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diretto da Romano Luperini

Perché leggere Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu

Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Marcia su Roma e dintorni è un libro che tutti dovremmo leggere o rileggere. E non solo per gli ultimi fatti di cronaca e perché il fascismo sta pericolosamente tornando di moda.

Lussu lo scrive di getto, nell’esilio che si è guadagnato con la fuga dal confino di Lipari. È un libro d’occasione, si potrebbe dire: redatto nell’urgenza di eventi tragici e indotto dal bisogno di riflettere per continuare ad opporsi a una dittatura che in quel momento ha vinto.

La prima edizione esce in francese nel 1931, a Parigi, dove Lussu si è rifugiato; la seguono l’edizione italiana del 1933, ancora a Parigi, e le due edizioni inglesi, una a Londra e l’altra a New Yorki. È il libro di un esule, dunque, in continuità di pratiche e intenti con quella letteratura risorgimentale dell’esilio a cui, forse, a Lussu non sarebbe dispiaciuto essere associato. In continuità di pratiche perché anche Lussu come i patrioti italiani dell’Ottocento sente l’urgenza di scrivere per riflettere sulla sconfitta. In continuità di intenti perché il Sardinian patriot, come lo definisce il titolo dell’edizione newyorkese, sceglie di parlare a un pubblico straniero, che gli permetta di uscire dalla prospettiva angusta del fascismo italiano:

Il lettore straniero, seguendo le vicende che si sono svolte attorno ad un oppositore democratico, può farsi un’idea, a grandi linee intuitive, del fascismo, dell’antifascismo e della stessa civiltà italiana.

Ma non bisogna generalizzare. Un popolo non può essere rappresentato dai contrasti di un’ora, né la civiltà di una nazione può essere dedotta da un frammento di secolo.

Il dialogo con un lettore estraneo ai fatti è, forse, il primo elemento che affascina della scrittura di Lussu; e non solo perché rende il racconto adatto a chi a quei fatti è straniero, oggi, per distanza di tempo se non di spazio. È una scrittura che ci convoca, che chiede il giudizio, come si legge nella Prefazione del 1931:

il fascismo che io descriverò è il fascismo che ho visto sorgere, progredire, affermarsi. Molti aspetti mi sono certamente sfuggiti; ad altri ho probabilmente dato maggiore importanza. Ma questo è inevitabile a chi guarda con occhi di uomo di parte. Solo il tempo consentirà, forse, una critica meno soggettiva: oggi ciascuno di noi porta in sé non solo idee ma anche e soprattutto passioni. Noi possiamo offrire la nostra testimonianza e le nostre impressioni: agli altri, il giudizio.

“Agli altri, il giudizio”: un’espressione che ha conquistato gli studenti della quinta con cui ho condiviso questa lettura e che ci pone una domanda importante su cosa sia la scrittura di testimonianza, ma – io credo – anche su cosa sia la letteratura.

Al contrario di quanto sostiene la premessa di De Luna alle molte ristampe Einaudi, la scrittura di Lussu non è soggettiva; basterebbero a dimostrarlo i toni asciutti con cui gli avvenimenti vengono narrati, anche i più tragici:

Un infermiere mi avvertì che un ferito gravissimo chiedeva di potermi vedere. Mi feci accompagnare subito da lui. Era un mio vecchio compagno di guerra: Efisio Melis. Aveva fatto tutta la guerra in fanteria ed aveva una medaglia al valore militare. Dopo la guerra si era sposato e lavorava da operaio in officina. Era un antifascista molto conosciuto. Io lo vedevo spesso e gli ero affezionato. […]

Due suoi amici che lo avevano trasportato all’ospedale mi raccontarono la sua aggressione. Egli si trovava in una piazza, fra gli spettatori, al passaggio di una colonna fascista; aveva in braccio il suo bambino e, come gli altri, s’era anch’egli rifiutato di levarsi il cappello. Un fascista del suo rione gli aveva inferto perciò due pugnalate all’addome. Egli era un valoroso, ma il bambino gli aveva impedito di difendersi. Il medico che lo curava mi disse che non vi era alcuna speranza di salvarlo.

È il racconto della morte di Efisio Melis, ferito in occasione della manifestazione fascista del 27 novembre 1922, voluta da Mussolini per costringere alla sua causa la popolazione sarda, che gli era per la maggior parte avversa. Un evento drammatico, tragico umanamente, perché troncò la vita di un giovane di 27 anni in attesa della nascita del terzo figlio, e politicamente, perché fu tappa di quel crescendo di violenze e soprusi che culminò con il rapimento e l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, narrato in toni altrettanto limpidi e privi di retorica nel capitolo XX.

