Diario di un autore avventizio/1
Pubblichiamo a partire da oggi la prima delle cinque puntate del "Diario di un autore avventizio", che Romano Luperini ha scritto in occasione della pubblicazione del suo nuovo romanzo: "La rancura". Gli articoli verranno pubblicati ogni venerdì e si concluderanno con l'anticipazione di un brano del romanzo.
Sto per pubblicare un romanzo. Un vero romanzo. E con un editore di primo piano. Sinora avevo scritto di narrativa solo con la mano sinistra e quasi di nascosto, presso editori minori (il più importante, forse, era stato Sellerio nel 2008).
Per un critico e un saggista saltare il fosso e collocarsi dall’altra parte, quella di chi è valutato e giudicato, non è facile. Il rischio è quello di rovinarsi una identità già assodata, di avventurarsi in un campo nuovo e inesplorato. Come autore di romanzi, insomma, sono un autore avventizio.
Perché dunque? Cosa me lo fa fare? Per rispondere a questa domanda, che da tempo rivolgo a me stesso, posso invocare ragioni personali e ragioni oggettive di carattere, diciamo così, sociologico.
Ho patito una gravissima malattia che mi ha condotto due volte sulla soglia della morte. Ho avuto una lunghissima convalescenza (a dire il vero, dopo più di tre anni, non ancora conclusa), ho lasciato l’università e sono andato in pensione. Sono entrato così come in un limbo in cui motivi esistenziali e psicologici, a lungo tenuti sotto controllo, sono emersi con forza. Per quali travasi del sangue io sono io? Che rapporto c’è fra le generazioni, fra mio nonno, mio padre e me? Quale continuità, quale rottura? E anche: esiste una ragione valida per continuare a vivere, a dare senso (un qualche precario e provvisorio senso) alla vita?
Nello stesso tempo ho avvertito sempre di più il bisogno di incontrare nuovi interlocutori, di superare il muro di vuoto e di silenzio contro cui, da trenta anni a questa parte, batte la testa il critico letterario. Quando ero un saggista esordiente o alle prime armi, dopo il Sessantotto e ancora per tutti gli anni Settanta, i miei scritti avevano un’eco nella società civile e nei movimenti di lotta. Ancor oggi mi capita di incontrare medici, insegnanti, avvocati, a volte anche operai, che conservano il ricordo di quei saggi che evidentemente, pur occupandosi di temi letterari e culturali, avevano per loro anche un interesse in qualche modo politico. Poi l’impatto con la società si è ridotto sin quasi a scomparire: oggi un libro di critica o di teoria letteraria circola perlopiù solo in un ambito asfittico, molto ristretto e specialistico. Così argomenti e temi che in questi ultimi anni hanno suscitato in me interrogativi e riflessioni rischiavano di restare inespressi. Per esempio: cosa è cambiato dagli anni del fascismo a oggi? Perché avverto una rottura antropologica non con mio padre e nemmeno con mio nonno, ma con quanti sono nati dopo gli anni settanta del Novecento?
Come rispondere contemporaneamente a queste domande esistenziali e politiche? Scrivere un romanzo mi è sembrata una risposta plausibile, un romanzo che affrontasse, insieme, la storia d’Italia dal fascismo a oggi, quella delle generazioni che si sono succedute e dei conflitti che le hanno contrapposte, e anche la ricerca privata e contraddittoria di un senso nelle uniche cose che per me contano: i rapporti degli uomini fra loro, il confronto con i padri e quello che avvicina e spesso contrappone uomini e donne, il maschile e il femminile. E se scriverlo e soprattutto pubblicarlo comportava dei rischi, andavano corsi. Dovevo dunque inventarmi, o reinventarmi come autore, avventurandomi, fra l’altro, in un mondo, quello della editoria, dove un romanzo è soprattutto una merce da vendere sul mercato (anche il saggio lo è, ma il suo valore economico è in genere così scarso che è facile dimenticarsene). Non aveva senso allora cercare un editore minore, meno compromesso con le logiche di mercato. Se per me questo romanzo era importante, se dovevo mettere in gioco la mia identità, tanto valeva calare questa carta senza ambiguità. Chi compra un’auto sceglie quella che crede più efficiente e brillante, non quella politicamente più corretta. Quando Mondadori ha accettato il romanzo, ne sono stato felice.
