È appena uscito, per Mimesis editore, il volume di Sara Luchetta, Dalla baita al ciliegio. La montagna nella narrativa di Mario Rigoni Stern, che rilegge l’intera opera di questo scrittore attraverso la rappresentazione dello spazio montano. Per il metodo, la lingua e i temi i libro è di grande interesse sia critico che didattico. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autrice, un estratto dal terzo capitolo “Raccontare una montagna che si muove” [pp. 87-93]
Un patrimonio di storie mobili
La mobilità è legata a doppio filo con la vicenda biografica di Mario Rigoni Stern e con la sua opera letteraria. Il muoversi, per dovere, volontà o per un incrocio di occasioni, fornisce spunti per i contenuti e le forme del raccontare. Lo stesso vale per l’immobilità, forzata o decisa, che proprio in rapporto al movimento così presente nelle opere dello scrittore assume un valore preciso, ove presente. Lo scambio continuo fra stasi e mobilità rimbalza dalla vicenda dello scrittore alla parola del racconto: Rigoni Stern viaggiò lontano dal suo Altipiano (arruolandosi per scelta e partendo poi per forza per il fronte allo scoppio della guerra), vi ritornò alla fine della prigionia in campo di concentramento e vi rimase per il resto della sua vita. A questi movimenti, che hanno segnato in maniera indelebile lo scrittore, si aggiungono le tante mobilità degli abitanti dell’Altipiano, degli animali, delle cose e delle idee, che il narratore osserva, ricorda, studia nel tempo della propria vita. Bisogna poi ricordare che la decisione di rimanere ad abitare nella terra natia non impedì allo scrittore di mantenere un dialogo continuo e mobile con il resto del mondo, a diverse scale, attraverso il rapporto con i tanti lettori e le tante persone con le quali aveva intrecciato una parte della propria vita.
La mobilità non è però solo un argomento, un tema che emerge dalla vicenda dello scrittore e di chi gli sta attorno, ma è anche una forma, un modo di leggere e scrivere le cose. La mobilità diventa allora una forza sotterranea, di cui la letteratura di Rigoni Stern si appropria, portando il lettore ad avvicinarsi ad un mondo che è alternatamente fermo e in movimento. La mobilità e la stasi si danno forza l’una all’altra, dal punto di vista dei contenuti come dal punto di vista formale; ce lo ricorda Affinati nell’introduzione al Meridiano, parlando de Il sergente nella neve e suggerendo il rapporto strettissimo tra la prima parte della narrazione dedicata al caposaldo (l’immobilità) e la seconda parte dedicata alla ritirata (la mobilità). Per Affinati il caposaldo “ha una trama agglutinata” fatta di alpini, cose, momenti, mentre la seconda parte “consente al racconto di procedere con andatura sonnambolica”; ecco che la vicenda esistenziale – individuale e collettiva – diventa allo stesso tempo un tema irrinunciabile da condividere attraverso il racconto, e una forma, un modo di scrivere le cose che si vogliono raccontare.
Si è già avuto modo di vedere come Rigoni Stern amasse definirsi “narratore”, facendo riferimento alla figura (quasi un archetipo) delineata da Walter Benjamin. La fenomenologia del narratore per il filosofo e critico letterario tedesco si divide sostanzialmente in due gruppi, due tipi fondamentali, che sono complementari. Da una parte esiste il narratore che viaggia e che ha molto da raccontare proprio perché ha maturato esperienze diverse e viene da lontano; dall’altra parte c’è il narratore che “è rimasto nella sua terra, e ne conosce le storie e le tradizioni”, un narratore dunque che predilige una certa stasi e una conoscenza profonda di tipo temporale più che spaziale. Per Benjamin, le due figure archetipiche che corrispondono a questi due gruppi sono il mercante navigatore e l’agricoltore sedentario. Mario Rigoni Stern, come il narratore russo Nicola Leskov a cui il saggio di Benjamin è dedicato, “è a suo agio nella lontananza dello spazio come in quella del tempo”, incarna le due forze complementari dell’andare e del rimanere, del muoversi e dello stare fermi. L’intera opera dello scrittore attinge da queste due forze, dando forma a un dialogo prezioso che ci porta ad esplorare i significati e le sfaccettature di mobilità e immobilità della montagna raccontata.