I dettagli, la cronaca scrupolosa degli eventi, i nomi, i luoghi, le date non cercano mai, nelle pagine di Marcia su Roma e dintorni, il coinvolgimento emotivo del lettore: hanno lo scopo di consegnargli tutti gli elementi di giudizio. Un giudizio severo quello che Lussu esprime sul comportamento della classe dirigente italiana e in particolare della monarchia e che chiude il resoconto dell’ultimo atto dell’avvento della dittatura fascista: la passività con cui il re e la classe dirigente italiana dell’epoca subì e accettò l’assassinio di Matteotti. Il deputato Viola si reca da Vittorio Emanuele III per chiedere, a nome dell’Associazione dei Combattenti, di cui è presidente, di sconfessare Mussolini e ripristinare «tutte le libertà che la Costituzione contempla»; Lussu scrive:

nessuna delegazione pagana attese mai con maggiore trepidazione il responso dell’Oracolo. Il re ascolta, pallido in volto, tutto il discorso. Poi dice, col tetro sorriso di uno spettro:

– Mia figlia, stamattina, ha ucciso due quaglie.

La delegazione allibisce. Uno si confonde e, sudando freddo, lentamente, tremante, risponde con lo stesso sorriso:

– A me piacciono assai le quaglie fritte con piselli.

In questo modo ha termine la più solenne ambasciata di libertà che il popolo italiano ha mandato al sovrano.

Il capitolo si chiude, così, sui toni amari e graffianti della farsa, incarnata da un personaggio, l’onorevole Viola, che, commentando l’infelice esito dell’ambasciata, esclama «noi sapremo morire in piedi!», ma che, di lì a poco, si integra nella dittatura come avverte Lussu («è superfluo notare che anch’egli, l’on. Viola, ha dovuto piegare»). L’ironia che chiosa il “piegamento” del presidente dell’Associazione combattenti («Che vale contrastare il terreno al nemico invincibile? È più saggio gittare le armi e fare addirittura con esso causa comune.») ci invita a non indugiare sugli eroi, che pure vi furono e a cui, attraverso la citazione di Machiavelli in exergo («tutti e profeti armati vinsono e gli disarmati ruinorno»), il libro è dedicato.

Più ancora che alle pagine di Levi, cui può avvicinarla il nitore della riflessione impietosa di chi si è assunto il compito di testimoniare perché altri giudichino, Marcia su Roma e dintorni fa pensare al Manzoni della Storia della colonna infame, di cui condivide l’urgenza di capire e, ad essa strettamente connessa, la tensione morale. Anche alle pagine di Lussu, infatti, mi sembra si possa attribuire la virtù di potente antidoto al qualunquismo che Sciascia riconobbe al lavoro manzonianoii. La vicenda della marcia su Roma e le sue implicazioni sulla vita degli “oppositori democratici” assume, nella prospettiva straniata dell’esule, il valore paradigmatico dell’analisi della civiltà italiana. Nello scontro fra fascismo e antifascismo si gioca un contrasto che – sembra suggerire Lussu – può dirci qualcosa di chi siamo. Il resoconto dell’ascesa del dittatore assume, così, fin dalle prime pagine, anche le tinte dello studio antropologico, in un’analisi amara, ma a tratti quasi sorridente, della debolezza umana:

io ho avuto un amico, professore di Università, oggi Magnifico Rettore in uno dei più celebri Atenei italiani, il quale ebbe momenti di terror panico, ossessionato dalla certezza che i «bolscevichi» gli avrebbero portato via la moglie […]. Ricordo anche il panico di un mio lontano parente, grosso proprietario di terre. Terrorizzato dalla paura di perderle, non faceva che ripetermi: – Poveri figli miei! E come vivranno? – Veramente, di figli, egli non ne aveva […]. Sono passati dieci anni e, che io mi sappia, non ha ancora avuto il primo figlio. L’uno e l’altro, il professore e l’agrario, sono or fascisti autorevoli.

E il giudizio sulle azioni di ciascuno dei protagonisti degli eventi narrati emerge dai fatti, costretti a parlare da un’ironia leggera, da un sorriso che, più dell’invettiva, imprime nella memoria episodi e personaggi:

uno dei miei aggressori, squadrista noto e compagno del signor Nurchis, tale Baldussi, sentì il bisogno di recarsi a casa di mia madre, vecchia e malata, e di insultarla. Anch’egli era fuggito, la notte della mia aggressione, e si era distinto per la velocità con cui aveva sgombrato la piazza. In seguito a questo aveva perduto un poco del suo prestigio presso i compagni spettatori; i quali, per altro, lo avevano volentieri imitato. Ora, questo suo contegno di audacia, di fronte a mia madre, vale molto a fargli riconquistare gran parte della reputazione perduta.