Ovviamente tutto non è stato così semplice e chiaro come ora lo descrivo. Per esempio, a un certo momento anche Feltrinelli aveva accettato di pubblicare l’opera d’intesa con Transeuropa, e sono stato per un paio di settimane nell’incertezza. Poi ho seguito la logica che mi ero imposto, mi sono rivolto a un’agenzia libraria perché trattasse per mio conto con entrambe le case editrici seguendo come unico criterio l’interesse del libro. Confesso che l’idea di poter costituire una sia pur modesta merce contesa fra due imprese capitalistiche per qualche tempo mi ha gettato nell’ansia. Ma quando l’agenzia, dopo aver valutato le diverse offerte, mi ha espresso la sua opzione per Mondadori, non ho avuto dubbi nel seguirne le indicazioni.
Così eccomi qui alla vigilia dell’uscita di questo libro, così diverso da tutti quelli da me pubblicati da saggista. Si intitola La rancura (termine montaliano), è un po’ un romanzo storico, un po’ un’autofiction. A un’età ormai avanzata mi scopro un autore avventizio.
Commenti
Male nell'uno e male nell'altro caso, tanto sotto il dominio di un superego che ti sbriciola, tanto di un es che distrugge ogni istanza progettuale lasciandoti ugualmente sperso e disperato. La soluzione è sempre nell'equilibrio, e hai ragione Romano quando dici che anche la letteratura nasce da un equilibrio, da un compromesso tra passione e razionalità, tra espressione soggettiva e esigenza di comunicarla, di verbalizzarla – un equilibrio talvolta più vicino all'uno, talvolta all'altro polo. Se evocando il tema dei padri davo il benvenuto al superego era perché, al cospetto di tanto “narcinismo” (e nichilismo) nella società come a scuola, tornare a parlare di legge e di morale mi sembrava una specie di boccata d'aria, diciamo un buon contropeso.
Ma educare (ed educarsi) a vivere non può ridursi a resuscitare vuote autorità, semmai può indicare la via di un piacere che non si consuma nell'immediato e nell'effimero, ma che presume il lavoro, la lenta appropriazione, l'espressione e la comprensione, la tensione e l'abbandono – una via che anche la letteratura insegna. Per esempio, i giovani che sperimentano seriamente la scrittura affrontano (come gli autori veri) il problema di esprimere se stessi e il loro mondo in modo comunicabile e socializzabile, imparano a governarsi, a bilanciare le varie parti di sè, e tutto per dare voce a quelle emozioni che sono l'inchiostro di cui siamo fatti tutti.
Non credo che la letteratura appartenga unicamente alla sfera dell’ES o del superego. Piuttosto, come sostenne, mi pare, Gravina e come ripete Montale, la letteratura, quando ha valore artistico, è un sogno fatto alla presenza della ragione. La letteratura, si sa, non crea nessun obbligo, perché, come il sogno, ci porta al di là del mondo della prassi e della immediatezza reale, e tuttavia compie questa operazione in modo comunicativo, cioè rispettando certe convenzioni razionali e sociali. Non mi ha mai convinto l’idea che la poesia sia espressione immediata dell’inconscio. Ma questo non significa che obbedisca a leggi morali e superegotiche. Tu giustamente rapporti il tuo discorso alla esperienza didattica, ma perché un giovane si appassioni alla letteratura deve ritrovare in essa le spinte pulsionali, i sentimenti, e soprattutto le emozioni che lui stesso sperimenta ma a cui spesso non sa dare parola, espressione, comunicazione razionale.
Se poi arriva a capire che le passioni e le emozioni e le idee hanno una loro dignità e una loro grandezza, sia che nascano dall’amore che dalla politica o dalla morale, il più è fatto. Quando un ragazzo impara ed emozionarsi per la grandezza delle emozioni e delle idee, e ad ammirarla, allora si può dire che sta per raggiungere davvero la maturità umana e culturale.
Romano Luperini
Leggendo le parole di Luperini, che di letteratura si è occupato tutta la vita e che alla letteratura – in quale forma che sia – continua ad affidarsi per cercare un senso, un dialogo, un filo rosso con
l'interlocutore, mi sembra importante e bello. Fa capire che la letteratura aiuta a vivere,semplicemente. E' uno strumento per comprendersi e comprendere, e nasce da un bisogno di senso che ci coinvolge tutti, indistintamente.
Il tema del padre (anzi direi dei padri) è un altro modo – credo - per chiederci chi siamo, chi ci abbia dato il sangue, quale sia la nostra rotta. In questi tempi di narcisismo e strapotere dell'Es, mi pare che un salto nel super Io non sia proprio cosa da poco.
Sabiana Brugnolini
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