece, messo di fronte al mistero insondabile di sé, alla spalancatura interminabile della sua anima, ne ricava soltanto un retrogusto amaro, e l’ennesimo rimprovero del padre, seduto a fianco a lui alla guida del calesse sul quale il ragazzo s’è addormentato:

Intanto un sogno cupo aveva invaso Pietro: il cavallo era trascinato, all’inverso, con il calesse, dentro una spalancatura interminabile della sua anima.

Ad un tratto, con un moto improvviso e involontario, dopo aver sentito il sapore della propria bocca, sospirò; e mosse la testa innanzi, quasi fosse per cadere.

Domenico gridò: — Che hai?

Credette che avesse sonno e gli voleva dare un pugno.

Forse più di ogni altro specchio questo romanzo aiuta a guardarsi dentro, ad aprire bene gli occhi sulla vita interiore, risparmiandole la mortificazione dello sguardo indagatore e impudico degli altri e il complesso d’inferiorità di chi trascorre la propria esistenza nell’ignoranza cieca e muta di sé:

Egli pensò: «Sì, lo sa. Gli altri sanno tutto di me. Io, no». Quella sua vita interiore che si sovrapponeva sempre! Come si disperava di poter gustare soltanto dopo, e nel silenzio di se stesso, quel che aveva provato e non detto! E si giudicava perciò inferiore agli altri.

{module Articoli correlati}

Articoli correlati

Comments (3)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Roberto Contu

Editore

G.B. Palumbo Editore