La viltà di Baldussi, il rovesciamento di valori su cui si fonda e con cui si legittima la violenza fascista emergono proprio grazie al pregio letterario di questo “documento” della storia italiana del secolo scorso. Se l’intento di Lussu sia stato, come ha sostenuto De Luna, “propagandare” nell’Europa democratica gli ideali dell’antifascismoiii, la forza e l’attualità delle pagine di Marcia su Roma mi sembra vadano cercate nella scelta narrativa, “letteraria”, appunto, del suo autore. Una letterarietà che proverò a illustrare a partire dalle parole della Prefazione all’edizione in Italia (Roma, 31 ottobre 1944):

rileggendo Marcia su Roma e dintorni dopo tanti anni e con una maggiore esperienza politica, io mi accorgo che il libro è ben manchevole. Vero è che io intendevo rivolgermi prevalentemente al pubblico francese e angloamericano, ma, anche con questa intenzione, esso mi appare ugualmente manchevole. Alcuni giudizi inoltre ora mi sembrano troppo semplicistici e certamente da rivedere. Ma io lo affido al pubblico dell’Italia libera, o in via d’essere libera, così come è uscito nella prima edizione, perché il libro non ha mai voluto essere un’opera storica. Esso è solo un documento soggettivo su un periodo della civiltà italiana. E i documenti soggettivi non si possono ripubblicare aggiornati, riveduti e corretti.

Come debba essere intesa la definizione di “documento soggettivo” si apprende dalla prefazione originaria, quella del 1931, in cui l’autore si dichiarava “uomo di parte”, dotato, cioè, di uno sguardo “appassionato” («oggi ciascuno di noi porta in sé non solo idee ma anche e soprattutto passioni»). Marcia su Roma e dintorni convoca il lettore, ne chiede il giudizio proprio per questa sua caratteristica, perché, come la grande letteratura, nella forma del suo raccontare imprigiona le domande che la storia ha lasciato irrisolte, le questioni politiche, ma anche umane, esistenziali, che determinate situazioni e eventi svelano. L’energia della sua scrittura risiede nelle ragioni stesse della sua origine, quell’urgenza di comprendere, di scrivere per indagare se stessi, le cause delle proprie sconfitte insieme alle vicende di un popolo e di una nazione. Una qualità che Carlo Ginzburgiv, all’inizio del nostro secolo, riconosce alla letteratura e indica come valore irrinunciabile della conoscenza, antidoto alla pericolosa deriva relativistica che egli, da storico, intende combattere. E a chi crede di poter rinunciare al giudizio, di poter cancellare la realtà in un generico e falsamente democratico equiparare i morti di ciascuno schieramento e le idee di qualunque parte sembrano davvero rivolgersi le parole della prefazione del 1931:

Poiché questo libro può suscitare critiche nel campo italiano, io mi sono preoccupato di non inserirvi un solo episodio che non possa essere documentato. La sostanza dei fatti che io rievoco non può essere smentita. Quessto non toglie che i giudizi che uno stesso fatto determina possano essere discordi. Chi dà un colpo di sciabola, non proverà evidentemente le stesse impressioni di chi lo riceve. Non per tanto il colpo di sciabola sarà sempre un colpo di sciabola.

Se traduciamo “di parte” con “soggettivo” nel senso che diamo noi oggi a questo termine di “libero da ogni legame con la realtà concreta e verificabile”, ci rendiamo complici di quel relativismo che rischia di renderci incapaci di condannare atti come quelli di Roma; un relativismo che potrebbe, di nuovo, come negli anni Venti del Novecento, farci tornare impotenti di fronte al dilagare di una violenza espressione, prima di tutto, di disagi e paure, queste sì, soggettive e facilmente strumentalizzabili.

Il “pubblico dell’Italia libera” ha bisogno di leggere, di rileggere le pagine di Marcia su Roma e dintorni non tanto per conoscere il passato recente – conoscenza certo importante – quanto per apprendere quell’attitudine al confronto sui fatti e al giudizio che è fondamento del vivere democratico e fa della letteratura lo strumento più potente di dialogo con gli altri e con se stessi.

i La marche sur Rome … et autres lieux, Paris, 1931; Marcia su Roma e dintorni, Paris, Critica, 1933; Enter Mussolini: observation and adventures of an anti-fascist, translated from the italian by Marion Rowson, whith a preface by Wickham Steed, London, Methen, 1936; Road to exile: the story of a Sardinian patriot, translated by Graham Rowson, whith a preface by Wickham Steed, New York, Covici, 1936.

ii Il riferimento è a Sciascia Introduzione alla “Storia della colonna infame”, ed. Sellerio 1981.

iii Così De Luna nell’introduzione del 2002: «è comprensibile, quindi, che nello scrivere il suo libro Lussu avesse ben altre preoccupazioni che farsi storico degli eventi che avevano scandito la vicenda politica italiana dal 1919 in poi. […] I suoi intenti erano esplicitamente propagandistici e i suoi destinatari erano le opinioni pubbliche delle democrazie occidentali» (E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Torino, Einaudi, 2002, p. 2).

iv Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso fibto, Milano, Feltrinelli, 2015. In particolare si veda il cap. 9 “L’aspra verità. Una sfida di Stendhal agli storici”, pp. 167-184.

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